Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista / Giorgio

Pubblicato nel 2017, Creazione e anarchia è una raccolta di cinque conferenze tenute dall’Accademia di Agamben nella Accademia di Architettura di Mendrisio, Università della Svizzera Italiana, tra ottobre 2012 e aprile 2013. Quella considerata nel volume non è, quindi, una tematica inesplorata o non correlata al suo pensiero ma un asse centrale di articolazione e di confronto con idee espresse in opere precedenti, qui attraverso le categorie di creazione e anarchia, in vista o concezione del lavoro in prospettiva della “religione capitalista” debitrice degli scritti di Walter Benjamin. I cinque contributi analizzano la connessione tra i concetti di principio, creazione e comando. In Archeologia dell’opera d’arte, primo testo del volume, Agamben avverte che l’archeologia è “la sola via di accesso al presente” (p.9). Ereditando da Foucault il metodo che usa il passato come lanterna per alleggerire il presente, Agamben indica la crisi dell’Europa in relazione al suo passato, nella considerazione odierna dell’opera d’arte. Seguendo le orme di Wittgenstein, egli afferma che i problemi filosofici sono in fondo domande sul “significato delle parole” (p. 11), e che quindi bisogna capire se il significato di “opera” sia qualcosa di fatto dall’arte e appartenente ad essa, o qualcosa che dipende dall’arte e dal suo significato.

Agamben si interroga sulla situazione dell’opera d’arte in tre momenti storici. Il primo è individuato nella Grecia classica: i greci non hanno distinto “il lavoro e l’attività produttiva dall’opera, perché, ai loro occhi, l’attività produttiva risiede nell’opera e non nell’artista che l’ha prodotta” (p. 14).

Nel libro Theta della Metafisica, Aristotele si concentra sul problema del potere (dynamis) e dell’atto (energeia), affermando che l’opera d’arte appartiene “costitutivamente alla sfera dell’energeia, la quale, d’altra parte rimanda nel suo stesso nome a un essere-inopera” (p. 15). Quindi l’opera d’arte risiede nell’opera, e non nell’idea dell’artista.

Il cambio di prospettiva sorge nel Medioevo, quando l’opera d’arte risiede nell’idea dell’artista. L’ipotesi di Agamben è che ergon ed energeia “sono nozioni complementari e, tuttavia, incomunicanti, che formano, con l’artista come loro medio, quella che propongo di chiamare la ‘macchina artistica’ della modernità” (p. 20), punto nodale che unisce opera, artista e operazione. Riferendosi al monaco tedesco Odo Casel come figura decisiva per il movimento liturgico nel suo paese, recupera la genesi della liturgia come un evento in sé. Stabilisce quindi un’analogia tra la sacra azione liturgica e quella delle avanguardie artistiche contemporanee, che sembrano esercitare un vero rituale nell’esecuzione delle loro opere.

Agamben menziona il ready-made di Duchamp, che era consapevole di non agire come un artista: i suoi interventi potevano essere considerati una sorta di profanazione della macchina “opera-artista-operazione’, come l’esposizione di un orinale in un museo – un’esplosione dell’arte senza un artista che rivela il conflitto tra arte e opera, energeia ed ergon. Il punto che l’arte contemporanea prende come oggetto di analisi è come i viventi sperimentano se stessi e diventano uno stile di vita (p. 28).

Le idee esposte nel secondo capitolo, Che cos’è l’atto di creazione?, vengono alla luce in Il fuoco e il racconto, ispirate all’intervento di Deleuze nel 1987, quando si avvicina all’atto di creazione quello di resistenza. Agamben riflette sul fatto che la potenza prodotta dall’atto della creazione deve essere inerente a quello stesso atto, e che in qualche modo questo è l’atto di resistere.

Ancora una volta ritorna il riferimento al pensiero aristotelico, nel recupero, da parte di Agamben, della nozione di hexis: non una potenza generica, ma una potenza che può essere messa in atto e sospesa mantenendola intatta.

L’aporia aristotelica consiste nel fatto che il potere è definito dal suo nonesercizio (p. 36), e quindi ogni potere è anche l’impotenza dello stesso in relazione a sé stesso. In questo caso l’impotenza (adynamia) è potere-di-non, non mancanza di potere, inoperosità piena di potenziale creativo.

Agamben propone che in ogni atto di creazione resiste qualcosa che non è espresso: il potere è ambiguo perché contiene in sé la capacità di agire, ma una resistenza rimane (p. 38). Il termine “inoperosità” appare nelle riflessioni sull’atto della creazione, e Agamben evoca “una politica – dell’inoperosità” (p. 47). Tornando all’Etica Nicomachea, si chiarisce che ergon definisce l’energeia, cioè quell’attività dell’essere-in-atto che è propria del e che si riferisce all’uomo (p.47-48). In Aristotele, l’essere non possiede un argos, una vocazione che lo definisce, un’idea che Agamben accetta e riprende attraverso Kazimir Malevic in L’inoperosità come verità effettiva dell’uomo. L’inoperosità è un potere di tipo speciale, un atto di creazione (p.49-50), in cui si contempla il potere dell’azione stessa. Le categorie di contemplazione e inoperosità sono “gli operatori metafisici dell’antropogenesi, che, liberando il vivente uomo da ogni destino biologico o sociale e da ogni compito predeterminato, lo rendono disponibili per quella particolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare ‘politica’ e ‘arte’” (p.50-51).

Il terzo saggio, L’inappropriabile, discute il concetto della rinuncia alla proprietà, già esaminato in Altissima povertà con riferimento al movimento francescano (p. 56). In questo caso, il paradigma di uso è quello che ha dato la forma-di-vita di questo ordine monastico. La proposta è di pensare alla povertà oltre a questo contesto, in una prospettiva filosofica e ontologica, “in relazione all’avere, ma anche soprattutto in relazione all’essere” (p.59). In questa direzione l’autore si riferisce a una conferenza di Heidegger, Die Armut, del 1934, e a un frammento di Benjamin, del 1916. Nell’analisi dell’intervento di Heidegger, Agamben si sofferma sulla comprensione della povertà nella sua essenza. Non solo un “non avere” e una mancanza del necessario, ma molto di più: si tratta di sentire una mancanza” si consiglia di mettere un punto qui e iniziare una nuova frase “Poi si considera la prossimità di tale nozione con le considerazioni francescane (p. 62). Vengono anche esaminati i corsi heideggeriani del 1929-30 e del 1941-42: nella prima si considera la relazione tra uomo e animale e nel secondo la povertà come rinuncia alla ricchezza. Nella conferenza del 1945, Heidegger specula sulla ricchezza spirituale riprendendo l’idea di Hölderlin che nel momento in cui si diventa poveri si diventa ricchi, perché saremmo nella sovrabbondanza dell’essere (p. 65). Questo riavvicinamento tra l’animale e la sua povertà di mondo ha per oggetto “il rovesciamento dialettico della povertà in ricchezza, della necessità materiale in superfluità spirituale” (p. 65). Agamben critica la dipendenza di Heidegger da una definizione negativa di povertà e analizza il testo benjaminiano Appunti per un lavoro sulla categoria di giustizia, evidenziando come non si usi qui il concetto di povertà, e come si usi invece al suo posto una definizione di giustizia come un bene che non si può possedere. La giustizia è pensata da Benjamin al di fuori di una sfera di doveri e virtù e acquisisce “il significato ontologico di uno stato del mondo” (p. 67), considerato inappopriabile e “povero”. Sulla scorta di queste considerazioni Agamben riflette che “essere povero significa: tenersi in relazione con un bene inappropriabile” (p. 68). L’esempio dei francescani è quello di uno stile di vita in cui i poveri si relazionano con un mondo inappropriabile, i cui strumenti sono corpo, lingua e paesaggio (p. 69).

Nel quarto contributo, Che cos’è un comando?, Agamben sottolinea che nella nostra cultura l’archè è sinonimo di comando (p. 93) e che ci sono due ontologie: l’affermazione apofantica, espressa dall’indicativo, e il comando, dall’imperativo (p. 103). Ciò vuol dire che l’ontologia occidentale può essere considerata una macchina bipolare, “in cui il polo del comando, rimasto per secoli nell’età classica all’ombra dell’ontologia apofantica, a partire dall’età cristiana comincia ad acquisire progressivamente una rilevanza sempre più decisiva” (p. 104). Come esempio di questa inversione di posizioni Agamben ricorre all’ipotesi che sotto il velo “dell’invito, dell’avvertimento dati in nome della sicurezza” (p.106) il comando sia eseguito dal soggetto stesso. Come una sorta di “compagno clandestino” per l’investigazione del comando, sorge il filo della volontà, e così in questa considerazione è richiamata una delle tesi fondamentali del pensiero nietzscheano, per cui la volontà è in realtà desiderio di comando (p. 107), di dare una direzione al potere della natura. L’autore sottolinea che il concetto di volontà non esisteva nel mondo classico e che invece appare solo con lo stoicismo romano, raggiungendo il suo apice con la teologia cristiana (p. 107). Tuttavia, Agamben nota come il concetto di volontà derivi in realtà da un altro concetto di filosofia greca: la potenza (dynamis). In questo modo “mentre la filosofia greca aveva al suo centro la potenza e la possibilità, la teologia cristiana – e al suo seguito la filosofia moderna – pongono al proprio centro la volontà” (p. 108). Agamben riprende un’idea presentata in Karman affermando che mentre l’uomo antico è quell’essere del potere che può, quello moderno è un essere di volontà, che vuole, che rappresenta la rottura in cui il verbo volere ha luogo di potere.

Esponendo la discussione sull’onnipotenza divina nel contesto della teologia cristiana, l’autore si sofferma sulla strategia degli scolastici, che ricorrono alla divisione aristotelica della potentia absoluta e potentia ordinata per risolvere l’impasse in cui si erano trovati i primi Padri. Il potere absoluto è quello attraverso cui Dio può fare tutto, mentre la potentia ordinata, responsabile per l’economia divina nel mondo, opera attraverso la volontà che sottomette il potere, limitando l’azione divina.

Questo dispositivo “imbriglia” il potere. Agamben riprende la concezione nietzscheana secondo la quale volere significa comandare e si riferisce a Bartleby, protagonista della celebre novella di Herman Melville, colui che “sembra ostinatamente indugiare all’incrocio fra la volontà e la potenza” (p. 112). Il dispositivo della volontà è quindi, secondo l’autore, la forma trovata dalla macchina bipolare occidentale cristiana per comandare il potere. Poiché il potere in Nietzsche appartiene all’ordine della natura, e non a quello della volontà, Agamben concorda con il filosofo tedesco che il potere è sinonimo di comando. Questa è una lettura agambeniana di Nietzsche, perché per il filosofo italiano il potere è quello della matrice aristotelica, aperta alla contingenza attraverso il potere-di-non, diverso dalla volontà di potenza, che opera invece a livello fisiologico.

Nel quinto contributo, Il capitalismo come religione, Agamben riprende la matrice benjaminiana. Esponendo le radici della decisione sovrana di Nixon di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, egli considera lo svuotamento del valore del denaro, che ha assunto un carattere autoreferenziale.

Dopo aver esposto le caratteristiche che resero il capitalismo una sorta di religione della modernità sviluppata “in modo parassitario a partire dal cristianesimo” (p. 117), egli asserisce che questo sistema non è mai finalizzato alla redenzione, ma alla colpa, alla disperazione e alla distruzione. Cita “i tre grandi profeti della modernità (Nietzsche, Marx e Freud)” (p. 118), che per Benjamin sono solidali con questa religione della disperazione. Uno dei problemi della lettura offerta da Agamben è il fatto che la considerazione benjaminiana del superuomo come colui che per primo realizza il capitalismo non è però fedele al significato attribuito a questa figura negli scritti di Nietzsche. Questo perché il superuomo rappresenta la capacità di superare il tipo decadente e aggrappato alla logica del risentimento, caratteristiche intrinseche di colui che perpetua il culto del capitale. Non è chiaro quindi in che senso sottomettersi alla logica del capitalismo sarebbe una condizione necessaria per il superuomo per affermarsi nel suo divenire. In ogni caso, il riferimento di Agamben al superuomo rischia di apparire contraddittorio: l’ultimo uomo, e non il superuomo, è quello più vicino allo spirito di gravità dell’apparato capitalista.”

Referências

AGAMBEN, Giorgio. Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita.  Vicenza: Neri Pozza, 2011.

AGAMBEN, Giorgio. Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, Torino: Bollati Boringhieri, 2017.

AGAMBEN, Giorgio. La potenza del pensiero, Vicenza: Neri Pozza 2010.

ARISTOTELES. Metafísica. 2. ed. São Paulo: Edipro, 2012.

BENJAMIN, Walter. Gesammelte Schriften. Org. R. Tiedemann und H. Schweppenhauser. Frankfurt: Suhrkamp, 1974. (Suhrkamp-Taschenbuch Wissenschaft, v. 1).

COLLI, Giorgio; MONTINARI, Mazzino (hrsg). Friedrich Nietzsche: Samtliche Werke: Kritische Studienausgabe. Berlin: Neuausgabe, 1999. Walter de Gruyter, 1967-77 und 1988.

Notas

1 A presente resenha foi publicada pela autora originalmente na Universa. Recensioni di filosofia Rivista del Corso di Dottorato di Ricerca in Filosofia dell’Università degli Studi di Padova – Università degli Studi di Padova – UNIPD, Itália. Disponível em: http://universa.padovauniversitypress.it/2018/2/2.

Márcia Rosane Junges – Doutora em Filosofia Política pela Universidade do Vale do Rio dos Sinos – UNISINOS, e pela Università degli Studi di Padova – UNIPD, Itália, em cotutela através do Programa de Doutorado Sanduíche no Exterior – PDSE, da CAPES, de março a setembro de 2017. Professora tutora na UNISINOS, São Leopoldo, RS, Brasil. http://orcid.org/0000-0001-9224-2071. E-mail: [email protected] Giorgio Agamben , Crea zione | Márcia Rosane JungesUniversidade do Vale do Rio dos Sinos (UNISINOS), São Leopoldo, RS, Brasil. Endereço postal: Universidade do Vale do Rio dos Sinos – Campus São Leopoldo Av. Unisinos, 950 – Bairro Cristo Rei, São Leopoldo – RS, CEP 93020-190.

AGAMBEN, Giorgio. Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista. Vicenza: Neri Pozza, 2017. 140 p. Resenha de: JUNGES, Márcia Rosane. Veritas, Porto Alegre, v. 64, n. 2, Abr. – Jun. 2019. Acessar publicação original