La mia Grecia | Nikos Kazantzakis
Tutta l’umanità per guarire dovrebbe passare dal nobile sanatorio della Grecia (da La mia Grecia, p. 74).
Si deve al lavoro encomiabile di Crocetti editore la riscoperta di uno dei più grandi scrittori greci della prima metà del Novecento: Nikos Kazantzakis (Hiraklion 1883-Friburgo in Brisgovia 1957). Infatti, grazie alla recente pubblicazione di diverse opere di questo poeta, che per la prima volta sono tradotte direttamente dal greco all’italiano , la cultura italiana oggi ha modo di accostarsi in modo nuovo alla profondità concettuale di uno degli autori più prolifici e affascinanti del panorama letterario mondiale. In questo commento, si cercherà di ripercorrere gli aspetti più rilevanti de La mia Grecia, una raccolta di riflessioni frutto di un viaggio in treno nella sua terra nel 1937, commissionato dalla rivista Kathimerini.
Prima di iniziare il nostro cammino in compagnia del poeta di Hiraklion, occorre fare una precisazione. Il viaggio per K. ha sempre rappresentato un’esperienza dal potente valore conoscitivo ed esistenziale, come dimostra la sua attitudine febbrile allo spostamento durante il corso della sua esistenza . Una delle ultime pagine de La mia Grecia ce lo conferma: «il viaggio non è una pura gioia per gli occhi o un semplice andare, ma uno slancio di anima e mente per una ricerca più profonda» (p. 150). Questa riflessione si colloca in un momento cruciale per le sorti del mondo: l’Europa, divorata dalle fiamme dei totalitarismi, sta per precipitare nella catastrofe della seconda guerra mondiale. L’autore presenta pertanto il suo attraversamento dell’Ellade come un’occasione irripetibile per riflettere sul presente, continuamente messo a confronto con il passato.
Il prologo dell’opera è di carattere teorico e rientra all’interno della poetica di K. Secondo l’autore, nel momento della creazione l’artista si trova di fronte a una sfida, cioè l’impossibilità di ricreare l’infinita profondità dell’anima attraverso la finitezza dei mezzi artistici; è empia la lotta «che si sforza di racchiudere l’anima entro modelli di bellezza» (p. 8). Di seguito, immaginando di dialogare con una Tigre, allegoria del suo daimon interiore, sottolinea la consapevolezza in base alla quale, indipendentemente dai nostri slanci, il mondo rappresenta per l’essere umano un «mistero insondabile». Ma ciò non deve scoraggiare chi si cimenta in un percorso di conoscenza come il viaggio. Infatti K. non si perde mai d’animo, perché è intimamente convinto, come il suo Ulisse, che il compito più alto di ogni essere umano è «vivere e morire con coraggio, senza aspettarsi nulla in cambio» (p. 11). Con queste premesse può avere inizio il nostro viaggio.
Nel primo capitolo – «Partenza…» –, K. riflette sulla differenza di prospettiva tra un Greco e un visitatore straniero quando si affronta un viaggio nell’Ellade. Per chi è nato in questa terra, sopraggiunge un improvviso senso di vertigine di fronte a una grandezza ormai perduta. Essere greci è un vanto pericoloso, un intimo scontro senza restrizione di colpi fra cuore e mente; il primo si abbandona con nostalgia al passato lontano e irraggiungibile; la seconda, invece, si ancora alla radice eterna del mondo greco, incarnata dal mito intramontabile di poleis come Sparta, che continuano a resistere alle onde del tempo. Ma il fermento interiore non è mai un sentimento sterile per il nostro autore: ogni Greco non può sottrarsi alla responsabilità di un’eredità così elevata e al dovere di trasformare attivamente la società del suo tempo.
Il punto di partenza del viaggio è l’Attica, appena sfiorata, ma celebrata per la sua luce calda e accecante, segno tangibile del dio protagonista della natura ellenica e di questo viaggio: Dioniso. Ma sin da subito l’autore ci rivela che l’obiettivo più arduo di questo itinerario è l’esplorazione dei segreti del Peloponneso, terra che custodisce le «radici insaziabili che grondano sangue» (p.18). Il Peloponneso è l’acropoli, l’essenza della Grecia, come sostiene giustamente il poeta, mentre Atene costituisce «la sublime gloria della radice» (p. 18), il frutto più maturo della sua cultura. E al Peloponneso lo scrittore dedica le sue principali attenzioni.
Il primo capitolo si conclude con l’arrivo a Corinto, di cui il poeta ricorda il tempio di Afrodite, ormai sepolto dal tempo, e quello di Atena Chalinitis, dea celebre per l’aiuto teso a Bellerofonte. Questi è un eroe del mito che K. innalza a modello di uomo intento a oltrepassare i propri limiti, ribelle alle leggi del “dio della disciplina”, desideroso di avventurarsi, senza paure, nel segreto della vita. Anche qui è ancora la lanterna di Dioniso a illuminare il viaggio.
Il secondo capitolo, dal titolo «Il Golfo di Corinto», si apre con una considerazione sul profondo legame tra arte e paesaggio naturale, fra essere umano e Natura: secondo K. per comprendere la Grecia, e in particolare quella classica, occorre partire dalla “fisicità materiale” del suo paesaggio che «entra nel corpo dell’artista attraverso le cinque porte dei sensi e li plasma; e mentre così li forgia, viene a sua volta modellato a sua immagine e somiglianza» (p.22). K. ritiene in particolare che durante l’età periclea si è mostrata la perfetta sintonia tra arte e Natura. Mentre constata con tristezza la divaricazione fra la potente bellezza del paesaggio e la prosaicità dell’uomo dei suoi tempi, il poeta raggiunge Patrasso e la sua Fortezza, ora immersa in una lussureggiante vegetazione mediterranea che nasconde le tracce dell’antico tempio di Artemide Lafria. La città evoca anche la fugacità del tempo suggerita dal passaggio furtivo da queste parti di due innamorati sfortunati, Antonio e Cleopatra, qui ricordati tramite alcuni versi dell’Antonio e Cleopatra dell’immortale William Shakespeare.
Il capitolo si chiude con una considerazione su una forza sotterranea che anima la provincia greca (e non solo): la noia inquieta – tema di ascendenza leopardiana presente nella poetica dello scrittore di Hiraklion. A suo parere, nella periferia greca si covano due sentimenti contrastanti: da una parte una noia pura e opprimente dovuta all’assoluta monotonia di un tempo sempre uguale a se stesso; dall’altra, la reazione vitale alla noia, che induce spesso i più giovani a nutrire i propri desideri, a ritrovare la propria identità più autentica e vera e a creare, quindi, opere del tutto originali. A tal proposito lo scrittore afferma che «la verginità della terra ha trovato rifugio nella timida, indolente, graziosa provincia» (p. 26).
La pianura d’Acaia, le città di Lechena, Andravida, Cillene, la fortezza di Chlemutsi, Glarentza sono le tappe seguenti del tragitto che si incastonano come pietre preziose nelle pagine dei tre capitoli seguenti. Nel resoconto di viaggio ha un ruolo significativo la storia dell’occupazione franca in questa parte di Grecia nel XIII secolo, legata alla nascita del Principato d’Acaia: una fase culturalmente felice della storia del Peloponneso. La cultura elegante dei Franchi, approdati in questo angolo di Grecia nel XIII dopo la quarta crociata, dovette risvegliare i sudditi sonnolenti dell’impero bizantino. Dalla fusione delle due culture sorse una civiltà ibrida e armoniosamente contaminata, quella che K. definisce una «strana civiltà romántica». Quest’onda che dall’Occidente scosse il Peloponneso è paragonata a un secondo «Euforione, cioè il raffinato frutto degli amori di Faust (l’Occidente) ed Elena (la grecità): il corpo divino della madre e l’anima insaziabile del padre, romantica e irrimediabilmente assetata di infinito» (p. 41).
Ma soprattutto di interesse storico-antropologico è l’osservazione dell’autore sui passanti che si incontrano per le vie di questa parte del Peloponneso. Dove è finito il sorriso degli uomini greci? – si chiede il poeta. Esso ondeggia tra l’espressione appagata dell’uomo civilizzato e la smorfia dei kouroi arcaici. I Greci “non più ingenui, non ancora inciviliti, non riescono a sorridere davvero” (p. 29). L’autore osserva, con grande umanità, la sofferenza dei bambini con i grandi ventri gonfi; per strada si affollano uomini e donne tristi, afflitti da secoli di dominazione ottomana, dalle febbri malariche e aggrappati alla speranza di un raccolto dignitoso. I Greci sono «non più schiavi, ma non ancora liberi» (p. 45). Un’affermazione suggestiva che non interessa solo la Grecia degli anni ’30, ci verrebbe da dire, ma che riguarda ancora oggi quel Sud del mondo condannato a una condizione storica sospesa, oscillante fra un passato non libero e un futuro ancora da costruire. E il poeta ci ricorda spesso in queste pagine che soltanto chi è veramente libero può godere dell’arte, che è il grido più puro dell’essere umano.
I capitoli sei e sette sono dedicati al sito di Olimpia la cui visita costituisce l’occasione per riflettere sull’antitesi tra presente e passato. Olimpia è innanzitutto per K. il modello dell’armonia – oggi perduta – del mondo greco antico il quale, benché logorato dagli odi e dalle staseis, era in grado di fermarsi e abbracciare gli ideali di pace e di fraternità. Secondo lo scrittore, c’è un filo invisibile ma saldo che unisce il gioco alla civiltà in quanto «[la civiltà] germoglia nel momento in cui la vita, soddisfatte le prime necessità, comincia a godere di un po’ di riposo» (p. 56). Olimpia così diventa nella rappresentazione qui proposta il luogo comunitario e «civile» per antonomasia, quell’oasi irripetibile della civiltà ellenica da cui si sono irradiati i valori supremi del polites, ovvero la ricerca della bellezza e dell’armonia.
La seconda parte della visita a Olimpia non può non contemplare la visita al Museo cittadino, custode dei frontoni del tempio di Zeus. K. ammira da una parte la «serenità mistica» raffigurata nel frontone occidentale da Apollo, che doma la ferinità dei Centauri; dall’altra evidenzia la capacità dell’artista di rappresentare sul frontone l’intera gerarchia del cosmo alla cui testa vi è il dio e alla cui estremità più bassa campeggia la bestia. Qui è il valore simbolico del mito nell’arte di matrice greca, capace di trasfigurare la Storia attraverso una ricca e proteiforme simbologia, l’oggetto di ammirazione dell’autore. L’armonia di Olimpia è però una divagazione filosofica amara, un sogno che si infrange con «la maledetta sete di guadagno» dei suoi connazionali, impegnati a mercanteggiare proprio nel sito sacro a Zeus. Il lettore percepisce che il divario fra ciò che è stato e il presente non può essere più netto e inquietante.
Dopo Andritsena, Karitena e Megalopoli (capp. 8 e 9), il viaggio di K. trova un momento di sosta presso Sparta. L’accesso al mondo spartano è duplice ed è ben espresso con i titoli dei due capitoli 10 e 11: «La seduzione di Sparta» e «Le rovine di Sparta». Sparta è una miscela esplosiva di eros e forza, celebrati dal poeta attraverso il simbolo femminile più significativo della città sull’Eurota: Elena. K. accetta una delle versioni sulla guerra di Troia secondo la quale questo personaggio del mito fu nascosto in Egitto; i Greci avrebbero quindi combattuto la loro guerra più faticosa per un fantasma, per un sogno impalpabile. E proprio in questo risiede, secondo l’autore, il meraviglioso paradosso della civiltà ellenica, secondo la quale la vetta dell’agire umano è la lotta «romántica» per un ideale, quell’incessante ricerca disinteressata di uomini figli di una cultura eccezionale, le cui «storie sono un sogno fatto di mare azzurro, di poveri campi, di navi e di cavalli» (p. 87).
Il secondo capitolo dedicato a Sparta si concentra, invece, sull’aspetto che da sempre le è stato associato: la guerra. Dimostrando una conoscenza notevole della letteratura antica su Sparta, K. racconta della inclinazione laconica alla guerra e all’addestramento dei giovani; sottolinea la vocazione collettiva della città in cui l’individuo scompariva rispetto al corpo di Spartiati . Sparta è lo specchio più fedele di un presente che si avvia alla guerra totale: «nessun luogo al mondo oggi risponde allo spirito del nostro tempo quanto questa vallata» (p. 95). Il poeta, in sintonia con una parte dell’opinione pubblica del suo tempo, definisce la guerra «un immenso momento erotico» (p. 97) in cui a unirsi sono due grandi eserciti e arriva a giustificare il prospettarsi di un imminente conflitto inteso come un possibile momento di innalzamento dello spirito, un atto estremo dell’uomo desideroso di lottare e trasformare in spirito gli «elementi insanguinati» che costellano la Storia del genere umano. In quest’ottica, secondo K., «la guerra apparirà come la strada più tragica, ma anche la più rapida che conduce alle vette dello spirito» (p. 97).
La visita a Sparta non può prescindere da un’attenta perlustrazione della cittadella di Mistrà ammirata per i suoi monumenti più celebri (la Perivleptos, la Mitropolis, l’Afendikò, la Pandanassa). La rocca rappresenta per il poeta un luogo culturalmente e politicamente significativo in quanto su questo colle è nata «la Nuova Grecia» (p. 99) in seguito all’elezione dell’ultimo imperatore bizantino, Costantino XI Paleologo, presso la Mitropoli, nel 1449, i cui anni al potere corrisposero con l’ultima fioritura della cultura ellenica prima dell’arrivo dell’invasore ottomano: «poco prima della caduta di Costantinopoli, qui, in una angolo di Peloponneso, si ridestava l’eterno spirito greco» (p. 102). La morte eroica dell’ultimo imperatore bizantino rappresenta l’ultimo afflato di un ormai agonizzante spirito greco.
Camminando per le vie di Mistrà il poeta immagina di incontrare uno dei suoi più straordinari abitanti: Giorgio Gemisto Pletone (1355-1452). Di questo grande intellettuale K. ammira la visione platonica della politica intesa non come un mero gioco intellettuale, ma come uno strumento concreto per cambiare la società. Il sistema politico qui elogiato è una monarchia «ibrida», il cui consiglio sarà formato da uomini aristoi, eccellenti per virtù e cultura; apprezza, inoltre, del pensatore ellenico l’esigenza di un esercito nazionale e non di mercenari. Pletone, in anticipo sui tempi, proponeva infatti la distribuzione ai contadini della terra e si auspicava una nuova forma di libertà per i suoi connazionali. A Pletone come a K. è perfettamente chiaro che la rinascita di un popolo deve partire dalla riconquista della sua indipendenza materiale e morale.
Lasciata Mistrà con le sue invincibili bellezze artistiche, il poeta conclude il suo viaggio presso due località: Monemvasià e Micene (capp. 16 e 17). Prendendo più volte spunto da «La cronaca di Morea», testo del XIV secolo, ricorda con toni edificanti Guglielmo Villehardouin, l’eroe franco dai modi eleganti e capace di fondere l’astuzia dei bizantini con la voglia di vivere dei Franchi. K. menziona l’assedio della fortezza di Monemvasià nel 1249 ad opera di Guglielmo per celebrare innanzitutto l’ostinata e fiera resistenza degli abitanti e, d’altra parte, per ricordare la clemenza dello stesso principe franco, il quale, commosso dallo spirito di abnegazione degli assediati, concesse loro le libertà richieste.
Si passa quindi all’arcaica Micene. L’ascesa verso la città antica di Micene è un’ascesi verso la vera essenza della civiltà ellenica. Il poeta, ripercorrendo le orme di Eschilo, immagina di rivivere le antiche emozioni provate dai protagonisti delle tragiche vicende del mito. E qui ci ribadisce ancora una volta che per capire il mondo greco occorre essere armati della stessa «passione selvaggia» che animò i veri Greci. «Tutto il resto, equilibri classici, cori simmetrici, gesti stilizzati che si ispirano ai vasi antichi, sono pura filologia e sacrifici autoreferenziali a una Afrodite assente» (p. 148). Ancora una volta si sottolinea la forza vitale del dionisiaco come essenza ineliminabile della Grecità.
L’ultimo capitolo – «Questioni aperte sulla civiltà neogreca» – costituisce il punto di arrivo ideologico dell’opera. K. si pone una questione spinosa: «come possiamo creare noi una nostra civiltà neogreca, su quali basi sorreggerla?» (p.154). Secondo l’autore, la Grecia vive all’ombra di due madri invadenti, l’Occidente e l’Oriente, due mondi ben distinguibili e riconducibili alla tradizione classica e orientale; dalla prima i Greci hanno ereditato prevalentemente l’amore per la vita e per la libertà e l’armonia tra mente e carne; dalla seconda hanno introiettato i pilastri della riflessione medievale, quali la teocrazia, il feudalesimo, il disgusto per la vita terrena. Per rendere vitale ancora oggi questa civiltà è necessario «distillare l’Oriente nell’Occidente e ottenere così una sintesi, per quanto difficile sia, oppure restare schiavi e arrendersi alla morte» (p. 156). K. ci dice senza mezzi termini che Oriente e Occidente sono espressioni diverse ma conciliabili della stessa straordinaria cultura dell’essere umano, confluite miracolosamente nell’alveo della cultura greca; è compito di chi sa coltivare gli insegnamenti provenienti dal mondo greco accordare queste due voci.
«Vivete dentro di voi tutte le forze che vi ha dato la Grecia, lavorate giorno e notte, cercate di costruire un verso pieno di sostanza e di forma perfetta» (p.156). Così parlò K. Ed è questo, senza dubbio, il messaggio più attuale dell’opera.
Resenhista
Aldo Spano – Università di Pisa. E-mail: a.spano85@tiscali.it
Referências desta Resenha
KAZANTZAKIS, Nikos. La mia Grecia. Trad. Gilda Tentorio. Milano: Crocetti editore, 2021. Resenha de: SPANO, Aldo. Grecorromana. Revista Chilena de Estudios Clásicos. Santiago, v. 4, p. 141- 146, 2022. Acessar publicação original [DR/JF]