Criminali del campo di concentramento di Bolzano – Di SANTE

DI SANTE, Costantino. Criminali del campo di concentramento di Bolzano. Bolzano: Raetia, 2019. 319p. Resenha de: SESSI, Frediano. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.201-203, giu./nov., 2019.

Il campo di concentramento di Bolzano, nel sobborgo di Gries, denominato ufficialmente Polizeilisches Durchgangslager (Campo di transito), istituito dapprima come campo di lavoro (15 maggio 1944) e successivamente come parte dei campi di smistamento italiani degli ebrei e dei prigionieri politici in Germania (probabilmente dai primi giorni di luglio del 1944), sorse lungo l’attuale via Resia, all’interno di un complesso di capannoni già adibiti a deposito dal Genio militare fin dal 1941. Di forma rettangolare, copriva un’area di circa 17.500 metri quadri, dei quali almeno 13.000 erano coperti da baracche. Circondato da un muro di cinta, venne messo in sicurezza anche con rotoli di filo spinato, atti a impedire eventuali fughe. In ciascuno dei quattro angoli, vennero poste delle torrette di guardia, in legno, all’interno delle quali stazionava in permanenza una guardia SS, munita di mitragliatrice.

La guarnigione SS era composta da uomini di diversa nazionalità arruolati nel corpo: sud-tirolesi, italiani, ucraini e tedeschi. Tra le baracche, un’area piuttosto ampia era riservata ai laboratori: falegnameria, sartoria, tipografia e officina meccanica. Oggi si calcola che i deportati nel Lager di Bolzano siano stati circa 11.000, dei quali, fino a 3.500 furono rilasciati il 3 maggio 1945, giorno della chiusura del campo.

I prigionieri erano costituiti da ebrei e politici, uomini e donne, provenienti a partire dall’estate del 1944, dal campo di Fossoli e dalle carceri maggiori dell’Italia del Nord.

Varcata la soglia del Lager, il prigioniero veniva registrato e classificato, come negli altri campi di concentramento tedeschi, con un numero di serie e un triangolo colorato che indicava lo statuto razziale e sociale del detenuto: politico, asociale ecc. Alcune testimonianze raccontano che per gli ebrei e gli zingari (prigionieri razziali) esisteva una serie di numeri a parte, per questo, ancora oggi risulta difficile ipotizzare quanti fossero i detenuti non politici. La stima più credibile è che non abbiano superato il 10% di tutti i deportati. Quanto alle donne, si calcola che non fossero più di 1.200, mentre i bambini che occupavano gli stessi locali baracca delle donne non erano più di venticinque. Tra le donne, numerose partigiane ma anche famigliari di politici ostaggio delle SS, per costringere i partigiani a consegnarsi. Nell’ottobre del 1944, nonostante la guerra per la Germania sia ormai perduta, il campo subisce degli ampliamenti in vista di un aumento del numero degli internati.

La storia del Lager di Bolzano, così brevemente sintetizzata, che viene ricostruita con precisione di particolari nelle prime 143 pagine del nuovo libro di Costantino di Sante, in apparenza sembra simile a quella di altri campi di transito sparsi nell’Europa occupata.

L’autore la arricchisce di documenti, carte geografiche che spiegano i transiti dei prigionieri deportati verso altri Lager, fotografie e storie individuali di prigionieri, la cui testimonianza rende consapevole il lettore della tragedia rappresentata dalla vita quotidiana in questo «piccolo Lager», in una parte d’Italia incorporata al Reich; vita quotidiana assai poco raccontata dai libri di storia italiana, che raccontano qualcosa del Lager, come se la sua breve durata e il suo essere prevalentemente un luogo di transito, fossero sufficienti a trattare con leggerezza questa parentesi violenta dell’occupazione tedesca e del sostegno alla Germania da parte della neonata Repubblica sociale.

La ricerca di Costantino di Sante, abituato a scoprire negli archivi documenti e storie dimenticati dell’Italia e degli italiani nel corso della Seconda guerra mondiale, ha ridato al Lager di Bolzano il posto che gli spetta nella storia e nella memoria nazionali. A contribuire al suo parziale oblio nella memoria collettiva, lo smantellamento del sito e le poche tracce di quella caserma-prigione hanno giocato un ruolo importante. Ma, prima del lavoro di Costantino di Sante sono stati pochi i saggi storici, e i libri di memorialistica che ne hanno reso possibile lo studio e la conoscenza.

La parte più rilevante del libro è costituita dalla ricostruzione meticolosa e documentata delle biografie e spesso delle azioni dei maggiori responsabili del Lager: gli aguzzini, i carnefici. A cominciare da Rudolf Thyrolf, vicecomandante della polizia di sicurezza tedesca, per proseguire con August Schiffer, direttore della Gestapo e tra gli altri Karl Titho, sottotenente SS e comandante del Lager, Hans Haage, responsabile della disciplina, Joseph König, maresciallo SS e responsabile delle squadre di lavoro. I nomi e le vite ricostruite sono molti di più e per ciascuno di loro, per la prima, volta viene raccontata la carriera militare e politica e i comportamenti in Lager, con fotografie, lettere, testimonianze che fanno entrare il lettore nella loro vita sociale e familiare.

Ne emerge, come è accaduto per il campo di Auschwitz, dopo la scoperta dell’Album fotografico di Karl Friedrich Höcker, un racconto grottesco di uomini e donne che mentre torturano, scherniscono e affamano centinaia di detenuti, vivono momenti di serenità con le loro donne e le loro famiglie, o tra commilitoni.

Il capitolo terzo, «Il tempo libero dei carnefici» è allora centrale alla comprensione della moralità dei nazisti e delle trovate psicologiche utili al sostegno del loro lavoro di assassini: anche così e non solo con il supporto dell’ideologia, i nazisti si convincevano che gli ordini che erano chiamati a eseguire non erano da considerarsi criminali, ma una necessità della storia Europea, per la costruzione di un «nuovo ordine europeo». Si capisce assai bene, leggendo queste pagine, come la nuova e vera moralità tedesca fosse nella «legge del sangue», garanzia di tutela del popolo ariano e conforto di verità contro gli inetti, i razzialmente impuri, gli oppositori: tutti esseri inferiori per i quali il diritto alla vita, nella nuova Europa, non era tutelabile e tollerabile, se non nella condizioni di schiavi del lavoro.

Straordinario il ritrovamento di documenti e di molto materiale a stampa, interpretato e organizzato da Costantino di Sante nelle pagine del libro e reso pubblico per la prima volta.

Un saggio storico, dunque, ricco di nuove scoperte d’archivio, sostenute da un racconto di fatti, di uomini e donne che, in questa storia, hanno vissuto nel bene o nel male (dalla parte giusta o dalla parte sbagliata) da protagonisti.

Un saggio da inserire nei programmi di storia contemporanea nei corsi universitari e nei laboratori delle scuole superiori, e non solo per non dimenticare.

Dal racconto delle vite dei carnefici emerge un monito: i peggiori torturatori erano uomini che avevano storie comuni a quelle di tanti altri e che a causa di un’ideologia totalitaria e razziale si sono trasformati in esecutori dei crimini più efferati del nostro recente passato, cancellando in loro ogni residuo di umanità e dignità.

La strada che hanno percorso per arrivare a compiere un simile Male radicale, sappiamo, che non è ancora chiusa.

Frediano Sessi

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