Historia/memoria y olvido del 12 de febrero de 1818. Los pueblos y su declaración de la independencia de Chile | Lucrecia Enríquez

A propósito de su bicentenario, Historia, memoria y olvido del 12 de febrero de 1818. Los pueblos y su declaración de la independencia de Chile es un libro que pretende visibilizar el 12 de febrero de 1818 como el punto de llegada de un proceso que es posible datar de 1808 con la acefalía monárquica, hecho que convirtió a los pueblos en protagonistas del nuevo escenario político. La declaración de la independencia, acompañada de un lenguaje ritual en cada ciudad y villa, selló la sustitución de soberanía monárquica en el pueblo soberano el 12 de febrero de 1818. A partir de la ceremonia llevada a cabo aquel día se declaró Chile como un Estado soberano y, a partir de este hecho, se enfrentó a los españoles con una nueva identidad política. La proclamación y jura común de los pueblos, ciudades y villas chilenas otorgaron significancia a esta fecha que, dado su olvido en la memoria nacional, es necesario volver a estudiarla. Aquel manto de olvido se encuentra en dos momentos clave que corresponden al siglo XIX durante la república conservadora y al siglo XX a partir de la tesis de Luis Valencia Avaria. Ambos hechos afectaron la memoria histórica nacional al no tener claridad hoy de lo que ocurrió ese día. Leia Mais

Historia, memoria y olvido del 12 de febrero de 1818. Los pueblos y su declaración de la independencia de Chile

Reexaminar la historia de la Independencia implica un enorme desafío. La historiografía sobre este periodo ha quedado presa en tradiciones y convenciones impuestas por historiadores del siglo XIX; a ello se puede atribuir que por décadas este tema no despertó gran interés en generaciones posteriores. La emancipación americana fue revisitada con mayor atención en los años del centenario y sesquicentenario, aunque buena parte de los textos producidos en esas fechas poseían un tono conmemorativo y pocos de ellos aportaron nuevas interpretaciones, por lo que ayudaron a reforzar los hechos distintivos del periodo y a exaltar la heroicidad de sus protagonistas.

La historia de la Independencia ha tenido una utilización política al considerarse que dicho proceso demarca el nacimiento de las naciones americanas. Muestra de ello es que, desde mediados del siglo XIX, los textos escolares se usaron como instrumentos para conformar la identidad de los ciudadanos, al inculcar valores patrióticos emanados por los padres de la patria en sus actos políticos y bélicos. Dichas enseñanzas raras veces fueron objetadas. En ese tipo de lecciones podría rastrearse la apatía que muchos sienten por estudiar la historia, pues gracias a esa narrativa caló la idea errónea de que esta consiste en memorizar biografías y batallas. Leia Mais

Criminali del campo di concentramento di Bolzano – Di SANTE

DI SANTE, Costantino. Criminali del campo di concentramento di Bolzano. Bolzano: Raetia, 2019. 319p. Resenha de: SESSI, Frediano. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.201-203, giu./nov., 2019.

Il campo di concentramento di Bolzano, nel sobborgo di Gries, denominato ufficialmente Polizeilisches Durchgangslager (Campo di transito), istituito dapprima come campo di lavoro (15 maggio 1944) e successivamente come parte dei campi di smistamento italiani degli ebrei e dei prigionieri politici in Germania (probabilmente dai primi giorni di luglio del 1944), sorse lungo l’attuale via Resia, all’interno di un complesso di capannoni già adibiti a deposito dal Genio militare fin dal 1941. Di forma rettangolare, copriva un’area di circa 17.500 metri quadri, dei quali almeno 13.000 erano coperti da baracche. Circondato da un muro di cinta, venne messo in sicurezza anche con rotoli di filo spinato, atti a impedire eventuali fughe. In ciascuno dei quattro angoli, vennero poste delle torrette di guardia, in legno, all’interno delle quali stazionava in permanenza una guardia SS, munita di mitragliatrice.

La guarnigione SS era composta da uomini di diversa nazionalità arruolati nel corpo: sud-tirolesi, italiani, ucraini e tedeschi. Tra le baracche, un’area piuttosto ampia era riservata ai laboratori: falegnameria, sartoria, tipografia e officina meccanica. Oggi si calcola che i deportati nel Lager di Bolzano siano stati circa 11.000, dei quali, fino a 3.500 furono rilasciati il 3 maggio 1945, giorno della chiusura del campo.

I prigionieri erano costituiti da ebrei e politici, uomini e donne, provenienti a partire dall’estate del 1944, dal campo di Fossoli e dalle carceri maggiori dell’Italia del Nord.

Varcata la soglia del Lager, il prigioniero veniva registrato e classificato, come negli altri campi di concentramento tedeschi, con un numero di serie e un triangolo colorato che indicava lo statuto razziale e sociale del detenuto: politico, asociale ecc. Alcune testimonianze raccontano che per gli ebrei e gli zingari (prigionieri razziali) esisteva una serie di numeri a parte, per questo, ancora oggi risulta difficile ipotizzare quanti fossero i detenuti non politici. La stima più credibile è che non abbiano superato il 10% di tutti i deportati. Quanto alle donne, si calcola che non fossero più di 1.200, mentre i bambini che occupavano gli stessi locali baracca delle donne non erano più di venticinque. Tra le donne, numerose partigiane ma anche famigliari di politici ostaggio delle SS, per costringere i partigiani a consegnarsi. Nell’ottobre del 1944, nonostante la guerra per la Germania sia ormai perduta, il campo subisce degli ampliamenti in vista di un aumento del numero degli internati.

La storia del Lager di Bolzano, così brevemente sintetizzata, che viene ricostruita con precisione di particolari nelle prime 143 pagine del nuovo libro di Costantino di Sante, in apparenza sembra simile a quella di altri campi di transito sparsi nell’Europa occupata.

L’autore la arricchisce di documenti, carte geografiche che spiegano i transiti dei prigionieri deportati verso altri Lager, fotografie e storie individuali di prigionieri, la cui testimonianza rende consapevole il lettore della tragedia rappresentata dalla vita quotidiana in questo «piccolo Lager», in una parte d’Italia incorporata al Reich; vita quotidiana assai poco raccontata dai libri di storia italiana, che raccontano qualcosa del Lager, come se la sua breve durata e il suo essere prevalentemente un luogo di transito, fossero sufficienti a trattare con leggerezza questa parentesi violenta dell’occupazione tedesca e del sostegno alla Germania da parte della neonata Repubblica sociale.

La ricerca di Costantino di Sante, abituato a scoprire negli archivi documenti e storie dimenticati dell’Italia e degli italiani nel corso della Seconda guerra mondiale, ha ridato al Lager di Bolzano il posto che gli spetta nella storia e nella memoria nazionali. A contribuire al suo parziale oblio nella memoria collettiva, lo smantellamento del sito e le poche tracce di quella caserma-prigione hanno giocato un ruolo importante. Ma, prima del lavoro di Costantino di Sante sono stati pochi i saggi storici, e i libri di memorialistica che ne hanno reso possibile lo studio e la conoscenza.

La parte più rilevante del libro è costituita dalla ricostruzione meticolosa e documentata delle biografie e spesso delle azioni dei maggiori responsabili del Lager: gli aguzzini, i carnefici. A cominciare da Rudolf Thyrolf, vicecomandante della polizia di sicurezza tedesca, per proseguire con August Schiffer, direttore della Gestapo e tra gli altri Karl Titho, sottotenente SS e comandante del Lager, Hans Haage, responsabile della disciplina, Joseph König, maresciallo SS e responsabile delle squadre di lavoro. I nomi e le vite ricostruite sono molti di più e per ciascuno di loro, per la prima, volta viene raccontata la carriera militare e politica e i comportamenti in Lager, con fotografie, lettere, testimonianze che fanno entrare il lettore nella loro vita sociale e familiare.

Ne emerge, come è accaduto per il campo di Auschwitz, dopo la scoperta dell’Album fotografico di Karl Friedrich Höcker, un racconto grottesco di uomini e donne che mentre torturano, scherniscono e affamano centinaia di detenuti, vivono momenti di serenità con le loro donne e le loro famiglie, o tra commilitoni.

Il capitolo terzo, «Il tempo libero dei carnefici» è allora centrale alla comprensione della moralità dei nazisti e delle trovate psicologiche utili al sostegno del loro lavoro di assassini: anche così e non solo con il supporto dell’ideologia, i nazisti si convincevano che gli ordini che erano chiamati a eseguire non erano da considerarsi criminali, ma una necessità della storia Europea, per la costruzione di un «nuovo ordine europeo». Si capisce assai bene, leggendo queste pagine, come la nuova e vera moralità tedesca fosse nella «legge del sangue», garanzia di tutela del popolo ariano e conforto di verità contro gli inetti, i razzialmente impuri, gli oppositori: tutti esseri inferiori per i quali il diritto alla vita, nella nuova Europa, non era tutelabile e tollerabile, se non nella condizioni di schiavi del lavoro.

Straordinario il ritrovamento di documenti e di molto materiale a stampa, interpretato e organizzato da Costantino di Sante nelle pagine del libro e reso pubblico per la prima volta.

Un saggio storico, dunque, ricco di nuove scoperte d’archivio, sostenute da un racconto di fatti, di uomini e donne che, in questa storia, hanno vissuto nel bene o nel male (dalla parte giusta o dalla parte sbagliata) da protagonisti.

Un saggio da inserire nei programmi di storia contemporanea nei corsi universitari e nei laboratori delle scuole superiori, e non solo per non dimenticare.

Dal racconto delle vite dei carnefici emerge un monito: i peggiori torturatori erano uomini che avevano storie comuni a quelle di tanti altri e che a causa di un’ideologia totalitaria e razziale si sono trasformati in esecutori dei crimini più efferati del nostro recente passato, cancellando in loro ogni residuo di umanità e dignità.

La strada che hanno percorso per arrivare a compiere un simile Male radicale, sappiamo, che non è ancora chiusa.

Frediano Sessi

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El fuego, el agua y la Historia. La dictadura en los escenarios educativos: memorias y desmemorias – KAUFMANN (CA-EH)

KAUFMANN, Carolina. El fuego, el agua y la Historia. La dictadura en los escenarios educativos: memorias y desmemorias. Buenos Aires: Libros del Zorzal, 2007. 134p. Resenha de: ALONSO, Fabiana. Clío & Asociados. La Historia Enseñada, n. 13, p.181-182, 2009.

Fabiana Alonso Universidad Nacional del Litoral El ensayo de Carolina Kaufmann convoca la relación problemática entre las memorias y la inhibición de la memoria dolorosa y traumática de nuestro pasado más cercano.

Todo ello en referencia a la escuela, entendida como uno de los ámbitos donde se construye la memoria pública y se libran disputas –manifi estas o veladas– por la imposición de determinados signifi cados. Con prólogo de Graciela Frigerio, el libro –que integra la colección “Formación docente. Historia”, dirigida por Gonzalo de Amézola– se organiza en cinco capítulos, que son reelaboraciones y reescrituras de trabajos publicados.

Las preocupaciones que dan forma al texto se inscriben en el marco más general de los debates sobre los vínculos entre historia y memoria y en el proceso de construcción del campo de la historia reciente en el ámbito académico argentino. Asimismo, se sitúan, en palabras de la autora, en el cruce de senderos trazado por políticas de la memoria, lugares de la memoria, políticas culturales, producciones estéticas y educación.

Un imperativo ético recorre el libro y es, declarado por la autora, la necesidad de ganarle a la pedagogía del silencio en las aulas, para que la dictadura no quede reducida a una efeméride. En relación con la enseñanza, Kaufmann señala la necesidad de contextualizar la dictadura en la historia argentina contemporánea así como la importancia de una perspectiva comparada que sitúe esos años en el marco latinoamericano. Pasa revista a eventos académicos y reseña producciones de organismos de derechos humanos, universidades y sindicatos, experiencias estéticas y propuestas didácticas de museos con el objeto de plantear posibles articulaciones con la enseñanza del pasado reciente.

Asimismo, no deja de puntualizar una serie de défi cits: insufi cientes producciones académicas, escasa bibliografía especializada para docentes; a los que se suman diversos tipos de condicionamientos sociales, políticos y hasta institucionales.

Respecto de la relación entre pasado reciente y educación, Silvia Finocchio señala que “(…) la historia reciente no ha sido abordada de modo sostenido por la enseñanza de la historia porque así lo pautó una larga tradición y porque a los docentes no se les proporcionaron lecturas que fortalecieran su tarea. Sin embargo, al tiempo que la escuela enfrentaba esas difi cultades, las políticas de la memoria lograron sedimentar los sentidos democráticos –y antidictatoriales– del Nunca Más entre los jóvenes y la educación abrió, lentamente, diversos espacios de mediación entre el pasado y el presente”.1

Yosef Yerushalmi advierte que un grupo o una colectividad recuerdan si el pasado es activamente transmitido a las generaciones contemporáneas y éstas pueden otorgarle sentidos propios.2

Lo que llamamos memoria se trata de un movimiento dual de transmisión y recepción de hechos y circunstancias pasados. Difícilmente en una sociedad sea posible encontrar una única versión del pasado porque la memoria está tan atravesada por tensiones y luchas como la realidad social. El imperativo de la transmisión se plantea cuando una sociedad se ha visto sometida a conmociones profundas, y esto pone en evidencia tanto la difi cultad de procesar el pasado como la necesidad de ofrecer a las generaciones futuras un nexo con su propia historia. Pero no se trata de un mecanismo automático, pues los receptores reinterpretan los hechos y las circunstancias del pasado y pueden asignarles nuevos sentidos.

Precisamente, focalizando la escuela como un espacio de mediación entre el pasado y el presente, Carolina Kaufmann plantea los desafíos de una transmisión que no remita a un sentido unívoco ni quede anclada en la repetición sino que, por el contrario, contribuya a un diálogo intergeneracional.

Hugo Vezetti sostiene que en la Argentina actual la memoria es una herencia de la dictadura y que el horizonte de expectativa ha sido la democracia.3 Por su parte, Andreas Huyssen advierte que “(…) asegurar el pasado no es una empresa menos riesgosa que asegurar el futuro”. 4 Tal aseveración nos lleva, necesariamente, a considerar que las memorias son construcciones que refi eren al pasado pero están ligadas al presente y al futuro. Al presente, porque la rememoración, como búsqueda activa, no es algo espontáneo sino que implica formas de recuperación del pasado en las que nos sentimos involucrados, pues se trata de un pasado que sigue interviniendo en el presente. Al mismo tiempo, las memorias están ligadas al futuro porque esas representaciones no se hallan escindidas de los horizontes de expectativas de los grupos que las producen.

La de la dictadura argentina es una temática en la que, como pocas, se dan cita esas cuestiones con singular intensidad. Por ello, resulta auspicioso un libro que, como éste, instala la problemática en el ámbito educativo.

Notas

1 Finocchio, S.: “Entradas educativas en los lugares de la memoria” en Franco, M. y Levin, F. (comp.) (2007): Historia reciente. Perspectivas y desafíos para un campo en construcción, Paidós, Buenos Aires, p. 266.

2 Yerushalmi, Y.: “Refl exiones sobre el olvido” en Yerushalmi y otros (1999): Usos del olvido, Nueva Visión, Buenos Aires.

3 Vezzetti, H.: “Confl ictos de la memoria en la Argentina. Un estudio de la memoria social” en Perotin-Dumon, A. (ed.): Historizar el pasado vivo en América Latina.

Publicación electrónica [http:/etica.uahurtado.cl/historizarelpasadovivo/es], 28/10/07.

4 Huyssen, A. (2001): En busca del futuro perdido. Cultura y memoria en tiempos de globalización, FCE, Buenos Aires, p. 37.

Fabiana Alonso – Universidad Nacional del Litoral

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O integralismo nas águas do Lete: história, memória e esquecimento | Rogério Victor Lustosa

A problemática da memória e as suas múltiplas abordagens têm se tornado um tema recorrente na produção da História nas últimas décadas. A historiografia que aborda o movimento integralista não foge desse novo enfoque, tendo sido produzidos, nos últimos anos, vários trabalhos para analisar tanto a forma como os militantes da Ação Integralista (novos e velhos) interpretam e reelaboram seu próprio passado, quanto a maneira como outros agentes políticos e sociais interpretavam o movimento dos camisas-verdes.

Trabalhando nessa seara, o jovem pesquisador Rogério Lustosa Victor apresenta uma importante colaboração ao tema. No livro ora resenhado, o qual foi apresentado inicialmente como dissertação de mestrado na Universidade Federal de Goiás em 2004 e publicado no ano seguinte, a questão da memória integralista é trabalhada nos mais diferentes ângulos, sendo oferecidas importantes reflexões ao estudioso do tema. Leia Mais