La giustizia in scena. Diritto e potere in Eschilo e Sofocle | Emanuele Stolfi

La giustizia in scena rappresenta un contributo innovativo nel vasto panorama degli studi sul diritto greco antico, ponendosi come modello per l’interlocuzione scientifica tra gli storici dei diritti antichi e gli studiosi della tragedia. L’Autore, pur riconoscendo l’attenzione di giuristi e filosofi del diritto ai quesiti posti dai testi tragici alla moderna sensibilità giuridica e la recente fortuna della corrente di studi «Law in Literature», rileva un limitato interesse da parte degli storici dell’esperienza giuridica. Questo libro indica le possibili direzioni del contributo degli studiosi di diritto greco all’esame del teatro di Eschilo e Sofocle, proponendo un’integrazione del metodo storico-giuridico entro ampie linee di indagine (filologicoletterarie, linguistiche, antropologiche) per illustrare questioni nevralgiche rappresentate dai tragediografi.

L’esperienza teatrale greca esige, di per sé, l’incrocio e la combinazione di saperi diversi. La tragedia è un evento «totalizante» che coinvolge la dimensione culturale, religiosa, etica, filosofica, politica e giuridica; un riflesso della coscienza civile, un «laboratorio» di costruzione del pensiero istituzionale. Lo studio del teatro tragico in ottica giuridica reca, secondo l’Autore, diversi vantaggi, come l’ampliamento delle fonti in cui reperire informazioni sui dettagli storici, politici e giuridici del V secolo (pp. 15-16) e nuove vie per comprendere alcuni passaggi delle opere drammatiche che, senza conoscere il contesto giuridico, potrebbero sfuggire ed esporre a fraintendimenti e sovrainterpretazioni, evocate nel ricchissimo apparato di note del libro.

La tragedia pone quesiti che non smettono di interpellarci; «i suoi dilemmi agitano ancora le nostre menti: di uomini e cittadini, prima che di giuristi» (p. 8). Tali interrogativi riguardano la giustizia, il diritto e il potere (come reca il titolo del volume), ma anche la legalità, gli usi della parola performativa e giudiziaria, gli assetti istituzionali. Le tappe dell’indagine sono discusse nella Prefazione (pp. 7-10) al libro, il cui intento è «sondare una serie di questioni, legate sul piano teorico prima che cronologico o autoriale […] più per valutarne i quesiti che per desumerne soluzioni tranquillizzanti ed eterne» (p. 9).

Il volume si articola in cinque capitoli, il primo dei quali (Teatro greco e cultura giuridica, pp. 11-38) illustra criteri e strumenti metodologici. La presenza nel vocabolario giuridico italiano di termini, espressioni e modi di dire propri del teatro, consente a Stolfi di evidenziare un meccanismo di transizioni lessicali e contaminazioni di saperi che denotavano il lessico del diritto già nell’antichità greca e romana (pp. 11-15). L’intreccio fra mito e realtà nella tragedia consentiva la raffigurazione di quesiti posti nella comunità su conflitti, istituzioni e dinamiche del potere, che rivelano tratti della «cultura giuridica» greca, dove il diritto non è tecnica formale o sapere ristretto (come a Roma), bensì un fenomeno «totalizzante» simile, per molti aspetti, al teatro. Al centro della rappresentazione tragica «veniva attratta la carica di conflittualità che nella vita pubblica si tendeva a sterilizzare o rimuovere» (p. 29), evidenziando contraddizioni e paure come le distorsioni del potere con la tirannide e la guerra civile, o l’incapacità delle istituzioni di tutelare la giustizia senza prescindere da un fondo di violenza e terrore ancestrale.

All’Autore non interessano i riferimenti a nozioni e figure giuridiche coeve, ma gli stalli e i dissidi presenti nelle riflessioni poetiche sulla giustizia, il potere e la legge, per svolgere una «riflessione attorno all’essenza del diritto – non solo quello attico del V secolo a.C. – alle sue eterne questioni, potenzialità e limiti» (p. 36).

Il secondo capitolo (Una e molteplice: la giustizia fra necessità e contesa, pp. 39- 113) esamina l’Orestea di Eschilo, punto di riferimento per chi studi l’esperienza giuridica greca. Analizzando limiti e meriti delle principali letture avanzate nel corso degli anni dalla critica, l’Autore confuta l’ipotesi, ancora diffusa tra gli studiosi, secondo la quale il poeta raffigurerebbe il passaggio dalla vendetta al diritto, insistendo, invece, sul loro difficile transito coincidente con diverse configurazioni della giustizia. L’altissima frequenza del termine δίκη nella trilogia e i suoi diversi significati mostrano «i limiti dell’una forma di giustizia come dell’altra, e delle disfunzioni a cui entrambe rischiano di dar luogo» (p. 48). La soluzione più efficace è un «superamento nella conservazione», ottenuto con l’introiezione dell’antica logica della vendetta entro le nuove modalità repressive della πόλις (p. 52).

Ripercorrendo episodi di ritorsioni e vendette delle stirpi mitiche, come la contesa fra Atreo e Tieste (pp. 53-59), Stolfi rivaluta il problema giuridico della responsabilità individuale e il ruolo del singolo nel teatro eschileo. Nei suoi personaggi «persiste […] un margine di scelta» e un «agire che è al tempo stesso un prendere una decisione» (p. 60); dietro ai rapporti fra generazioni, viene tematizzata l’imputabilità del fatto all’agente e la legittima sanzione di un illecito da cui l’autonomia decisionale non è esclusa. Segue l’analisi del ruolo del sangue, del suo spargimento ed effetto contaminante, nella trilogia (in particolare, col matricidio di Oreste e il ruolo delle Erinni) e nelle fasi storiche della legislazione attica sull’omicidio. Stolfi ricostruisce così i risvolti morali, religiosi e giuridici della questione dimostrando che, a differenza di quanto accade nella tradizione ebraica e romana, nella civiltà greca il sangue versato non aveva valenza del tutto negativa e solo il concorso di ulteriori elementi (identità della vittima, modalità di uccisione, contegno del reo) causava la contaminazione (pp. 63-75).

Analizzando le voci del lessico giuridico (θεσμός, νόμος) riferite all’istituzione dell’Areopago e del processo nelle Eumenidi, l’Autore non ravvisa in quest’atto fondativo un progresso lineare senza conflittualità, ma coglie «inquietudini e ambivalenze […] connesse con alcuni profili di fondo dell’immaginario pubblico greco» (p. 81) e un’eco delle tensioni della recente storia ateniese. La struttura del processo attico riproduce una contraddizione che la tragedia amplifica, anziché risolvere. Ponendo fine allo scontro (ἀγών) tra le parti con la votazione, si istituisce l’ennesimo conflitto che rischia di compromettere la coesione della comunità. Perciò la votazione delle Eumenidi si conclude in parità ripristinata, non raggiunta, dal voto di Atena, da cui trae origine l’attuale principio giudiziario in dubio pro reo (pp. 88- 89). Alla conclusione formale del processo deve seguire la ricomposizione del conflitto con buone pratiche di governo ed efficaci strategie suasorie basate sulla parola quale strumento razionale (λόγος) o ingannevole (μύθος) in grado di persuadere e soggiogare (par. 4). Infine, occorre affidare alle istituzioni la gestione dei conflitti per arginare il rischio di eccessi insito nel potere democratico e impedire il conflitto interno (στάσις), raggiungendo l’equilibrio con l’introiezione della paura in città. Significative, in tal senso, le analisi di Stolfi sul «lessico della paura» nel dramma (τὸ δεινόν, φόβος, σέβας, δέος) e i confronti con la VII Lettera di Platone (336a-337a), dove si rilevano molte analogie con le Eumenidi circa il mantenimento del buon ordine della comunità tramite la funzione «política» della paura (pp. 106-113).

Nel terzo capitolo (Ubiquità tiranniche, pp. 115-199) Stolfi esamina le raffigurazioni tragiche del potere partendo dalla tirannide, per la quale, ad Atene, sostenitori e avversari della democrazia nutrivano una condivisa avversione. L’onnipresenza del motivo in fonti letterarie diverse come le Supplici euripidee e il III libro delle Storie di Erodoto è ritenuta dall’Autore un modo, per i Greci, di interrogarsi su «un tratto di ineludibile ambivalenza avvertito in merito a qualsiasi forma di organizzazione pubblica, inclusa la democrazia» (p. 122). Più che una forma degenerativa, la tirannide è l’emblema del potere, il suo fondo oscuro, pronto a riemergere e compromettere la stabilità della πόλις con il rischio, congiunto, di στάσις.

Ricordando i principali tratti tirannici (ὕβρις, βία, ὀργή), l’Autore dedica la prima parte dell’indagine (pp. 125-147) alle due figure eschilee connotate in tal senso, ovvero Serse nei Persiani e Zeus nel Prometeo Incatenato. L’analisi, condotta con puntuali notazioni sulle voci e le immagini del lessico del potere e della tirannide (ἄρχειν, κράτος), svela legami con la poetica eschilea, che proietta nel mito gli interrogativi «circa l’intimo senso di ogni pratica di comando, tale da proiettarsi sulla politica ateniese» (p. 147), instaurando complesse simmetrie, ora tra il monarca assoluto sconfitto e la libertà «costituzionale» di Atene, ora tra l’ordine divino e la πόλις.

Segue l’esame dei personaggi sofoclei che assumono la qualifica di τύραννος. Interessante il caso degli Atridi nell’Aiace (par. 3) data la coesistenza di atteggiamenti tirannici, come l’inflessibilità del potere soverchiante (κράτος), e stilemi della democrazia ateniese, come la sovranità del νόμος e il ricorso al voto. Di tali strumenti giuridici il poeta mostra ambivalenze e fragilità note agli spettatori come l’inottemperanza alle leggi da parte dei destinatari e la contestazione di decisioni assunte a maggioranza anziché all’unanimità, «con il riprodursi nei giudici del conflitto fra le due tesi, iterato più che risolto col decretare […] la potenziale sopraffazione di una parte sull’altra» (p. 157). Secondo Stolfi, il tratto più inquietante è proprio la connessione tra l’attitudine isonomica di Atene e il profilo tirannico che «concorre a illustrare i tratti di dismisura e violenza che […] nessuna pratica di governo riesce totalmente a esorcizzare» (ibidem).

L’immagine sofoclea del potere si basa sulla dissociazione degli individui dal gruppo sociale cui appartengono come Aiace, Antigone, Edipo e Creonte (par. 4). I tratti che accomunano Antigone ed Edipo Tiranno (traduzione che Stolfi preferisce alla più comune Edipo Re; p. 184) sono la natura del potere di Creonte ed Edipo, dall’effettiva connotazione tirannica, e le scissioni delle identità, rivelanti le relazioni fra potere, pratiche di governo e dispositivi legali (par. 5). L’insieme di tali fattori si carica di preoccupanti implicazioni per gli spettatori, ai quali si mostra la vera «ubiquità» della tirannide col rischio di sovvertimenti «rispetto alle nitide demarcazioni su cui si voleva articolare la disciplina […] dell’Atene democratica» (p. 199).

Il quarto capitolo (Pluralità e conflitti di leggi, pp. 201-256) esamina l’Antigone, su cui pesano molte riletture (antiche e moderne) e interpretazioni, anche in senso giuridico. Per orientarsi in questo «labirinto ermeneutico» (p. 203), Stolfi privilegia uno stretto contatto con il testo, ricostruendo antefatti, contesti e implicazioni giuridiche a partire dalle polarità del dramma risolte non solo in chiave conflittuale, ma in dinamiche più complesse, dove le identità si rivelano o si riconoscono negli opposti.

Le dicotomie interessano i personaggi e, in modo simmetrico e inverso, anche le figure del diritto evocate. Il principale conflitto è tra «due ordini normativi […] dall’essenza non difforme, entrambi qualificabili come νόμοι» (p. 207). Analizzando il ricorrente lessico giuridico (θέμις, δίκη, κήρυγμα, θεσμός), Stolfi si sofferma sulla stratificazione semantica di νόμος, ravvisando la coesistenza (a tratti conflittuale) di un impiego più antico, indicante un ordine divino e trascendente, e uno più recente, riferito alle norme della comunità. Tale frattura è ripresa da Sofocle nell’opposizione tra Antigone e Creonte, non per enfatizzare alterità e dislivelli tra il decreto (κήρυγμα) e le leggi non scritte (ἄγραπτα νόμιμα), ma per integrare le parti in conflitto dello stesso νόμος (par. 2). Le due prescrizioni, legittime e vincolanti, non attestano la superiorità delle leggi non scritte di origine divina, naturale o panellenica rispetto alle disposizioni della πόλις, bensì uno scontro in atto ad Atene. Perciò l’Autore descrive il dissidio dell’Antigone come una στάσις del νόμος che, simile alla lotta intestina, ha un impatto divisivo sulla comunità contrastabile solo con gli strumenti della politica e la coesistenza dei livelli normativi (pp. 223- 224).

Segue l’esame delle tradizionali chiavi di lettura dell’opera secondo cui, ad esempio, Sofocle raffigurerebbe l’antitesi tra provvedimenti della πόλις e antiche formule orali, di origine religiosa (par. 3). Evidenziando l’assenza di riferimenti tecnici e formali propri della scrittura delle leggi ateniesi riferibili al decreto di Creonte (pp. 229-231), l’Autore confronta diverse fonti (Tucidide, Lisia, Isocrate, Senofonte) dove le leggi non scritte appaiono mera convenzionalità, senza portata religiosa. L’intento sofocleo era descrivere la complicata coesistenza di più nozioni riconducibili a νόμος; in tal modo, il poeta «destabilizza le armoniche certezze della retorica di governo […] immette leggi cittadine (di qualsiasi forma) e imperativi del potere in uno spazio scisso, gremito di interrogativi» (p. 237).

Il capitolo conclusivo («Ironia tragica», tecniche investigative, volontà e «inconscio giuridico», pp. 257- 343) esamina l’Edipo Tiranno, «felice esempio di come la conoscenza del diritto attico del V secolo concorra a far emergere densità e oscillazioni semantiche di vari passaggi» (p. 257). L’indagine riguarda la fisionomia del protagonista e l’«ironia tragica». Edipo rivela tratti sdoppiati e opposti per l’innaturale compresenza di ruoli che coinvolgono aspetti familiari e giuridici. Ad esempio, funzioni che nel sistema penale attico erano esercitate da più individui, sono tutte sovrapposte in lui, che è assassino e chi conduce la pubblica inchiesta (ζήτησις); il legislatore che proclama il bando (κήρυγμα) e fissa sanzioni, ma anche il diretto destinatario. È interessante la confluenza dei ruoli propri della repressione dell’omicidio, per il quale l’unica azione esperibile era la δίκη φόνου avviata dai parenti della vittima. Quando Edipo dice di perseguire l’omicidio del predecessore come se fosse suo padre, un simile dettaglio si comprende solo guardando al contesto giuridico, dove l’affermazione, lungi dall’essere superflua o «ironica» (come talora suggerito dagli studiosi), conferma l’aderenza di Sofocle alla disciplina coeva. Si innesca così un altro sdoppiamento in Edipo, che è accusatore legittimo (visto il legame con Laio) e imputato dell’azione processuale (pp. 279-282).

La destabilizzazione delle identità è la chiave di lettura del dramma. Analizzando l’editto di Edipo, Stolfi nota incongruenze nella tesi più nota, secondo cui il re indirizzerebbe le sanzioni (esilio, isolamento dalla comunità e maledizioni) contro l’assassino di Laio. Non si spiega, però, perché una pena così lieve, come l’interdizione sociale e religiosa, fosse prevista per un assassino rimasto impunito per molto tempo, né perché la sanzione minacciasse chi non voleva rivelarne l’identità. Secondo Stolfi, l’editto puniva con l’interdizione sociale l’omertà tebana, concausa del contagio, mentre l’esilio e le maledizioni invocate sul reo anticipano quanto subito da Edipo.

Lo stile dei ragionamenti edipici, basati sulla ricerca di segni per formulare congetture e operare abduzioni (pp. 289-290), riprende la storiografia tucididea, la medicina ippocratica e l’argomentazione giudiziaria teorizzata da Aristotele (par. 3). Sono molte le analogie riscontrate nel lessico di Edipo, che vuole «indagare» e «scoprire» la realtà (εὑρίσκειν, ἱστορεῖν, ζητεῖν, σκοπεῖν) con elementi affidabili (ἴχνος, σύμβολον, τεκμήριον, σημεῖα) che esigono un esame critico per ricostruire, in modo «razionale», sintomi e nessi causali come i medici e gli storici del tempo (pp. 299-304), o fornire spiegazioni plausibili come nei discorsi in tribunale (pp. 306-308).

Nell’Edipo Tiranno, accanto all’«ironia tragica» si delinea un «inconscio giuridico», come se ciò che non è detto in modo esplicito o non è (ancora) dicibile da Edipo si esprimesse, talora, col registro del diritto attico e non con il linguaggio allusivo della poesia. Un esempio riguarda la scelta della sanzione per il regicida, individuata tra esilio e pena di morte. L’oscillazione dipende dalla ricostruzione dell’omicidio della cui ideazione è accusato Creonte che merita, secondo Edipo, la pena capitale, mentre gli esecutori del crimine meritano l’esilio (pp. 312-317). Tale sfasatura, che contraddice la legge in cui era prevista la medesima sanzione per chi avesse pianificato ed eseguito un omicidio con «lucida prefigurazione» (φόνος ἐκ προνοίας), si spiega con l’«inconscio giuridico». Scopertosi autore dell’illecito, Edipo chiede di essere esiliato perché sa di aver agito d’istinto, in risposta a un’aggressione, uccidendo Laio senza πρόνοια; ciò, ad Atene, comportava una diversa qualificazione dell’omicidio (φόνος μὴ ἐκ προνοίας) e la condanna all’esilio, che Edipo aveva «inconsciamente» previsto nell’editto (p. 324).

L’assenza di «lucida prefigurazione» non implica un’involontarietà, poiché «la pronoia […] non coincideva col nostro dolo – come volontà dell’evento dannoso […] ma esigeva che il crimine fosse compiuto a “mente fredda”» (p. 315), quindi con piena consapevolezza. Pertanto, non è corretto affermare che Edipo sarebbe stato assolto per legittima difesa, come sostengono alcuni studiosi partendo dall’Edipo a Colono, dove si allude all’intenzione omicida di Laio che motiva la reazione edipica. Nel primo dramma, invece, Edipo segnala la sproporzione tra il torto subito e la propria reazione “accrescitiva” contro degli innocenti; ciò rende impossibile, dal punto di vista penale, la commisurazione con l’offesa e quindi la legittima difesa (pp. 319-322).

Mentre nell’Edipo Tiranno si insiste sulla «piena volontarietà, tanto dell’agire che del conoscere», nell’Edipo a Colono si ha un «dilatarsi dell’involontario» (p. 334) in Edipo, che descrive «come subiti e sofferti, anziché liberamente scelti e intenzionalmente compiuti» il parricidio, l’incesto e l’esilio (ibidem). Tali sfasature sono parte di una questione più profonda che interessa la cultura e l’antropologia giuridica greca, cioè «l’evoluzione conosciuta dall’elemento psicologico nell’omicidio, e in genere dalle nozioni di volontarietà e responsabilità soggettiva» (p. 342). Pur essendo argomenti della riflessione giuridica e filosofica successive, l’Autore evidenzia la loro presenza nel teatro sofocleo, dove la libertà dell’agente e la legittimità della sanzione si inseriscono in un nesso che associa la volontà alla piena conoscenza, per cui l’agire (δρᾶν) si capovolge, senza il conoscere, in un subire (πάσχειν) (pp. 332-336).

Il libro di Emanuele Stolfi è ricco di osservazioni utili che offrono molti stimoli e interessanti spunti di riflessione. Un’esposizione lucida ed efficace si accompagna, per tutto il volume, a una disamina rigorosa delle problematiche giuridiche poste dai testi tragici, a cui si uniscono confronti, spesso innovativi, con l’eterogenea bibliografia prodotta sulla tragedia e il diritto. Una novità di questo libro, fruibile anche da un pubblico non specialistico e meno avvezzo agli ambiti della ricerca giusantichistica, è lo sfondo su cui l’Autore colloca l’esame dei lavori di Eschilo e Sofocle più rilevanti in una prospettiva storico-giuridica.

È evidente la volontà di un’illustrazione ad ampio spettro, che reagisce alle partizioni accademiche che separano troppo nettamente ciò che nell’esperienza greca era oggetto di un’integrazione pressoché inscindibile, ossia la sfera del «político» e il diritto. Con questa consapevolezza, Stolfi propone nuove strategie per lo studio dei riferimenti giuridici e giudiziari evocati sulla scena e dell’interazione della tragedia con la πόλις, evidenziando dinamiche valutabili in maniera critica, senza meccaniche proiezioni. La cospicua mole di testimonianze ed esempi tratti dall’intero patrimonio letterario greco e la discussione dei livelli lessicali, linguistici e semantici consentono di approfondire questioni all’apparenza trascurabili, da cui trarre efficaci conclusioni, talora diverse dagli altri studiosi.

In ogni sezione del libro, l’Autore si sofferma sulla carica di ambivalenza e conflittualità dei drammi, che (anche) per questo sono testimonianza dell’inquieta coscienza civile (e giuridica) del tempo. Il fenomeno tragico rappresenta, nella sua struttura «totalizzante», il luogo privilegiato da cui scorgere la definizione di nozioni del pensiero giuridico dei Greci, altrettanto ricco e multiforme. Contro la tendenza a ridurre la comprensione dell’esperienza giuridica verso ciò che si conosce per altre vie (orazioni, iscrizioni), Emanuele Stolfi discute i vantaggi di uno studio che, includendo i testi teatrali tra le fonti della «cultura giuridica» greca, non contraddice le basi del metodo storico-giuridico, né di quello filologico, ma li arricchisce, amplificando le possibilità di discussione e comprensione critica dei testi.

L’indagine condotta in questo volume rivela come dietro ai dilemmi e ai quesiti, spesso insolubili, che racchiudono l’essenza della tragedia, si intrecciassero categorie di pensiero e strutture mentali della disciplina etica, politica e giuridica, di cui l’Autore esamina il modo di guardare al rapporto fra istituzioni e leggi tramite investigazioni sul senso ultimo del potere e della legalità, affini ai moduli teatrali. Ad uno sguardo generale, il libro di Stolfi è anche una rimeditazione intorno all’uso che si fa, ancora oggi, delle opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide, che continuano a essere rappresentate e suscitare l’interesse degli interpreti. L’invito rivolto ai giuristi e agli studiosi del mondo classico è di realizzare una nuova operazione intellettuale che, alla disamina degli elementi di rilevanza giuridica racchiusi nelle tragedie affianchi una diretta interrogazione dei testi, interpretandoli alla luce della «inattualità» che caratterizza il teatro e il diritto della Grecia antica.


Resenhista

Luca Flamingo – Università di Verona. E-mail: [email protected]


Referências desta Resenha

STOLFI, Emanuele. La giustizia in scena. Diritto e potere in Eschilo e Sofocle. Bologna: il Mulino; Collana Saggi, 2022. Resenha de: FLAMINGO, Luca. Grecorromana. Revista Chilena de Estudios Clásicos. Santiago, v. 4, p. 122- 128, 2022. Acessar publicação original [DR/JF]

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