Media-storie. Lezioni indimenticate di Peppino Ortoleva | Luca Barra e Giuliana Galvagno

Poche figure sono state in grado di fare della storia dei media un’ideale piattaforma per far dialogare le discipline: tra queste Peppino Ortoleva è stato certamente un maestro indiscusso1. Alla base di quest’esigenza di comunicazione fra campi di studio differenti vi è certamente, prendendo a prestito le sue stesse parole, «[…] la capacità non solo di accumulare dati e informazioni ma di creare connessioni, e possibilmente creare connessioni impreviste»2.

Lo stesso Ortoleva approdò allo studio della storia – e della storia della comunicazione in particolare – dopo essersi laureato in giurisprudenza all’inizio degli anni Settanta. Ottenuto un incarico come professore a contratto in Comunicazione e teoria dei media nelle università di Torino e di Siena all’inizio degli anni Novanta, ottenne la cattedra a Torino (2001) in qualità di professore associato per divenire, quattro anni più tardi, ordinario nello stesso ateneo piemontese. Molti hanno così potuto ascoltarlo, interagire e lavorare con lui, apprezzandone le doti di studioso e di ricercatore.

Proprio da un affettuoso senso di riconoscenza dei suoi allievi nasce questa raccolta del pensiero e del lavoro di Peppino Ortoleva: si tratta di “lezioni” trascritte e adattate dai suoi studenti, «[…] dove il testo scritto diventa lo spunto di partenza per qualche commento e rilancio, a partire dalle rispettive esperienze accademiche e lavorative»3 per guardare all’opera di un autore che ha saputo fornire spunti e costituire un punto di riferimento per almeno due generazioni di studiosi.

L’ordine in cui vengono proposti i brani ai lettori – il primo risale al 1981, l’ultimo è del 2018 – è strettamente cronologico e ripercorre, in qualche modo, la carriera di Ortoleva dando conto dei molteplici interessi verso cui si è indirizzato il suo lavoro di ricerca.

Il primo breve saggio, ripreso e commentato da Silvio Alovisio, è dedicato al racconto dei film: le riflessioni che vengono sollevate nel testo di Ortoleva vanno ben oltre l’osservazione dei processi di rimediatizzazione da parte degli spettatori degli spettacoli cinematografici, si addentrano infatti nei contesti comunicativi fra gli esseri umani.

Il secondo brano, selezionato e commentato da Nicoletta Leonardi, è invece consacrato alla fotografia. In queste pagine, originariamente pubblicate nel 1983, Ortoleva abbozza una riflessione sulla produzione fotografica di massa – che ha dato luogo a quella che lui definisce «[…] la vera folk age dell’età contemporeanea» – rifiutando di adottare schemi e clichés troppo semplicistici per poter approdare a un’interpretazione efficace e profonda del fenomeno. Ma non solo: già quattro decenni fa, Ortoleva metteva in evidenza l’importanza dell’intermedialità, suggerendo come un altro media, la televisione, avesse agito nel produrre cambiamenti nel mondo della fotografia.

Il terzo contributo è il commento di Paola Pallavicini alla voce “Storia dei media” redatta da Ortoleva per il Dizionario enciclopedico della Utet nel 1991. La riflessione in questo caso ruota intorno a tre termini (medium, media, sistema dei media) e alle necessarie distinzioni e interconnessioni fra questi ultimi.

A completare questo panorama di studi giunge il quarto testo, ripreso e curato da Luca Barra, che è in realtà la trascrizione di due lezioni di Ortoleva dedicate a un confronto fra cinema e televisione che tocca molteplici aspetti e il cui intento è ripercorrerne tanto le forme di fruizione quanto il modo con cui vengono vissuti.

Il contributo successivo è una sintesi della ricerca Vivere con i media realizzata per conto del Centro studi Mediaset tra le città di Napoli e Torino. Maria Teresa Di Marco, che coordinò l’attività di ricerca nel capoluogo campano, ne descrive le fasi progettuali e i risultati che restituì, soffermandosi in particolare sul tema della reciproca influenza fra i media.

Le pagine che seguono rappresentano un’interessante riflessione, sviluppata da Ortoleva nel corso di una conferenza-spettacolo tenuta nel 2011 presso l’Auditorium-Parco della musica di Roma nel 2011. Giuliana C. Galvagno ha trascritto le valutazioni fatte all’epoca dallo studioso – e tuttoggi attualissime – sulle implicazioni del “vivere di cultura” e sul ruolo dell’intellettuale nella contemporaneità. Il tema, dibattuto da tempo nell’ambito filosofico e delle scienze sociali4 così come oggetto della produzione letteraria 5 , approda nell’argomentazione di Ortoleva ad esprimere quella che lui definisce «la questione degli intellettuali»6 , sino a domandarsi se le contraddizioni non siano intrinseche a questa stessa figura:

Ciò che più di ogni altra cosa caratterizza il lavoro intellettuale è forse lo scarto tra le sue finalità e la sua concreta produzione, tra il bisogno di produrre discorsi e oggetti che possono essere condivisi e quello di continuare ad ascoltare se stessi, tra la professione e la vocazione; ed è da questo scarto che promanano tutte le altre contraddizioni, compresa quella tra il vivere di cultura come mestiere e il vivere per la cultura come vocazione7.

Gabriele Balbi sceglie invece di trascrivere alcuni passaggi di puntate di Cose nostre: 20 oggetti della vita italiana, andata in onda su Radio Tre. Telefonini, televisori e computer, oggetti che animano la nostra quotidianità, venivano allora (correva l’anno 2011) raccontati con lo sguardo acuto di Ortoleva e Di Marco; Balbi fornisce un dettagliato ed esauriente commento a questi brevi testi che costituisce un vero panorama storiografico degli studi sui media, utilissimo per collocare l’opera dello studioso napoletano in un contesto più ampio.

Sempre da questa trasmissione radiofonica proviene il saggio successivo, commentato da Giovanni Cordoni e dedicato alle radio libere, che Ortoleva analizza invitando il lettore a superare alcune concezioni un po’ naif per concentrarsi sugli aspetti più rivoluzionari di questa esperienza, che toccano tanto gli aspetti della fruizione quanto quelli politici e istituzionali.

È un cappello introduttivo a uno dei seminari del ciclo “Intorno ai media” quello raccolto o commentato da Riccardo Fassone: l’argomento è il gioco e la sua funzione nella vita dell’uomo. Questo breve testo rappresenta in realtà un’eccezionale testimonianza della capacità di Ortoleva di muoversi al confine fra le discipline, rifiutando rigidi steccati settoriali e, anzi, sollecitando altri studiosi a lavorare mettendo in comunicazione comunità scientifiche apparentemente distanti fra loro.

Lo stesso spirito si rinviene nel brano successivo, dedicato al rapporto fra stati allucinatori e media. Il curatore, Simone Natale, si concentra, nel suo commento, nel mettere in luce la capacità di Ortoleva di individuare filoni secondari nella ricerca: si spiega così perché «in un seminario sui medisa si discutesse di spiritismo e LSD»8.

Paolo Bory ha invece scelto di commentare due testi (un intervento e un’intervista realizzati nell’ambito dei convegni Sloweb tenuti a Torino nel 2017) i cui concetti cardine ruotano intorno a due fondamentali osservazioni: la prima è che il mondo in cui viviamo ha aumentato le intermediazioni, dando luogo in misura crescente a fenomeni di “indicizzazione” della realtà che ci circonda; il secondo è che l’informazione di per sé non crea conoscenza: risiede, invece, nella nostra capacità di legare, di creare connessioni e sentieri fra informazioni diverse.

Il contributo successivo – trascritto e commentato da Simone Dotto – è rappresentativo dell’interesse, costantemente coltivato nel corso di tutta la carriera accademica di Ortoleva, per gli studi sulla radio. Il breve saggio è incentrato in particolare sulle politiche fasciste per lo sviluppo della radiofonia e sottolinea una lacuna storiografica, quella che tocca «[…] gli aspetti uditivi nell’esperienza della modernità»9.

Chiude il volume la trascrizione dell’ultima lezione tenuta da Ortoleva nel 2018 nell’ambito del corso “Capire i media” dell’Università di Torino: qui a dominare la scena è un’illuminata e dotta dissertazione sul concetto di viltà e su come questa “inquini” le comunicazioni all’interno della società.

Quel che emerge al termine della lettura dei tredici contributi che compongono questo volumetto è un ritratto multisfaccettato e plurale di un autore che la cui cifra distintiva è sempre stata la pluralità: nei temi approfonditi nel corso della carriera università, nella capacità di far dialogare le discipline e nel costante desiderio di sfuggire al pensiero dominante per cercare lo spazio per il pensiero laterale, quello della differenza.

Media-storie si sottrae all’abituale prassi del Festschrift perché lascia spazio a contributi estremamente diversi fra loro, eterogenei e versatili come gli interessi e la personalità dello studioso che celebrano. Un altro aspetto che vale la pena di sottolineare è il dialogo ininterrotto fra gli allievi e Ortoleva, che si percepisce attraverso i commenti in calce ai saggi.

Il lettore troverà in queste pagine quegli spunti e quell’originalità che hanno sempre contraddistinto il percorso universitario di Ortoleva, quel pensiero laterale – broken – in grado di creare nuove e sorprendenti connessioni fra le informazioni; potrà apprezzare la lucida visionarietà, ma al contempo la precisione e il rigore dell’analisi di un autore che costituisce, oggi più che mai, una pietra miliare per lo studio della storia dei media.

Notas

1 Solo per ricordare una parte della produzione di Ortoleva dedicata all’ambito mediatico: ORTOLEVA, Peppino, Cinema e storia. Scene dal passato, Torino, Loescher, 1991; ID., Un ventennio a colori. Televisione privata e società italiana, Firenze, Giunti, 1995; ID., Mass media. Nascita e industrializzazione, Firenze, Giunti, 1995; ID., Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Milano, Il Saggiatore, 2002; CORDONI, Giovanni, ORTOLEVA, Peppino, SIBILLA, Gianni (a cura di), La grana dell’audio. La dimensione sonora della televisione, Roma, Rai-Nuova Eri, 2002; ORTOLEVA, Peppino, SCARAMUCCI, Barbara (a cura di), Enciclopedia della radio, Milano, Garzanti, 2003; ORTOLEVA, Peppino, DI MARCO, Maria Teresa (a cura di), Luci del teleschermo. Televisione e cultura in Italia, Milano, Electa, 2004; CORDONI, Giovanni, ORTOLEVA, Peppino, VERNA, Nicoletta, Le onde del futuro, Milano, Costa & Nolan, 2006; ORTOLEVA, Peppino, Il secolo dei media, Milano, Il Saggiatore, 2009; ID., Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana, Torino, Einaudi, 2019.

2 BARRA, Luca, GALVAGNO, Luciana (a cura di), Media-storie. Lezioni indimenticate di Peppino Ortoleva, Roma, Viella, 2020, p. 82.

3 Ibidem, p. 8.

4 Solo per citare due esempi su cui si sofferma lo stesso Ortoleva: ADORNO, Theodor W., Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi, 2015; WEBER, Max, Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1993.

5 Tra le altre spiccano sicuramente le riflessioni sviluppate nell’opera di Bianciardi: BIANCIARDI, Luciano, La vita agra, Milano, Feltrinelli, 2013; ID., Il lavoro intellettuale, Milano, Feltrinelli, 1974.

6 BARRA, Luca, GALVAGNO, Giuliana C. (a cura di), op. cit., p. 47.

7 Ibidem, p. 48.

8 Ibidem, p. 76.

9 Ibidem, p. 90.


Resenhista

Deborah Paci – Storica contemporaneista, insegna Fonti e metodi digitali per la ricerca storica presso l’Università di Bologna e l’Università di Modena e Reggio Emilia. I suoi interessi di ricerca vertono sulla Digital public history, sugli studi insulari, sul Mediterraneo e sulla storia delle idee. Nel 2019 ha curato il volume: Storia in digitale. Teorie e metodologie (Milano, Unicopli, 2019).


Referências desta Resenha

BARRA, Luca; GALVAGNO, Giuliana C. (Eds.). Media-storie. Lezioni indimenticate di Peppino Ortoleva. Roma: Viella, 2020. Resenha de: PACI, Deborah. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.47, n.3, p.219-224, out. 2021. Acessar publicação original [DR]

BRUNETTA Gian Piero (Aut), L’Italia sullo schermo. Come il cinema ha raccontato l’identità nazionale (T), Carocci (E), CAMPAGNA Stefano (Res), Diacronie (Dar), Europa – Itália, Identidade Nacional, Cinema, Séc. 20

Dalla pubblicazione dei primi pioneristici lavori di Pierre Sorlin e Marc Ferro alla fine degli anni Settanta1, studiosi di diversa formazione si sono interrogati sui complessi legami che uniscono cinema e storia, alimentando un dibattito che anche in Italia ha prodotto risultati di grande valore scientifico2 e che ultimamente ha portato, almeno in parte, al superamento delle «antinomie ed interferenze tra questi due mondi»3. Tra i protagonisti di questa stagione di studi, Gian Piero Brunetta, emerito di storia e critica del cinema presso l’Università di Padova, è sicuramente quello che per primo ha tentato di instaurare un dialogo con gli storici per dimostrare l’importanza non secondaria del cinema quale luogo privilegiato per comprendere la storia del XX secolo. Lo testimoniano le numerose monografie sulla storia del cinema italiano in cui lo studioso ha affiancato ai suoi iniziali interessi per la critica e il linguaggio filmico la ricostruzione storiografica dei contesti produttivi, delle forme della fruizione e del ruolo culturale svolto dal cinema nella società4.

In questo filone di ricerca si inserisce il volume in oggetto, nei fatti la rielaborazione di alcuni saggi pubblicati dall’autore nel corso della sua lunga carriera, opportunamente aggiornati ala luce dello stato dell’arte e integrati da scritti inediti. Pur caratterizzati da approcci analitici differenti i quindici capitoli del testo muovono dal comune tentativo di comprendere come il «cinema abbia letto la storia d’Italia, ne abbia saputo cogliere i caratteri identitari e le trasformazioni nel corso del tempo e come sia variato il suo uso pubblico da parte di soggetti diversi che si sono serviti del mezzo filmico per scopi molto differenti»5. L’autore, infatti, considera la storia un elemento strutturale del cinema italiano, che si differenzierebbe dalle altre cinematografie proprio per una più pronunciata e precoce vocazione a divenire narratore di eventi storici, colti in un passato, anche remoto, o rappresentati nel momento stesso del loro accadere, come nel caso paradigmatico del cinema neorealista. Tesi, questa, argomentata con chiarezza fin dalle prime pagine del volume, attraverso l’adozione di prospettive che tendono a inquadrare i temi trattati nel loro sviluppo diacronico e in una dimensione comparata, per cogliere le influenze e le interferenze tra il cinema italiano e le altre cinematografie nazionali o i nessi intertestuali tra le pellicole e altri prodotti culturali. Ampia la tipologia di fonti utilizzate: documentari e pellicole di fiction su tutte, ma anche articoli di riviste e periodici, monografie specialistiche, scritture autobiografiche e memorie; insomma, tutti quegli elementi che permettono allo storico di ricostruire «le forze e gli agenti contestuali» che allargano «in più direzioni le capacità significanti» della singola produzione filmica6.

L’importanza della fonte filmica come monumento e documento – per utilizzare la celebre coppia concettuale enunciata da Jacques Le Goff7 – emerge con chiarezza nei capitoli dedicati alla rappresentazione degli snodi cruciali della storia nazionale, primo fra tutti il Risorgimento, luogo di memoria privilegiato attorno a cui il cinema si è misurato con l’impresa di costruire le mitologie condivise che stanno alla base dello Stato unitario. Da La presa di Roma (Filoteo Alberini, 1905), vero e proprio atto di nascita del cinema italiano, fino al recente Noi credevamo (Mario Martone, 2010), passando per capolavori come 1860 (Alessandro Blasetti, 1934) e Il Gattopardo (Luchino Visconti, 1964), Brunetta riscontra nelle tendenze principali della filmografia sul Risorgimento narrazioni che consentono «di respirare e capire bene il clima culturale e ideologico del periodo»8 in cui i film sono stati realizzati. La centralità dello sguardo del presente sul passato risalta anche nell’ultimo capitolo, dedicato ai «cantori della storia d’Italia del Novecento», cioè a quegli autori come Francesco Rosi, Bernardo Bertolucci, Ermanno Olmi, Paolo e Vittorio Taviani, Pupi Avati, Ettore Scola, Nanni Moretti, Marco Tullio Giordana – per citarne alcuni – che a partire dalla fine degli anni Sessanta, sono riusciti a fare del cinema «il luogo privilegiato dela narrazione storica e la fonte necessaria della memoria individuale e del paese»9 , recuperando vicende e figure del passato, spesso fino a quel momento rimosse o volontariamente ridimensioniate (come l’esperienza del fascismo, della Resistenza e della guerra civile del 1943- 45), per leggervi in trasparenza l’attualità e le sue contraddizioni.

Una parte consistente del volume è dedicata all’analisi del rapporto tra cinema e propaganda in relazione alle guerre combattute dagli italiani nel XX secolo: la Grande guerra, che impone all’Italia, così come agli altri paesi coinvolti nel conflitto, di sfruttare le potenzialità offerte dal mezzo cinematografico per manipolare il “visibile” del conflitto e costruire narrazioni volte al rafforzamento del fronte interno; la guerra di Spagna, che assieme al conflitto italo-etiopico del 1935-36 rappresenta il primo banco di prova dell’Istituto Luce10 come produttore di pellicole documentarie ideologicamente orientate a sostegno dell’imperialismo fascista; la seconda guerra mondiale che mostra «i limiti del Luce come braccio armato della propaganda e il suo procedere non del tutto in sintonia con il passo del regime»11, e più in generale rivela, anche nei film di propaganda come quelli di De Robertis e Rossellini, il progressivo allontanamento dei cineasti dai presupposti ideologici della guerra fascista. Presupposti ideologici che invece giocano un ruolo centrale nei cosiddetti film coloniali prodotti contestualmente alla conquista dell’Etiopia e alla costruzione dell’impero in Africa Orientale12, i quali presentano agli spettatori lo spazio coloniale come luogo deputato alla rigenerazione dell’identità nazionale, permettendo d’altro canto alla cinematografia italiana, caduta in una profonda crisi all’inizio degli anni Venti, «di riprendere la corsa inserendosi in filoni già sperimentati con successo in altri paesi»13. Sempre in relazione ai temi della propaganda e dell’organizzazione del consenso, le forme del divismo politico cinematografico sono studiate da Brunetta nei termini di un confronto tra «le differenti strategie di rappresentazione simbolica e reale»14 utilizzate in vari contesti per la costruzione dell’immagine pubblica di alcuni protagonisti della scena politica novecentesca come Mussolini, Hitler, Stalin, Franco, Pio XIII e De Gaulle.

Rimanendo nella dimensione comparativa, risultano di grande interesse i capitoli dedicati ai rapporti tra Italia e Stati Uniti15, che ricostruiscono il ruolo del cinema come “agente diplomatico” e soprattutto come veicolo di elementi identitari. Nel primo caso si prendono in considerazione le influenze e le ricadute del cinema italiano in ambito statunitense, specialmente del neorealismo, vero e proprio volano della rivalutazione culturale e ideale dell’Italia nel mondo dopo l’esperienza del fascismo; nel secondo, le modalità attraverso cui, tanto nelle pellicole di produzione nazionale che in quelle hollywoodiane, sono stati definiti l’identità e i caratteri dell’italiano. Ad esempio, l’autore presta particolare attenzione alle rappresentazioni degli emigranti italiani nel cinema, evidenziando come memorie e stereotipi di lungo periodo finiscano per assumere configurazioni diverse al mutare del contesto storico. Al tema della difficile ricerca dell’identità nazionale è dedicato il capitolo più corposo del volume, un lungo viaggio attraverso la cinematografia italiana che si estende dalla «palingenesi delle macerie» dell’immediato dopoguerra fino alle soglie della nascita dell’Unione Europea nei primi anni Novanta del XX secolo16. Un «viaggio non lineare» – per usare le parole dello stesso Brunetta – che pur essendo diretto verso l’orizzonte culturale e ideale dell’Europa «passa obbligatoriamente attraverso l’America»17 e per un confronto del cinema italiano con modelli etici ed estetici d’oltreoceano, fatto di assimilazioni e prestiti ma anche di reazioni di segno opposto.

In conclusione, il testo di Brunetta, nel proporsi come la summa di un prolifico percorso di ricerca, ha il merito di indicare strade ancora superficialmente battute dagli studiosi, di guardare a problemi interpretativi già affrontati con una diversa distanza prospettica e di esplicitare le premesse che stanno alla base dell’approccio al cinema da parte della storiografia contemporanea. Il cinema infatti, lungi dal presentarsi allo storico come «un museo dove ogni autore e ogni opera ha già raggiunto la sua collocazione definitiva», si configura oggi come un territorio instabile, in via di continua definizione e rimodulazione, «una sorta di galassia nella quale ogni elemento è capace di generare strutture multifacciali e sprigionare quantità di energie imprevedibili, finora mai valutate in tutta la loro portata»18, grazie anche alla maggiore capacità di accesso alle fonti rispetto al passato. Da qui la necessità di tradurre operativamente, in una sinergica e reciproca interazione tra i saperi e le discipline che definiscono questo campo epistemico, quell’interdisciplinarità troppe volte evocata e raramente perseguita con decisione.

Notas

1 Cfr. FERRO, Marc, Cinema e storia: linee per una ricerca, Milano, Feltrinelli, 1980 [ed. orig.: Cinéma et Histoire, Paris, Denoël, 1975]; SORLIN, Pierre, Sociologia del cinema, Milano, Garzanti, 1979 [ed. orig.: Sociologie du cinéma: ouverture pour l’histoire de demain, Paris, Aubier Montaigne, 1977].

2 Per una panoramica cfr. MATTERA, Paolo, UVA, Christian, «Cinema e Storia: note sullo “stato dell’arte” del dibattito», in Studi Culturali, 2/2015, pp. 249-264. Tra i tanti cfr. almeno PINTUS, Pietro, Storia e film. Trent’anni di cinema italiano (1945-1975), Roma, Bulzoni, 1980; ARGENTIERI, Mino, Cinema: storia e miti, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1984; ORTOLEVA, Peppino, Cinema e storia. Scene dal Passato, Torino, Loescher, 1991; MIRO GORI, Gianfranco (a cura di), La storia al cinema. Ricostruzione del passato interpretazione del presente, Roma, Bulzoni, 1994; DE LUNA, Giovanni, La passione e la ragione, Fonti e metodi dello storico contemporaneo, Milano, La Nuova Italia, 2001; IACCIO, Pasquale, Cinema e storia. Percorsi e immagini, Napoli, Liguori, 2008; CAVALLO, Pietro, Viva l’Italia. Storia, cinema e identità nazionale (1932-1962), Napoli, Liguori, 2010; DI BLASIO, Tiziana Maria, Cinema e storia. Interferenze/confluenze, Roma, Viella, 2014.

3DI BLASIO, Tiziana Maria, op. cit., p. 12.

4 Su questo filone di ricerca cfr. BRUNETTA, Gian Piero, Storia del cinema italiano, 2 voll, Roma, Editori Riuniti, 1979-1982; ID., Storia del cinema italiano, 4 voll., Roma, Editori Riuniti, 2001; ID., Cent’anni di cinema italiano, 2 voll., Roma-Bari, Laterza, 2010-2011.

5 ID., L’Italia sullo schermo. Come il cinema ha raccontato l’identità nazionale, Roma, Carocci, 2020, p. 13.

6 Ibidem, p. 23.

7 Cfr. LE GOFF, Jacques, s.v. «Documento/monumento» in Enciclopedia, vol. V, Torino, Einaudi, 1978, pp. 38- 48.

8 BRUNETTA, Gian Piero, L’Italia sullo schermo, cit., p. 53.

9 Ibidem, p. 306.

10 Sull’Istituto Luce cfr. LUSSANA, Fiamma, Il cinema educatore. L’Istituto Luce dal fascismo alla liberazione (1924- 1945), Roma, Carocci, 2019. Per i lavori precedenti dell’autore sull’Istituto Luce cfr. BRUNETTA, Gian Piero, Mise en page dei cinegiornali e mise en scène mussoliniana, in REDI, Riccardo (a cura di), Cinema italiano sotto il fascismo, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 165-184; ID., «Con i fascisti alla guerra di Spagna», in Bianco e Nero, XLVII, 3/1986, pp. 25-41.

11 BRUNETTA, Gian Piero, L’Italia sullo schermo, cit., p. 207.

12 Cfr. BEN-GHIAT, Ruth, Italian Fascism’s Empire Cinema, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 2015.

13BRUNETTA, Gian Piero, L’Italia sullo schermo, cit., p. 171.

14 Ibidem, p. 139.

15 Su questo tema cfr. inoltre ID., Il ruggito del leone: Hollywood alla conquista dell’impero dei sogni nell’Italia di Mussolini, Venezia, Marsilio, 2013.

16 Cfr. ID., L’Italia sullo schermo, cit., pp. 231-287.

17 Ibidem, p. 239.

18 Ibidem, p. 26.


Resenhista

Stefano Campagna – Dottorando presso l’Università di Parma con un progetto dal titolo “Il cinema e i giovani nell’Italia fascista” e ricercatore presso l’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea (ISGREC). Tra i suoi interessi di ricerca, la storia sociale e culturale dei media nell’Italia contemporanea, la storia coloniale e postcoloniale e l’analisi dei rapporti tra mezzo cinematografico, storia ed educazione in una prospettiva transnazionale.


Referências desta Resenha

BRUNETTA, Gian Piero. L’Italia sullo schermo. Come il cinema ha raccontato l’identità nazionale. Roma: Carocci, 2020. Resenha de: CAMPAGNA, Stefano. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.47, n.3, p. 225-230, out. 2021. Acessar publicação original [DR]

RUJU Sandro (Ed), Migrazioni/ colonie agricole e città di fondazione in Sardegna (T), Franco Angeli (E), IBBA Roberto (Res), Diacronie (Dar), Migração, Colônia Agrícola, Cidade, Sardenha, Europa – Itália

Il volume curato da Sandro Ruju1, edito all’interno della collana “Sardegna contemporanea” diretta dall’Istituto sardo per la storia dell’antifascismo e della società contemporanea, ospita quindici contributi di studiose e studiosi che affrontano temi ancora poco indagati dalla storiografia: l’immigrazione in Sardegna, le migrazioni interne, il ruolo dello Stato, l’integrazione tra chi arriva e le popolazioni locali. I quindici saggi si prestano a più chiavi analitiche e interpretative, delle quali prenderemo in considerazione alcune che ci appaiono maggiormente rilevanti.

In primo luogo, i contributi possono essere letti in una dimensione “macro”, inquadrandoli in una scala di osservazione non solo nazionale, bensì mediterranea2. Questo punto di vista abbraccia un segmento evenemenziale, che attraversa la tarda età moderna fino agli ultimi anni del Novecento, all’interno del quale sono ricostruiti gli effetti sull’Isola delle migrazioni di maltesi, greci, liguri, corsi, dell’esodo istriano-dalmata, del rientro in Italia degli emigrati in Tunisia nel periodo della decolonizzazione. La Sardegna è dunque inserita all’interno di una rete di connessioni che si estende a tutti i territori delle sponde del Mediterraneo, inteso non solo fisicamente ma come appartenenza culturale e storica3. Gli effetti sono contrastanti, talvolta conflittuali, altre volte con maggiore fortuna sociale ed economica.

Restando su questo livello, è fondamentale sottolineare come i contributi pongano l’accento sul ruolo dello Stato, quello moderno e quello contemporaneo, che avoca a sé il ruolo di creatore di “luoghi”, con o senza la collaborazione dei privati o delle comunità, fino a tutto il XX secolo. La questione non è ovviamente una prerogativa sarda: il fenomeno è infatti inquadrato in una dimensione europea e mediterranea4.

Nel caso della Sardegna, emerge storicamente una differenziazione tra la percezione “interna” e quella “esterna” del territorio, del paesaggio, della stratificazione giuridica e sociale. In particolare, la dimensione del “pieno” e del “vuoto”, delle comunità di villaggio, degli spazi agrari dell’openfield, delle aree pabulari e boschive, alimentano una visione esterna in cui i tratti dominanti sono lo spopolamento e la pastorizia errante. Tralasciando, in questo contesto, la ciclicità del rapporto tra agricoltura e pastorizia5, dai saggi emerge una periodica volontà, da parte statale, di riempire i vuoti con bonifiche, colonizzazioni agricole, trasferimento di gruppi esterni. Come ben evidenziato nei contributi, questi momenti non sono quasi mai indolori e pacifici, anzi le comunità locali sono spesso ostili a tali progetti. Una spiegazione a questa contrarietà può essere rintracciata nel plurisecolare deposito di diritti condivisi sulla terra, che sta a fondamento della sopravvivenza stessa delle comunità almeno fino all’Ottocento inoltrato6.

Se riduciamo la scala di osservazione, i saggi di questo volume assumono una loro preziosa valenza anche dal punto di vista microstorico. In diversi passaggi, l’utilizzo della corrispondenza privata, delle testimonianze orali, della memoria come “oggetto” storico, permette una definizione di maggior dettaglio degli avvenimenti, delle strategie individuali e comunitarie, con una concentrazione proprio sui nodi di quella rete di relazioni che lega i luoghi dell’Isola agli altri luoghi del Mediterraneo. Questa prospettiva assume caratteri di particolare interesse e garantisce ulteriori sviluppi per le ricerche proposte, in un’ottica di ricostruzione delle storie di comunità e delle vicende familiari, che oggi possono rivestire un importante significato nel supporto a percorsi di sviluppo locale.

Il libro si apre con la presentazione di Sandro Ruju che, prendendo spunto dai contributi, offre la ricostruzione di una parte della storia economica e sociale sarda, osservata attraverso la prospettiva delle migrazioni e dei tentativi di colonizzazione. Proprio su questi tentativi in età moderna, si concentra una parte del saggio di Giampaolo Salice, che trattando di popolamento «forestiero» della Sardegna tra Settecento e Ottocento, ci invita a pensare la colonizzazione come un gioco a tre, tra il sovrano, la popolazione nativa e i coloni che si insediano nel territorio. Giampaolo Atzei si concentra sulle trasformazioni economiche e sociali durante l’epopea mineraria dell’iglesiente, che nella seconda metà del XIX secolo attira capitali e famiglie imprenditoriali, come quelle dei Modigliani e dei Boldetti. Nell’ambiente minerario convergono e si formano politicamente anche i dirigenti dei movimenti e dei partiti dei lavoratori, come il piemontese Giuseppe Cavallera e l’abruzzese Angelo Corsi.

Alla costruzione di Carbonia è dedicato il contributo di Walter Falgio, che si occupa di una migrazione tutta interna alla Sardegna raccontando la storia dell’ingegnere Giuseppe Marongiu il quale, da Nuoro, si trasferisce nel Sulcis per guidare uno dei cantieri attivati per costruzione della nuova città. Le testimonianze del tecnico nuorese aprono degli spunti di riflessione sulle tante piccole migrazioni interne e sulle enormi difficoltà che si addensano attorno all’edificazione di Carbonia, nonostante l’enfasi imposta dal regime fascista. Un uso interessante delle fonti archivistiche è sviluppato nel saggio di Flavio Conia che, nel rappresentare il caso delle migrazioni interne verso la Nurra e l’area industriale della SIR a Porto Torres, utilizza documenti del Ministero dell’Interno e della Cassa per il Mezzogiorno, fondi che meritano successivi approfondimenti per lo studio di questo tema.

Le colonie penali sono tra i più evidenti strumenti di intervento statale in alcune aree della Sardegna: su queste, Costantino Di Sante focalizza la sua analisi a proposito delle funzioni economiche e rieducative, fino alla loro cessione all’Ente Ferrarese di Colonizzazione e all’ingresso di coloni «liberi». Sempre all’ambito delle colonie penali, con riferimento particolare a quella di Tramariglio, si riferisce il saggio di Stefano A. Tedde, che studia le migrazioni e le difficoltà di detenuti, guardie di custodia e amministrativi, attraverso documenti e corrispondenza conservati nell’archivio della struttura.

Daniele Sanna, nella sua ricerca sulla mobilità di militari e funzionari pubblici, introduce un’interessante riflessione sull’idea di Sardegna nell’immaginario esterno, da luogo quasi di confino e di punizione, fino alla nuova rappresentazione legata al turismo e alle vacanze balneari, che si afferma in seguito alla nascita della Costa Smeralda.

Un’idea di colonizzazione è quella portata alla luce da Erica Luciano, che ha riscoperto la storia legata al tentativo di trasferimento in Sardegna di coloni abruzzesi provenienti dall’Altipiano di Campotosto, costretti a migrare in seguito alla costruzione di un bacino idroelettrico, che fallisce in pochi mesi nella primavera del 1947. La Fertilia dei Giuliani è al centro del profondo lavoro di Maria Luisa Molinari, nel quale sono evidenziati sia i due tempi di vita della colonia (quello fascista e quello del popolamento con i giuliano-dalmati sotto la gestione dell’EGAS), sia il complesso processo di evoluzione dell’identità collettiva e di integrazione con le comunità circostanti. Un problema storiografico e antropologico che riemerge anche nel saggio di Valeria Deplano, incentrato sul “ritorno” degli italiani emigrati in Tunisia dopo la fine del protettorato francese. Intere famiglie che, avendo ormai perso i contatti con i propri luoghi di origine, intrecciano le loro storie con il processo di riforma agraria in corso negli anni Sessanta in Italia. Alcune di queste scelgono di appoderarsi in Sardegna, proprio nei comprensori della bonifica gestiti dagli enti sardi di riforma (ETFAS e EAF), in cui possono sviluppare le loro conoscenze maturate nel campo della viticoltura.

Gli ultimi cinque saggi del volume sono dedicati ad Arborea, forse il caso storicamente più rilevante di bonifica e colonizzazione, con la persistenza di valori identitari più marcati. Luciano Marrocu spiega bene come il fascismo si inserisca in un progetto di bonifica già avviato nella tarda età liberale da Giulio Dolcetta, per appropriarsene in chiave propagandistica. L’utilizzo delle fonti orali, raccolte a più riprese, permette a Maria Luisa Di Felice, già autrice di importanti lavori sul tema7, di mettere in risalto le difficoltà delle prime famiglie coloniche giunte nella piana terralbese per abitare i poderi di Mussolinia-Arborea, dando voce soprattutto alla componente femminile, dipingendo il quadro quasi feudale dei rapporti tra i mezzadri e la Società Bonifiche Sarde. Alberto Medda Costella si sofferma sulle diverse provenienze dei coloni (Veneto, Romagna, Lombardia, Sicilia) e sul passaggio da mezzadri ad assegnatari, concretizzatosi nel secondo dopoguerra, che permette l’appoderamento anche di diverse famiglie sarde, fino ad allora quasi totalmente escluse per via dello scarso apporto in termini di braccia che potevano fornire per condurre un podere mezzadrile. Il contributo di Alessandro Mignone offre interessanti spunti sulla volontà del fascismo di «sbracciantizzare» alcune aree del Settentrione, sia per motivi economici (allentare la sottoccupazione della manodopera agricola), sia per motivi politici (evitare il rafforzamento delle organizzazioni bracciantili ostili al regime), con il trasferimento di gruppi familiari nel territorio di Arborea. Saranno gli stessi prefetti, come illustrato nel saggio, a organizzare le migrazioni verso la piana del basso oristanese.

Infine, Paolo Sanjust riflette sul tema del paesaggio agrario «edificato» in seguito alla bonifica di Terralba-Arborea e sulle opere necessarie alla creazione dei primi cantieri che hanno modificato il territorio e il rapporto delle popolazioni con lo stesso.

Il volume ha il merito di affrontare temi di grande complessità, come lo stesso concetto di colonizzazione, ancorandoli alle solide basi delle fonti archivistiche e documentarie (anche di tipo orale), e apre la strada a nuove indagini ad ampio spettro, dalle strutture economiche, alla ricostruzione genealogica, alla storia del paesaggio rurale.

Notas

1 Sandro Ruju è uno studioso di storia economica e sociale. Docente scolastico e universitario, i suoi studi si sono focalizzati sulle problematiche economiche, sulla storia del lavoro, dell’industria, del turismo e delle attività tradizionali della Sardegna. Tra le sue principali pubblicazioni: RUJU, Sandro, Via delle Conce. Storia e memorie dell’industria del cuoio a Sassari 1850-1970, Sassari, Dessì, 1988; ID., L’Argentiera. Storia e memorie di una borgata mineraria in Sardegna 1863-1962, Milano, Angeli, 1996; ID., Il peso del sughero. Storia e memorie dell’industria del sughero in Sardegna 1830-2000, Sassari, Dessì, 2002; ID., La parabola della petrolchimica. Ascesa e caduta di Nino Rovelli. Con sedici testimonianze a confronto, Roma. Carocci, 2003; ID., La Sardegna e il turismo. Sei testimoni raccontano l’industria delle vacanze, con prefazione di Vera ZAMAGNI, Sassari, Edes, 2014.

2 Sulle scale di osservazione dei fenomeni storici si veda REVEL, Jacques (a cura di), Giochi di scala. La microstoria alla prova dell’esperienza, Roma, Viella, 2005.

3 Su questo concetto di Mediterraneo si fa riferimento a MATVEJEVIĆ, Predrag, Breviario mediterraneo, Milano, Garzanti, 2004.

4 In proposito si vedano CASALENA, Maria Pia (a cura di), Luoghi d’Europa: spazio, genere, memoria, Bologna, Archetipo libri, 2011; SALICE, Giampaolo, Colonizzazione sabauda e diaspora greca. Viterbo, Sette Città, 2015; SALICE, Giampaolo (a cura di), La terra ai forestieri, Pisa, Pacini, 2019.

5 Per la quale si rimanda a ORTU, Gian Giacomo, Le campagne sarde tra XI e XX secolo, Cagliari, CUEC, 2017.

6 Si veda ORTU, Gian Giacomo, Villaggio e poteri signorili in Sardegna: profilo storico della comunità rurale medievale e moderna, Roma-Bari, Laterza, 1996.

7 Della stessa autrice cfr. DI FELICE, Maria Luisa, Le città di fondazione fascista, in Le città di fondazione in Sardegna, a cura di Aldo LINO, Cagliari, Cuec, 1998, pp. 98-119; ID., Terra e lavoro. Uomini e istituzioni nell’esperienza della riforma agraria in Sardegna (1950-1962), Roma, Carocci, 2005; ID., L’archivio della Società Bonifiche Sarde: storia di un’impresa e di un progetto, in «Le Carte e la Storia», VI, 1/2000, pp. 135-141; ID., «Istanze di riscatto, paradigmi produttivistici e controllo politico-sociale nella riforma agraria in Sardegna (1950-62)», in Studi e ricerche, VI, 2013, pp. 145-178.


Resenhista

Roberto Ibba – Laureato in Scienze Politiche, è Dottore di ricerca in Storia moderna e contemporanea, assegnista di ricerca nel Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni Culturali dell’Università di Cagliari. Collabora con le cattedre di Storia moderna e Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Sociali e delle Istituzioni dell’Università di Cagliari, e con diverse amministrazioni locali. È direttore del museo “I cavalieri delle colline” a Masullas, sull’aristocrazia rurale della Sardegna. Ha in attivo collaborazioni con diversi enti pubblici e privati sui temi della storia, dello sviluppo locale e della formazione. I suoi temi di ricerca prevalenti sono la storia del paesaggio agrario, la storia dell’agricoltura, lo studio delle élites locali, con uno sguardo che parte dalla Sardegna e si allarga sul contesto Mediterraneo.


Referências desta Resenha

RUJU, Sandro (Ed). Migrazioni, colonie agricole e città di fondazione in Sardegna. Milano: Franco Angeli, 2021. Resenha de: IBBA, Roberto. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.47, n.3, p.231-236, out. 2021. Acessar publicação original [DR]

PEZZICA Lorenzo (Aut), L’archivio liberato: guida teoricopratica ai fondi storici del Novecento (T), Editrice bibliográfica (E), MATTEI Sebastian (Res), Diacronie (Dar), Arquivo, Guia,

In un’epoca di trasformazioni profonde, tanto nell’ambito della produzione e della conservazione documentaria, quanto in quello dell’elaborazione di strumenti per la ricerca storica, gli operatori delle fonti sono costantemente esortati a ragionare sui nodi più problematici che attraversano l’archivistica contemporanea e sulle sue prospettive future. Nel contesto degli studi più recenti, la monografia di Lorenzo Pezzica1 rappresenta senz’altro uno dei contributi più originali, in grado di addurre molteplici spunti di riflessione al dibattito archivistico in corso. L’intento, implicito nel titolo, è quello di “liberare” l’archivio dai pregiudizi più comuni, a partire da quelli radicati tra gli stessi addetti ai lavori, spesso impaludati in quelle «interpretazioni rigide e metodologicamente bigotte» ravvisate da Federico Valacchi nel ricco saggio introduttivo del libro2.

Il volume si articola in sei capitoli, cui si aggiunge una breve postfazione. L’illustrazione delle problematiche di carattere teorico è spesso sorretta da esempi di casi concreti, provenienti dal ricco bagaglio di esperienze che l’autore ha svolto sul campo. Pur rivolgendosi a un pubblico ampio ed eterogeneo, il testo è senza dubbio più agevole per quei lettori che abbiano già sviluppato un minimo di esperienze e studi in ambito storico-documentario.

Vero e proprio leitmotiv del libro è l’indagine sui fondi storici del Novecento. Le ragioni di questa periodizzazione sono prevalentemente due: in primo luogo, gli archivi storici novecenteschi sono da sempre l’oggetto principale delle ricerche di Pezzica; inoltre, è proprio nel corso del ventesimo secolo che ha avuto luogo una metamorfosi profonda «dei ruoli e dei significati dell’archivio», tale da rendere necessario un approccio di tipo nuovo, «in grado – scrive Pezzica – di ripensare l’archivio a partire dalla tradizione della disciplina archivistica senza temere di allontanarsene e confrontandosi e contaminandosi con altri saperi e realtà in grado di arricchire l’arcipelago degli archivi»3 . Anche Valacchi, nella sua introduzione, ricorda i progressi maturati nel corso del ventesimo secolo in ambito normativo4, nonché le «indistruttibili acquisizioni ed evoluzioni metodologiche» apportate, tra i tanti, da Eugenio Casanova, Giorgio Cencetti e Claudio Pavone, nel segno di «una costante evoluzione della disciplina archivistica le cui ombre si allungano ineludibili dentro al nostro nuovo millennio»5.

Già dalle prime pagine si palesa l’interesse dell’autore per la componente comunicativa del lavoro negli archivi, espressa soprattutto attraverso l’elaborazione di strumenti più o meno analitici, in grado di restituire una rappresentazione e una narrazione coerenti di un determinato corpus documentario. Tali operazioni sono inevitabilmente connesse alle pratiche di descrizione che caratterizzano gli interventi di riordino e inventariazione dei fondi. In sintesi, per dirla con Valacchi, «la descrizione archivistica costituisce un’attività imprescindibile al fine del perseguimento degli obiettivi di valorizzazione e comunicazione delle fonti documentarie»6. Allo stesso modo, Pezzica riconosce nella comunicazione un momento sempre più decisivo del lavoro d’archivio, al punto da ritenere «che ogni aspetto della professione archivistica […] abbia a che fare con la comunicazione e sia finalizzato a essa»7.

Nell’adempimento della mission comunicativa, gli archivisti contemporanei hanno potuto beneficiare delle nuove opportunità offerte dal digitale e dalle ICT (Information and Communications Technology), il cui utilizzo, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, ha contribuito a modificare irreversibilmente metodi e tecniche di lavoro. I risultati più evidenti di questa trasformazione riguardano l’elaborazione di nuove tecnologie per la ricerca storica e archivistica, in linea con le istanze di accessibilità, condivisione e partecipazione dettate dalla rivoluzione telematica. La diffusione di sistemi informativi, cataloghi digitali, portali e siti web ha permesso agli archivi di “uscire fuori” dalle mura dei propri istituti di conservazione e di rivolgersi a um bacino di fruitori più ampio, emancipandosi – almeno sulla carta – dalla figura dell’utenteprofessionista8.

Un secondo sviluppo, anch’esso originato dal risveglio delle istanze comunicative e divulgative in campo archivistico, è legato alla public history. Sul rapporto tra archivi e “storia pubblica”, Pezzica si era già espresso inequivocabilmente nel giugno 2019:

La Public History si nutre di archivi. […] La possibilità di rendere gli archivi stessi “partecipati” e “partecipativi”, ha dimostrato che la Public History è uno strumento e una metodologia importante anche per la conoscenza e valorizzazione del nostro patrimonio documentario. Utile e importante anche per gli archivisti, figure centrali nei progetti di Public History (necessariamente pensati in modo interdisciplinare), anche perché nei fatti è stata praticata dagli stessi archivisti ancor prima del suo successo e diffusione nel nostro Paese9.

L’autore ricorda il ruolo svolto dagli archivisti nell’ambito dell’AIPH (Associazione Italiana di Public History) fin dalla sua fondazione nell’aprile 2017. L’associazione, a sua volta, ha posto l’archivio al centro dei propri programmi, facendo leva sui vantaggi derivanti dall’uso del digitale e delle fonti orali. «Uno degli aspetti centrali che unisce archivisti e public historians – sostiene Pezzica – è il rapporto che esiste con la Oral History e, di conseguenza, con gli archivi dell’oralità […] soprattutto oggi, in un momento in cui gli archivi orali stanno assumendo sempre più spesso fattezze digitali»10.

Tra le elaborazioni più originali dell’autore, vi è senz’altro quella di anarchivio, inteso non tanto come rappresentazione opposta e contraria all’archivio, ma come «computo delle possibilità, apertura a letture non necessariamente vettoriali e speculari». Nell’anarchivio ordine e disordine convivono, inducendo l’archivista all’«ammissione di mondi informativi altri rispetto a quelli disegnati da una schematicità descrittiva che, per far fronte a esigenze tassonomiche, ha indugiato poco su risvolti cognitivi rilevanti»11. All’origine della riflessione di Pezzica vi è la contrapposizione tra arché (il “principio”, ma anche il “governo” delle cose) e anarché, espressione che Valacchi ha tradotto in termini archivistici come «scontro tra il bisogno di documentare e il rifiuto politico della parola scritta e santificata dalle procedure, che trova espressione nelle tortuose vicende documentarie del movimento anarchico»12. Ciò non significa – spiega, a sua volta, l’autore – che l’anarchivio «sia privo di ordine e votato al caos […], bensì che sia caratterizzato da un’idea diversa di ordine e, quindi, di rappresentazione»13.

Alle carte del movimento anarchico e libertario, Pezzica dedica pagine importanti, ricordando come tali nuclei documentari abbiano a lungo risentito delle condizioni di illegalità e delle persecuzioni subite dai rispettivi soggetti produttori, spesso costretti a distruggere volontariamente i propri documenti per evitare che fossero sequestrati dalle autorità. La loro eliminazione è stata dunque caratterizzata da una forte componente simbolica, specifica di un movimento politico «che vedeva nell’archivio – scrive Pezzica – la manifestazione del potere, dell’ingiustizia, del sopruso»14. Una riflessione che richiama, per molti versi, quella elaborata da Linda Giuva circa l’apparente contraddizione implicita al ruolo degli archivi, «strumenti del diritto» e, al tempo stesso, «luoghi del potere»15.

La maggiore consapevolezza dell’importanza delle proprie carte ai fini della ricerca storica esortò i militanti del rinnovato movimento libertario a promuovere, a partire dagli anni Settanta, un’adeguata attività di tutela delle proprie memorie documentarie. Istituiti i primi centri di conservazione, fu avviato il recupero dei fondi archivistici16. L’autore riporta il caso dell’archivio di Pio Turroni (1906-1982), antifascista, volontario in Spagna nella Sezione italiana della Colonna Ascaso tra 1936 e 1937, animatore del Movimento anarchico italiano già a partire dal 1943, di cui Pezzica compila un breve profilo biografico17. Conservato a Milano, presso il Centro studi libertari – Archivio Giuseppe Pinelli, il fondo Turroni presenta caratteristiche comuni a molti altri archivi di militanti anarchici: le sue carte personali, ad esempio, sono frammiste alla documentazione prodotta da periodici, case editrici e gruppi politici che egli ha coordinato nel corso degli anni. La configurazione poliedrica del fondo, poco incline alla struttura gerarchica con cui gli archivi sono comunemente rappresentati (il celebre modello ad albero rovesciato), ha indotto all’utilizzo di un più consono modello a grafo: «il salto da albero a grafo – conclude l’autore – […] non è quindi un semplice adeguamento stilistico ma corrisponde alla necessità di trovare risposta al disagio descrittivo che promana dalla constatazione di impotenza delle gerarchie fin qui adoperate», per una descrizione archivistica che tenda al plurale, all’orizzontalità18.

L’autore attinge dal vivace dibattito sulla necessità di transitare da una rappresentazione gerarchica dei fondi archivistici, che ha trovato la sua massima elaborazione nello standard ISAD(G) (General International Standard Archival Description), a un modello concettuale complesso, in grado di identificare ed esplicitare non solo «le singole entità descrittive ma anche le sue proprietà e relazioni cosicché si possa disegnare una vera e propria mappa dell’archivio»19, in linea con le istanze recepite dal più recente standard RIC-CM (Records in Context – Conceptual Model). Si tratta di un passaggio fondamentale, ancora lontano dal potersi ritenere compiuto, a «strutture di rappresentazione che – secondo un’interpretazione molto nitida, riportata da Concetta Damiani nel 2018 – non siano più [soltanto] rigidamente gerarchiche ma che aprano a nuove possibili architetture e a connessioni reticolari, strutture aperte a recepire nessi e complementarità da un quadro di contesti stratificati e tutt’altro che immodificabili»20.

L’autore si muove sapientemente tra i diversi argomenti, governandone complessità e criticità. L’uso di una sintassi chiara e lineare rende il testo scorrevole anche nei passaggi concettualmente più articolati. Alcuni dei temi affrontati richiederebbero approfondimenti ulteriori e un grado di analiticità che spesso l’autore sembra eludere volontariamente. Tuttavia, il volume non è concepito come un’opera manualistica, né ambisce a un’esaustività totalizzante su tutti i fronti. Tra i tanti pregi del libro di Pezzica vi è, al contrario, la capacità di sintetizzare i molteplici topics, offrendo altrettanti spunti di riflessione.

Notas

1 Storico e archivista, attuale presidente della sezione lombarda dell’ANAI (Associazione Nazionale Archivistica Italiana), Lorenzo Pezzica insegna memoria e archivi digitali presso il Master in Public & Digital History dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Collaboratore abituale del Centro studi libertari – Archivio Giovanni Pinelli, si è occupato a lungo di storia e archivi del movimento anarchico italiano. Tra le sue pubblicazioni precedenti, si segnalano PEZZICA, Lorenzo, Le magnifiche ribelli, 1917-1921, Milano, Elèuthera, 2017; ID., Anarchiche: donne ribelli del Novecento, Milano, Shake, 2013.

2 VALACCHI, Federico, Novecento e non più Novecento, in PEZZICA, Lorenzo, L’archivio liberato: guida teoricopratica ai fondi storici del Novecento, Milano, Editrice bibliografica, 2020, pp. 7-22, p. 10.

3 PEZZICA, Lorenzo, L’archivio liberato, cit., p. 24.

4 Si ricordino, in particolare, la legge n. 2006 del 22 dicembre 1939 (Nuovo ordinamento degli archivi del Regno) e il dpr. n. 1409 del 30 settembre 1963 (Norme relative all’ordinamento e al personale degli archivi di Stato).

5VALACCHI, Federico, Novecento e non più Novecento, cit., p. 12.

6 ID., Diventare archivisti: competenze tecniche di un mestiere sul confine, Milano, Editrice bibliografica, 2015, p. 104.

7 PEZZICA, Lorenzo, L’archivio liberato, cit., p. 36. Un processo che ha assunto una certa rilevanza anche in campo storiografico, attestata dalla «sempre più diffusa sensazione che sia ormai impossibile concepire un qualche stadio del percorso di costruzione del sapere storico separato dalla sua comunicazione», VITALI, Stefano, Passato digitale: le fonti dello storico nell’era del computer, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. 70.

8 L’autore cita il progetto “Archivio digitale Carlo Maria Martini” quale caso esemplare di archivio partecipativo e, al contempo, di ricerca, URL: http://archivio.fondazionecarlomariamartini.it/fcmm-web/ [consultato il 26 settembre 2021].

9 PEZZICA, Lorenzo, «Gli archivi e la Public History oggi in Italia», in Il Mondo degli Archivi, 28 giugno 2019, URL: http://www.ilmondodegliarchivi.org/rubriche/in-italia/754-gli-archivi-e-la-public-history-oggi-in-italia [consultato il 26 settembre 2021].

10 ID., L’archivio liberato, cit., p. 89. Sull’uso delle fonti orali in ambito storiografico, si rimanda a BONOMO, Bruno, Voci della memoria: l’uso delle fonti orali nella ricerca storica, Roma, Carocci, 2013. Per una riflessione più ampia sul rapporto tra archivistica e public history, si veda ZANNI ROSIELLO, Isabella, «Archivi, valorizzazione, public history», in Le Carte e la Storia, XXV, 1/2019, pp. 5-14.

11 PEZZICA, Lorenzo, L’archivio liberato, cit., p. 41.

12VALACCHI, Federico, Novecento e non più Novecento, cit., p. 14.

13 PEZZICA, Lorenzo, L’archivio liberato, cit., p. 125.

14 Ibidem, p. 119.

15 Giuva ha evidenziato come, con il trascorrere del tempo, i documenti possano «trasformare il loro valore d’uso e affiancare o sostituire quello originario con nuovi, inediti e imprevedibili significati. Accade così che documenti nati come segreti diventano pubblici, archivi formati come strumenti amministrativi acquistano una valenza culturale. Da complici delle sopraffazioni si trasformano in difensori dei diritti, da strumento di controllo sociale a mezzo di partecipazione democratica», GIUVA, Linda, Archivi e diritti dei cittadini, in GIUVA, Linda, ZANNI ROSIELLO, Isabella, VITALI, Stefano, Il potere degli archivi: usi del passato e difesa dei diritti nella società contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 135-201, pp. 137-138.

16 Alle lacune nella documentazione scritta, si è tentato di sopperire con un’attenzione più specifica per le fonti orali. Sul tema, si veda ACCIAI, Enrico, BALSAMINI, Luigi, DE MARIA, Carlo (a cura di), Parlare d’anarchia: le fonti orali per lo studio della militanza libertaria in Italia nel secondo Novecento, Milano, Biblion, 2018.

17 Per un profilo più esaustivo, si veda BERTOLO, Amedeo, «Pio Turroni: muratore dell’anarchia», in Libertaria, V, 3/2003, pp. 72-79.

18PEZZICA, Lorenzo, L’archivio liberato, cit., p. 127.

19 DI MARCANTONIO, Giorgia, Prefazione, in DI MARCANTONIO, Giorgia, VALACCHI, Federico (a cura di), Descrivere gli archivi al tempo di RIC-CM, Macerata, EUM, 2018, pp. 7-10, p. 9.

20 DAMIANI, Concetta, Per una nuova concezione di descrizione archivistica: qualche riflessione, in DI MARCANTONIO, Giorgia, VALACCHI, Federico (a cura di), Descrivere gli archivi al tempo di RIC-CM, cit., pp. 117- 125, p. 119.


Resenhista

Sebastian Mattei – Specializzando presso la Scuola di specializzazione in beni archivistici e librari dell’Università Sapienza di Roma, si è laureato in Archivistica e biblioteconomia nel medesimo ateneo. Archivista libero professionista, è collaboratore della Fondazione Gramsci. Con Cristina Saggioro, ha curato gli inventari pubblicati in Via del Corso, 476. Carte della Direzione nazionale del Partito socialista italiano (Fondazione Craxi, 2020).


Referências desta Resenha

PEZZICA, Lorenzo. L’archivio liberato: guida teoricopratica ai fondi storici del Novecento. Milano: Editrice bibliografica, 2020. Resenha de: MATTEI, Sebastian. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.47, n.3, p.237-243, out. 2021. Acessar publicação original [DR]

SANTORO Stefano (Ed), ZAVATTI Francesco (Ed), Clio nei socialismi reali. Il mestiere di storico nei regimi comunisti dell’Europa orientale (T), Edizioni Unicopli (E), LA MANTIA Cesare (Res), Diacronie (Dar), Socialismo, Comunismo, Europa

Il lavoro curato da Stefano Santoro e Francesco Zavatti affronta l’arduo compito di ricostruire e analizzare l’uso strumentale della storia e il conseguente rapporto degli storici con i regimi comunisti dell’Europa orientale. La materia è molto complessa poiché riguarda sia l’autonomia di giudizio e il coraggio degli intellettuali di difendere le proprie idee in regimi autoritari, sia gli effetti sui lavori prodotti dagli aspetti più concreti/quotidiani della loro vita e la condivisione da parte di molti di loro dell’ideologia dominante e dell’impostazione data alla ricerca storica.

L’opera si sviluppa lungo un arco di tempo compreso tra l’instaurazione, il consolidamento, la crisi e il crollo dei regimi comunisti e si inserisce nel ristretto campo di studi delle storiografie sul periodo e in quello più ampio della generale valutazione dell’impegno dello storico e della sua incidenza sulla realtà nella quale è inserito. L’ultimo aspetto rende potenzialmente fruibile il volume anche a un pubblico di non specialisti a conoscenza delle vicende successive al secondo conflitto mondiale e poco vicini alle problematiche storiografiche. Tre interventi di Alberto Basciani, Fabio Bettanin e Mark Sandle completano il volume nella sezione Bussole.

Il rapporto tra storici, istituzioni di ricerca e potere, fra autonomia professionale e servizio politico, costituisce, a detta dei curatori, uno dei grandi temi affrontati in questo volume1 e contribuisce a dare concretezza all’aspetto solo apparentemente generico e in realtà fondamentale della gestione della libertà intellettuale dello storico. Lo scenario è quello dell’Europa della costituzione dei due blocchi, della Guerra fredda, di un conflitto temuto, minacciato, ma non esploso grazie all’equilibrio del terrore; periodo in cui i nuovi stati avevano necessità di rafforzare le proprie fondamenta, di acquisire legittimità interna e, nel caso della Repubblica democratica tedesca, anche internazionale. La gestione della memoria, la ricostruzione e interpretazione del passato per giustificare il presente diventa elemento importante di una nuova realtà in cui la condivisione di valori e di idee avrebbero dovuto decretare la vittoria del modello politico sovietico su quello statunitense.

Il libro è strutturato in tre sezioni e ognuna di esse affronta un aspetto particolare del rapporto di Clio, musa della Storia erede dalla madre Mnemòsine del potere di ricordare, con i regimi al governo. La fase del controllo di questi ultimi sugli storici è sviluppata nella prima sezione: assieme al possibile compromesso con cui questi, pur seguendo le direttive governative, riuscirono, quasi miracolosamente, a ritagliarsi degli spazi di autonomia è trattato il loro atto più intriso di coraggio, la manifestazione della propria resistenza al governo accettandone il prezzo da pagare.

Zavatti analizza con mano sicura e ricchezza di dettagli per il periodo compreso tra stalinismo e destalinizzazione i mutamenti nelle istituzioni culturali, le ambiguità e l’adeguamento di molti tra gli storici alle nuove regole e alla narrazione di una memoria nazional-comunista2.

Per legittimare il proprio ruolo dominante nell’Europa orientale post-bellica, l’Urss ebbe bisogno anche di una politica culturale che indirizzasse la ricostruzione delle varie storie nazionali in senso a essa favorevole, utilizzando una rinnovata ideologia panslava che facesse da collante e da premessa a quella sovietica. Per la realizzazione di tale obiettivo, come evidenzia Szumski, i dipartimenti culturali del Comitato centrale del PCUS impartirono ascoltate direttive alle istituzioni culturali delle democrazie popolari3.

La vicenda di Jürgen Kuczynski storico dell’economia, marxista militante nella Germania orientale, è descritta da Paul Maurice per dimostrare quanto rischioso fosse tentare delle interpretazioni autonome più aperte alla storiografia occidentale, al punto da subire l’allontanamento da quella ufficiale della Rdt pur rimanendo all’interno dell’impostazione ideologica marxista4.

Il nazionalismo di stampo neo-sovietico di Aljaksandr Lukašènka, al potere in Bielorussia dal 20 luglio 1994, ha portato a un’ulteriore riformulazione della storiografia bielorussa con l’aggiunta alla fase sovietica e alla successiva fase nazionalista dopo il periodo della perestrojka, della neosovietica sorta alla fine del XX secolo e ancora perdurante. Anna Zadora studia in maniera approfondita questo ulteriore aspetto dell’uso, o forse abuso, della storia e fornisce un ulteriore elemento di riflessione: le omissioni dei fatti contribuiscono alla creazione di una nuova narrazione storica più delle false o parziali ricostruzioni eseguite ad usum delphini. Il caso trattato riguarda la completa soppressione dai testi scolastici bielorussi del collaborazionismo con i tedeschi o la sua limitazione a un fenomeno composto da sporadiche frange di traditori controrivoluzionari5.

La seconda sezione consta di tre saggi ed è forse quella più complessa per la ricchezza delle fonti analizzate e le tematiche affrontate e dedicate ad un confronto tra storiografie. Patryk Pleskot spiega le somiglianze metodologiche esistenti tra alcuni storici polacchi e l’ambiente delle «Annales» francesi nel periodo 1956-89 6.

Nel periodo interbellico si sviluppò l’interesse per la storia sociale ispirata a Braudel, in opposizione alla storia événementielle. Le affinità metodologiche tra Bloch, Febvre, Bujak, Rutkowski non testimoniano soltanto la ricerca di un più completo metodo di analisi, ma anche la particolarità del regime polacco in parte più tollerante rispetto a quello degli altri paesi comunisti. Nello studio dedicato all’attività di Karl Drechsler sulla Guerra fredda, Ghislain Potriquet approfondisce la difficile situazione in cui si trovavano gli americanisti tedescoorientali poiché oggetto della loro professione era il nemico d’elezione del mondo comunista; storici in grado però come nel caso di Drechsler, secondo Potriquet, di prendere una posizione deliberatamente ambigua di ossequio alle direttive governative e di originalità delle proprie ricerche. Scelta compiuta con grande coraggio dato il rigido controllo esercitato dalla Stasi sugli intellettuali7.

Sait Ocakh dedica il suo contributo ad una comparazione degli studi sui tatari del Canato di Crimea nelle opere del sovietico Aleksey Novoselsky e del polacco Bohdan Baranowski8.

I lavori della terza parte del volume approfondiscono il tema dell’uso pubblico della storia, della sua utilizzazione per costruire miti atti a creare consenso e senso di appartenenza. Al rapporto tra Clio e i miti nazionali in Europa orientale durante il “socialismo reale” è dedicato il documentato saggio di Stefano Santoro il cui incipit chiarisce immediatamente i termini della ricerca: «l’uso pubblico della storia nei paesi del “socialismo reale” fu frequentemente caratterizzato da riferimenti al patrimonio mito-simbolico nazionale preesistente alla creazione di quei regimi […] allo scopo di garantirsi un più largo consenso tra le masse» 9. I nuovi regimi si presentano come parte conclusiva di un percorso evolutivo iniziato nei secoli precedenti e del quale la Rivoluzione di Ottobre era stata la logica conseguenza. Valutazione interessante e probabilmente applicabile a tutti i sistemi politici a tendenza autoritaria che abbiano necessità di rafforzare le basi del proprio potere. Santoro spiega come i partiti comunisti divennero difensori delle rispettive storie nazionali, ma di quelle ricostruite secondo il proprio interesse si potrebbe aggiungere, poiché quelle non reinterpretate alla bisogna avrebbero evidenziato dei contrasti di lungo periodo con gli altri stati comunisti divenuti alleati. L’elemento di unione tra le differenti storie nazionali fu costituito dalla classe operaia e ciò consentì alle nuove ricostruzioni ufficiali di non allontanarsi troppo dal pensiero di Marx per il quale, come l’Autore scrive, il soggetto del processo storico non erano le nazioni, bensì la classe operaia al progresso della quale concorreva la stessa idea nazionale di origine borghese, il cui successo avrebbe favorito la creazione delle precondizioni della rivoluzione socialista. La reinterpretazione del nazionalismo portò al contatto con alcuni suoi elementi costitutivi, come l’antiebraismo che trovò una fiorente stagione anche nel periodo della Guerra fredda. I miti tradizionali furono recuperati in Cecoslovacchia, in Polonia, in Romania, in Ungheria. Le lotte contro l’Impero ottomano e quelle contro la Germania nazista servirono a nascondere le differenze esistenti e a costruire una fittizia comunanza di sviluppo tra le democrazie popolari.

Il legame esistente tra l’uso pubblico della storia e il tempo in cui esso è esercitato viene sviluppato da Daniel Perez, dimostrando come la ricostruzione e la narrazione delle relazioni jugoslavo-albanesi fossero legate allo scenario internazionale in cui erano inserite, con riferimento al periodo antecedente e a quello successivo la crisi del Cominform10.

L’ampio spettro di esame dell’uso pubblico della storia è completato dall’interessante saggio di Perrine Val dedicato all’uso del cinema per costruire e raccontare delle storie finalizzate al rafforzamento dell’immagine internazionale del paese produttore. In questo caso la filmografia è quella della Rdt dedicata alla Resistenza contro il nazi-fascismo nel periodo 1949-69. Il saggio è interessante poiché affronta i tentativi di uno stato appena nato di ottenere visibilità e credibilità interna e internazionale. Citando Martin Sabrow, la studiosa francese pone l’ipotesi della ricerca di una “legittimità secondaria” cercata tramite una riscrittura della «storia tedesca per persuadere gli abitanti del successo socialista» 11. Il cinema fu coinvolto in questa impresa. La Deutsche Filmaktiengesellschaft (DeFa) divenne parte attiva del difficile tentativo di costruzione di una nuova identità tedesco-orientale. Val ci informa correttamente dell’influenza del neorealismo italiano sui film prodotti dalla DeFa nel periodo 1946-1949, quando si raccontava delle macerie materiali e interiori lasciate dalla guerra. Dal 1949 in poi cominciò la costruzione del mito del resistente tedesco impegnato a prezzo della vita contro i nazisti. Il saggio analizza i più significativi film prodotti nella Rdt il cui messaggio diretto agli spettatori è di assunzione di orgoglio, poiché sono loro gli eredi di quegli eroi, e soprattutto di accettazione di responsabilità poiché di quel sangue versato per liberarli dal nazismo avrebbero dovuto essere degni. Il passo successivo fu la realizzazione di film che dessero un volto europeo della Resistenza al fascismo con protagonisti anche francesi in secondo piano rispetto a quelli polacchi e soprattutto tedeschi tutti di comprovata fede comunista. La passione per il cinema dell’Autrice è molto evidente, ma non va a discapito della completezza delle informazioni, grazie alle quali il lettore apprende che la mitizzazione delle figure della Resistenza fu anche un fenomeno francese. Citando Sylvie Lindeperg12, Val informa che i film francesi del secondo dopo guerra contribuirono a creare il mito di una Francia compatta e tutta schierata contro i nazisti.

Il volume è ben fatto. La scelta del tema indubbiamente coraggiosa, data la sua vastità che ha richiesto agli Autori dei saggi un complesso sforzo di sintesi che non ledesse la ricerca della completezza delle informazioni e della loro valutazione. La scrittura scorrevole, merito dei traduttori, e la concatenazione degli argomenti allargano la fruibilità di un tema molto importante, accrescendone il potenziale impatto. I saggi posseggono un importante corredo di citazioni bibliografiche completate da una bibliografia molto ricca.

L’individuo più o meno solitario che si occupa di storia in compagnia delle proprie paure e dei propri ideali è l’indiscusso protagonista della prima parte del volume, per poi essere soppiantato dalle istituzioni culturali e dalle scelte dei Comitati centrali dei partiti comunisti dell’Europa orientale, soprattutto da quello del PCUS che tutto pretendeva di dirigere, ma che alla fine qualche margine di autonomia dovette lasciare, consentendo la sopravvivenza di memorie e miti nazionali che avrebbero contribuito alla fine dell’esperienza comunista.

Circa l’individuo di cui sopra, si dovrebbe forse dire che la decisione di accettare le richieste dei vari regimi fu spesso presa poiché in quelle direttive si identificava e per le altre richieste – quelle imposte – il controllo e i mezzi di ritorsione di governi totalitari e violenti furono tali da incrinare il coraggio più forte. Resta il fatto che la rivendicazione della propria autonomia-libertà di giudizio dovrebbe caratterizzare chiunque pensi di essere uno storico.

Notas

1 SANTORO, Stefano, ZAVATTI, Francesco, Introduzione, in SANTORO, Stefano, ZAVATTI, Francesco (a cura di), Clio nei socialismi reali, Milano, Edizioni Unicopli, 2020, p. 8.

2 ZAVATTI, Francesco, Il mestiere di storico nell’Europa dell’Est tra stalinismo e destalinizzazioni, in SANTORO, Stefano, ZAVATTI, Francesco, op. cit., pp. 21-35.

3 SZUMSKI, Jan, Le politiche storiografiche dell’Unione Sovietica verso i paesi slavi del blocco orientale. Strutture formali e istituzionali, 1945-1989, in SANTORO, Stefano, ZAVATTI, Francesco, op. cit., pp. 37-57.

4 MAURICE, Paul, La scrittura della storia nella Repubblica democratica tedesca attraverso il prisma della destalinizzazione sovietica. Controversie storiografiche e politiche intorno alle opere dello storico Jürgen Kuczynski, in SANTORO, Stefano, ZAVATTI, Francesco, op. cit., pp. 59-72.

5 ZADORA, Anna, Gli storici sotto il peso della pressione politica, tra sottomissione e resistenza. Alcune riflessioni sul contesto bielorusso, in SANTORO, Stefano, ZAVATTI, Francesco, op. cit., pp. 73-95.

6 PLESKOT, Patryk, Nonostante la Cortina di ferro. Un tentativo di spiegazione riguardo al fenomeno delle somiglianze metodologiche fra alcuni storici polacchi e l’ambiente delle «Annales» francesi, in SANTORO, Stefano, ZAVATTI, Francesco, op. cit., pp. 99-119.

7 POTRIQUET, Ghislain, Karl Drechsler, uno storico tedesco(-orientale) della Guerra fredda, in SANTORO, Stefano, ZAVATTI, Francesco, op. cit., pp. 121-134.

8 OCAKH, Sait, L’immagine dei tatari di Crimea nelle opere di Aleksey Novoselsky e Bohdan Baranowski. Uno studio comparativo sull’interpretazione della storia da parte dei sovietici e dei comunisti polacchi, in SANTORO, Stefano, ZAVATTI, Francesco, op. cit., pp. 135-149.

9 SANTORO, Stefano, Clio e i miti nazionali in Europa orientale durante il “socialismo reale”, in SANTORO, Stefano, ZAVATTI, Francesco, op. cit., pp. 153-175.

10 PEREZ, Daniel, Rappresentazioni di unità e di frattura nei Balcani. La narrazione delle relazioni fra Albania e Jugoslavia da parte del socialismo albanese prima e dopo la crisi del Cominform, in SANTORO, Stefano, ZAVATTI, Francesco, op. cit., pp. 177-198.

11 VAL, Perrine, La Resistenza vista dal cinema della Rdt (1949-1969), in SANTORO, Stefano, ZAVATTI, Francesco, op. cit., p. 200.

12 Ibidem, p. 211. Cfr. LINDEPERG, Sylvie, Les écrans de l’ombre. La Seconde Guerre mondiale dans le cinéma français, 1944-1969, Paris, Éditions Points, 2014 [ed. originale: Paris, Éditions du CNRS, 1997]


Resenhista

Cesare La Mantia – PhD. Associato di Storia dell’Europa orientale presso il Corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche del DiSPeS-UniTs. I suoi ultimi lavori sono: Manfredi Gravina Alto Commissario della SdN nella Città Libera di Danzica (1929-1932), in ILARI, Virgilio (a cura di), Italy On The Rimland. Storia Militare Di Una Penisola Eurasiatica, t. I, Intermarium, Roma, Società italiana di Storia militare, 2019, pp. 343-360; Transizione e corruzione nell’Europa post comunista: Il caso polacco» in Legalità e democrazia, in RANDAZZO, Francesco (a cura di), Tricase, Libellula, 2019, pp. 91-126; «La stagione di Moda Polska nella Polonia socialista: aspetti interni e internazionali», in Mondo contemporaneo, 2-3/2020, pp.343-360.


Referências desta Resenha

SANTORO, Stefano; ZAVATTI, Francesco (Eds). Clio nei socialismi reali. Il mestiere di storico nei regimi comunisti dell’Europa orientale. Milano: Edizioni Unicopli, 2020. Resenha de: LA MANTIA, Cesare. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.47, n.3, p.244-250, out. 2021. Acessar publicação original [DR]

CHELES Luciano (Ed), GIACONE Alessandro (Ed), The Political Portrait: Leadership/Image and Power (T), Routledge (E), SALVADOR Alessandro (Res), Diacronie (Dar), Imagem, Liderança, Poder

Il ritratto, esordiscono i curatori, ha sempre giocato un ruolo importante nella comunicazione politica, conferendo al leader una sorta di ubiquità. In questo senso, è certamente sorprendente che i contributi storiografici su questa sorta di immagini siano piuttosto limitati e, spesso, inseriti nel contesto più ampio della propaganda visuale, o come ausilio alla propaganda tout-court. Se è vero, infatti, che molti ritratti di leader sono ben impressi nelle nostre coscienze collettive, e in certi casi addirittura divenuti delle icone pop (tra gli esempi più recenti, i poster di Obama realizzati da Shepard Fairey), le loro analisi in prospettiva storica sono, tuttora, limitate1.

Il volume, curato da Luciano Cheles, già professore di italianistica all’Università di Poitiers, e Alessandro Giacone, professore associato di Scienze Politiche all’Università di Bologna, vuole contribuire a colmare questa lacuna, raccogliendo un numero, consistente, di contributi focalizzati su questa specifica forma di propaganda visuale. Contributi che, pur con un certo sbilanciamento verso alcuni contesti, forniscono un’ampia panoramica, sia dal punto di vista della distribuzione cronologica e geografica, sia dell’interdisciplinarietà degli approcci. Uno dei punti di maggiore interesse del volume è la netta prevalenza di casi di studio riguardanti democrazie, soprattutto nelle loro fasi di transizione e trasformazione. Il ritratto del leader, questa una delle idee che sembra accompagnare l’intero volume, riflette non solo l’immagine del politico, ma anche il contesto del paese in oggetto.

L’Europa è l’area più rappresentata nel volume e, tra i diciassette capitoli, l’Italia è il fulcro di ben quattro, che coprono diverse fasi dello sviluppo del ritratto politico nella penisola, dagli esordi, all’inizio del XX secolo, fino ai giorni nostri. Questa rassegna copre in modo piuttosto efficace lo sviluppo del “culto della personalità”, che ha avuto il suo apice con Mussolini, la fase di rigetto, del periodo repubblicano e la risorgenza, o l’eccesso, del centralismo del leader che si è osservata nella recente era berlusconiana e nei suoi postumi. Interessante che, tra le varie prospettive, vi sia anche quella della satira su una figura altrimenti austera e apparentemente inviolabile, come quella del presidente della Repubblica. Quattro contributi molto interessanti e che, pur creando uno sbilanciamento del libro verso il caso italiano, contribuiscono a coprire alcuni dei temi che ritornano negli altri saggi. Un esempio, quello del rifiuto della personalizzazione, soprattutto in fase di ricostruzione democratica di un paese, di cui il caso dei cancellieri tedeschi rappresenta un ulteriore esempio, immediatamente paragonabile a quello italiano.

La Francia, rappresentata con due capitoli, costituisce un altro caso che può costituire un’interessante pietra di paragone, con un’eredità a tratti gloriosa, ma poi scomoda, del generale De Gaulle, e una forte caratterizzazione dei leader più recenti, fino a Macron.

Interessanti i contributi che riguardano due dittatori “minori” nel contesto dei totalitarismi della prima metà del secolo. Il caso di Francisco Franco esprime uno dei temi dominanti dell’intero volume: l’uso del ritratto in assenza del leader. Il capitolo sul Cancelliere austriaco Dollfuss, i suoi ritratti, e le loro alterne (s)fortune, a cura di Lucile Dreidemy, è uno di quelli che merita particolare attenzione. L’Austria, tra le varie democrazie “fallite” del periodo interbellico, è probabilmente uno dei casi meno studiati. Questo saggio dimostra come sia, invece, uno dei casi più interessanti, sia per gli sviluppi degli anni Trenta, sia per le ripercussioni che ancora esistono nelle politiche della memoria di questo paese. L’immagine ambivalente del “fascista” vittima dei nazisti rappresenta in pieno questa contraddizione ancora da sviscerare.

A chiudere la rassegna dell’Europa occidentale, che rappresenta il maggior caso di studio dell’intero volume, una interessante storia dell’evoluzione della leadership, e della rispettiva rappresentazione, nel Regno Unito del dopoguerra. Anche qui, il ritratto del leader rispecchia il contesto del paese, i cambiamenti che intervengono non solo nella comunicazione politica, ma in generale nella società e nell’economia: il ritratto del leader, quindi, come specchio del paese, e delle sue contraddizioni.

A chiudere quello che, idealmente, è il ciclo dell’Occidente, una rassegna alquanto esaustiva dei modi in cui i presidenti americani sono stati rappresentati nel corso della storia del paese. L’interesse di questo contributo sembra essere soprattutto sulla diversità di strumenti, materiali e tecniche del ritratto, che riflettono esigenze, e personalità, diverse. Un paese in cui i leader sono stati parecchi e tutti, a loro modo, centrali nel loro periodo, ha, nel tempo, trovato diversi modi per esprimere gerarchie della memoria, stabilire miti fondatori e produrre narrative in cui il ritratto del leader sembra essere il principale (o uno dei principali) strumenti comunicativi.

Muovendo verso Est, non stupisce che i regimi comunisti, passati e presenti, siano oggetto di diversi contributi. Che società basate sulla collettività e l’uguaglianza abbiano sviluppato fortissimi culti della personalità può sembrare controintuitivo, ma ormai non sorprende. Il mito del “fondatore”, che incarna la rivoluzione, l’esordio della società socialista, è l’elemento comune dominante, iniziato col culto di Lenin, dopo la sua morte, è ben rappresentato dall’importanza dell’immagine di Mao, in buona parte della storia cinese, o dalla presenza del leader “eterno” Kim Il Sung in Corea del Nord. Ma il ritratto del leader nelle società socialiste attraversa anche periodi difficili, controversi, come dimostrato dall’eccesso di personalismo di dittatori come Stalin, o Ceauș escu, la cui rimozione dalla coscienza collettiva è traumatica e, nel caso del dittatore rumeno, anche accompagnata da una violenta rimozione “fisica”.

Con la fine dei regimi comunisti in Europa e la trasformazione di quello cinese, il culto estremo della personalità sembra essere stato, in buona parte, rimosso, lasciando posto tuttavia ancora al mito della fondazione “ideologica”, del padre della nazione. Rimane la Corea del Nord, come bastione, ancora, inespugnabile retto da un regime dinastico le cui dinamiche di rappresentazione visuale incrociano la propaganda politica propriamente detta, con un immaginario quasi mistico. L’immagine del leader non è solo per ricordare la sua presenza, passata o futura, ma è il leader stesso: danneggiarla equivale ad un attacco al leader.

In questa prospettiva non stupisce che, dove i leader vengono contestati, le immagini vengano costruite ad hoc per essere distrutte. Si tratta del caso rappresentato dall’ultimo capitolo del volume, relativo alle proteste anti-americane in Iraq, Afghanistan e, in un periodo antecedente, Iran. Qui, in un processo che l’autore identifica come diverso dalla classica iconoclastia, le effigi che rappresentano il leader avverso vengono create con il proposito di essere distrutte, bruciate, o oltraggiate. Un modo per personalizzare il nemico e la rabbia incanalata verso di esso. Si tratta di uno dei due capitoli dedicati al vicino Oriente, il cui secondo inquadra, invece, l’esordio del ritratto politico nei primi anni della Repubblica turca. I ritratti del primo leader, e fondatore, Atatürk, e del successore İnönü, rappresentano non solo i tratti fondanti della repubblica turca, ma anche i diversi stadi della costruzione e consolidamento dello stato.

In definitiva, questo libro ha parecchi meriti. Il primo è sicuramente quello di aver fornito una panoramica ampia, pur coi limiti evidenziati sopra, sul ruolo del ritratto nelle società moderne. I capitoli sono generalmente brevi e, come prevedibile, lasciano le parole alle immagini. Un apparato iconografico che, da solo, farebbe propendere per la copia cartacea (nonostante questa recensione sia fatta sull’Ebook). Alcuni saggi possono sembrare poco analitici e, in larga parte, delle rassegne di immagini che si susseguono nel tempo. Tuttavia, qui risiede un altro punto di forza del volume, ossia la capacità di fornire stimoli e idee per ulteriori ricerche.

Infine, l’approccio interdisciplinare non solo rafforza il valore del volume in sé, ma ha il vantaggio di spingere nella direzione corretta chi volesse continuare su questo approccio alla comunicazione politica e allo studio della leadership. Lo stretto legame che esiste tra rappresentazione del leader e immagine della nazione, della sua struttura sociale e dei cambiamenti che vi avvengono, è chiaramente espressa in ognuno dei contributi. Sicuramente si tratta di un volume che dovrebbe invitarci a guardare con occhi diversi fonti che, spesso, lasciamo in disparte.

Il volume potrebbe essere accusato, e con qualche buona ragione, di eurocentrismo. Tuttavia, i contributi sull’Europa non sono né scontati né caratterizzati da un eccesso di “già sentito” come ci si potrebbe aspettare. In definitiva, questo volume propone in buona parte alcuni modi diversi di guardare agli studi sulla leadership e al suo rapporto con la società, particolarmente in un contesto europeo e occidentale. Gli excursus, più che benvenuti, nel vicino e lontano Oriente, rappresentano un interessante cambio di scenario che potrebbe suggerire interpretazioni alternative. Il limite di questo volume potrebbe, e me lo auguro, preludere a un futuro lavoro che espanda ulteriormente questi orizzonti.

Nota

1 Per avere un’ulteriore prospettiva sull’iconografia della politica, una raccolta di saggi interessante, è: EUCHNER, Walter, RIGOTTI, Francesca, SCHIERA, Pierangelo (a cura di), Il potere delle immagini. La metafora politica in prospettiva storica, Bologna – Berlino, Il Mulino – Duncker & Humbolt, 1993. Altro punto di riferimento, in lingua tedesca: FLECKNER, Uwe, Handbuch der politischen Ikonographie, München, Beck, 2011.


Resenhista

Alessandro Salvador – Si è laureato in Storia Contemporanea all’Università di Trieste nel 2006 e, nel 2010, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Studi Storici presso l’Università di Trento con una tesi dal titolo Il partito nazionalosocialista e la destra radicale tedesca nelle fasi finali della Repubblica di Weimar: 1925-1933. Tra le sue pubblicazioni vi sono il volume La guerra in tempo di pace. Gli ex combattenti e la politica nella Repubblica di Weimar (Trento, Università degli Studi di Trento, 2013) e alcuni saggi sul combattentismo e sulla smobilitazione dei soldati ex austro-ungarici in Italia dopo la Grande Guerra. Attualmente è assegnista di ricerca presso l’Università di Trento e collabora con i progetti www.lagrandeguerrapiu100.it, CENDARI (Collaborative European Digital ArchivalInfrastructure) e “World War II – Everyday Life Under GermanOccupation” dell’HerderInstitut di Marburg.


Referências desta Resenha

CHELES, Luciano; GIACONE, Alessandro (Eds.). The Political Portrait: Leadership, Image and Power. New York: Routledge, 2020. Resenha de: SALVADOR, Alessandro. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.47, n.3, p.251-256, out. 2021. Acessar publicação original [DR]

 

 

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