Media-storie. Lezioni indimenticate di Peppino Ortoleva | Luca Barra e Giuliana Galvagno

Poche figure sono state in grado di fare della storia dei media un’ideale piattaforma per far dialogare le discipline: tra queste Peppino Ortoleva è stato certamente un maestro indiscusso1. Alla base di quest’esigenza di comunicazione fra campi di studio differenti vi è certamente, prendendo a prestito le sue stesse parole, «[…] la capacità non solo di accumulare dati e informazioni ma di creare connessioni, e possibilmente creare connessioni impreviste»2.

Lo stesso Ortoleva approdò allo studio della storia – e della storia della comunicazione in particolare – dopo essersi laureato in giurisprudenza all’inizio degli anni Settanta. Ottenuto un incarico come professore a contratto in Comunicazione e teoria dei media nelle università di Torino e di Siena all’inizio degli anni Novanta, ottenne la cattedra a Torino (2001) in qualità di professore associato per divenire, quattro anni più tardi, ordinario nello stesso ateneo piemontese. Molti hanno così potuto ascoltarlo, interagire e lavorare con lui, apprezzandone le doti di studioso e di ricercatore. Leia Mais

La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto – FECI; SCHETTINI (BC)

FECI, Simona; SCHETTINI, Laura Schettini. La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto. (Secoli XV-XXI). Roma: Viella, 2017. 287p.  Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Il Bollettino di Clio, n.9, p.73-74, feb., 2018.

Le guerre di fine Novecento si sono distinte non solo per il 95% di vittime civili non combattenti ma per l’uso del corpo delle donne come arma. In particolare le guerre etniche nella ex Jugoslavia e in Ruanda hanno messo in evidenza come gli stupri di guerra fossero programmati e usati come un’arma vera e propria. Un’arma particolarmente efficace nelle società patriarcali fondate su una concezione proprietaria del corpo femminile. La guerra non solo rende legittimo infrangere i comandamenti divini del non rubare e non uccidere ma anche quello di non desiderare la “donna d’altri”; lo stupro della “donna del tuo nemico”, infatti, ha la duplice funzione di umiliare nell’immediato il nemico incapace di proteggere la “propria” donna e di garantirsi in aggiunta effetti dirompenti che vanno oltre la fine del conflitto.

Del resto, la retorica nazional-patriottica usa la metafora della nazione-donna da difendere e lo sfondamento dei confini un disonore; proprio questo fece assumere allo stupro un valore chiave nei conflitti tra nazionalismi, rendendolo nel corso del Novecento una tra le più efficaci e ricercate pratiche di guerra.

Ma andiamo per ordine. Il volume curato da S. Feci e L. Schettini affronta il tema della violenza maschile sulle donne nell’Europa degli ultimi cinquecento anni. Le fonti principali sono di tipo giuridico: testi normativi e atti processuali.

Analizzati e interpretati alla luce del contesto storico e sociale nel quale venivano utilizzati e applicati.

Ad esempio, in età moderna (e medievale) le prerogative del capofamiglia di esercitare un diritto di correzione (ius corrigendi) nei confronti della moglie, dei figli, dei domestici era considerato ovvio, riconosciuto ovunque in Europa e nei domini coloniali, qualsiasi fosse la confessione religiosa, la situazione patrimoniale della famiglia, il contesto politico e sociale. Era considerato, altresì, ovvio l’uso della forza per correggere e imporre comportamenti adeguati all’obbedienza e al rispetto che si deve al capofamiglia.

Tuttavia, l’uso della “forza” non doveva eccedere, sconfinando nella “violenza”. In questo caso, la moglie poteva ricorrere a istituzioni e magistrature per denunciare gli abusi. Diventava in quel caso decisiva la testimonianza dei vicini, la percezione che il contesto sociale aveva delle violenze. Va detto che la tendenza naturale di magistrati sia ecclesiastici che laici era quella di salvaguardare l’unità della famiglia limitandosi, nei casi più favorevoli alle donne, ad un ammonimento al maschio violento.

La cosa interessante è che l’esame attento delle carte processuali, pur narrando storie di violenze prolungate nel tempo e di progressiva gravità, consentono di individuare un limite, una “soglia”, pur flessibile, tra l’uso della forza per correggere comportamenti ritenuti inaccettabili e l’abuso violento e ingiustificato.

Oggi la violenza contro le donne, in particolare i tanti femminicidi degli ultimi anni, da qualcuno è stata vista come un ultimo colpo di coda del patriarcato declinante.

Non è detto. La partita è lunga. L’indagine storica può aiutare a capire di più e meglio. Si pensi, per esempio, al rifiuto inflessibile e religiosamente fanatico del “matrimonio affettivo” in molte società, ritenendo un sacro obbligo divino per il pater familias scegliere lo sposo per la “propria” figlia. La storia ci fa capire tanto. Prima di tutto ci rende chiari i tratti costitutivi del patriarcato ancora presente nelle nostre società contemporanee; in secondo luogo, fa piazza pulita di ogni generalizzazione e semplificazione circa i contesti nei quali è presente la violenza maschile contro le donne. Essa non conosce confini geografici né epoche storiche; non ha barriere culturali né di classe né tantomeno religiose.

“D’altronde, scrivono nell’introduzione le curatrici nell’Introduzione, tra uomini e istituzioni era e resta a lungo in atto una partita circa i margini di immunità e impunità spettanti al pater familias, condotta e giocata con variazioni ed esiti difformi nel tempo e nei diversi contesti, ma assai viva.”

Vicenzo Guanci

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Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta – FILIPPINI (BC)

FILIPPINI, Nadia Maria. Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta. Roma: Viella, 2017. 349p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.9, p.75-78, feb., 2018.

Nadia Maria Filippini, già docente di Storia delle donne presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e socia fondatrice della Società Italiana delle Storiche, propone un’articolata analisi diacronica di lunga durata sul tema della maternità nella cultura occidentale, all’insegna della continuità nella trasformazione.

Ne sottolinea la complessità, evidenziandone le molteplici sfaccettature culturali, sociali, scientifiche che stanno alla base di rituali, pratiche terapeutiche, norme civili e religiose, forme di controllo e potere.

La storia del parto è un capitolo fondamentale della storia delle donne, sostiene l’autrice nell’introduzione, ed è strettamente legato alla codificazione del genere dato che, per secoli, l’essere donna ha coinciso con l’essere madre e l’essere madre è stato criterio di misura del valore femminile. “Su questa capacità si concentravano dunque aspettative individuali, familiari, sociali, ma anche forme di tutela, controllo, disciplinamento che avevano il loro epicentro nella famiglia (con le sue interne gerarchie), nell’istituzione ecclesiastica e in quella politica.”  Luoghi, figure, rituali e pratiche terapeutiche riguardanti la gravidanza e il parto vengono proposti come osservatorio privilegiato per analizzare sia la storia delle donne che quella sociale e culturale con le sue trasformazioni: dalla progressiva costruzione del discorso medico-scientifico nel mondo antico, alle innovazioni del cristianesimo, all’affermarsi della figura del chirurgo-ostetricante nel Settecento, alla medicalizzazione del parto, fino alla rivoluzione delle tecnologie riproduttive del Novecento.

L’idea presente già nel titolo è quella di mettere a fuoco i vari soggetti coinvolti: alla capacità della donna di partorire è stata opposta per secoli quella maschile di generare, mentre il verbo nascere mette in evidenza il punto di vista del feto/neonato la cui importanza varia in base al modificarsi delle rappresentazioni che lo connotano nel tempo, condizionando di conseguenza pratiche e principi deontologici.

Grande centralità è data alla scena del parto che permette di analizzare i luoghi (la casa e poi l’ospedale), le pratiche adottate, i soggetti coinvolti (la madre, la levatrice, il medico) i cui ruoli cambiano nel tempo in un continuo confronto professionale e di genere fatto di collaborazione, ma anche di contrapposizione.

Il libro è suddiviso in quattro parti. La prima parte (Rappresentazioni culturali) mi sembra particolarmente interessante e spendibile sul piano didattico, nel caso si voglia attivare una riflessione su come sia cambiata nel corso del tempo l’idea di generazione e nascita.

Vi si analizzano le grandi rappresentazioni fondanti la differenza di genere nella cultura occidentale e che si ritrovano nei miti, nel linguaggio con le sue metafore e proverbi, nella filosofia, nelle raffigurazioni artistiche, nella religione pagana e cristiana.

Ci si rende subito conto della dicotomia maschile/femminile; di come esista una continuità di lunghissima durata dell’idea dell’uomo come seminatore, come principio attivo della generazione, e della donna come un campo da seminare, passivo, posseduto da un contadino-padrone che lo rende fertile.

Questa impostazione è alla base di una tradizione di pensiero che attraversa la cultura greca con Ippocrate e Aristotele, quella araba, il pensiero di Tommaso d’Aquino ripreso poi da Dante Alighieri, fino al Settecento.

La superiorità del maschile sul femminile è sottesa anche all’idea del “partorire con la mente” (Platone), appannaggio esclusivo dell’universo maschile. Socrate parla di maieutica e si paragona in quest’arte alla madre ostetrica, con la differenza che, mentre lei fa nascere i bambini, lui aiuta i suoi allievi a partorire i prodotti della mente (arte, letteratura, filosofia) che garantiscono fama immortale.

Il parto di Atena dalla testa di Zeus esemplifica come il mito e la religione abbiano attribuito ad un Dio maschile perfino la capacità di generare e di partorire. Le dee madri di antica tradizione vengono dimenticate e la coppia Zeus-Atena sostituisce quella preindoeuropea di Demetra-Core, provocando una forte rottura di identità e di alleanze nella storia delle donne.

La Medea di Euripide propone una stretta analogia fra parto e guerra, due prove dolorose da superare, ad alto rischio di morte, che si giocano in aree separate: gli uomini vanno in guerra, le donne partoriscono con l’aiuto di altre donne (levatrici, vicine di casa, familiari). Però, mentre la guerra dei maschi ha carattere fondativo di una civiltà, viene raccontata ed esaltata nella figura dell’eroe, la guerra delle donne (il parto) resta confinata nel chiuso delle pareti domestiche ed è esclusa dal racconto pubblico.

A differenza di quanto accadeva nel mondo antico, il cristianesimo pone al centro il momento della nascita, valorizzando il rapporto madre-figlio, ma, nel corso del tempo, priva sempre più la Vergine (anche nelle rappresentazioni artistiche) delle tracce di maternità corporea. La Madonna è una madre spirituale più che fisica, esente non solo dal peccato originale, ma dagli stessi dolori del parto (dogma dell’Immacolata Concezione del 1854).

La corporeità del parto, sinonimo di impurità, viene invece attribuita ad un’altra figura femminile: Eva, responsabile dell’introduzione della morte nel mondo e incaricata di espiare con le doglie il peccato originale.

L’idea cristiana del dolore come espiazione del peccato distoglierà per molto tempo la ricerca medico-scientifica dall’indagine sulle cause del dolore e sui farmaci per contrastarlo.

L’influenza del pensiero cristiano ha determinato nelle donne un vissuto molto contraddittorio in bilico tra orgoglio e vergogna, tra fierezza e silenzio: da un lato la maternità viene esaltata come realizzazione di un dovere e di un comandamento divino (il modello è la Madonna), dall’altra viene mortificata sul versante corporeo (oggetto di scandalo, segregazione in casa ed esonero dalla messa). Il parto è diventato un tabù, cancellato perfino dal linguaggio: si racconta che i bambini nascono sotto ai cavoli o li porta la cicogna.

Nella seconda parte (Partorire e venire al mondo dall’antichità al Settecento), utilizzabile sul piano didattico per ragionare sul potere declinato al femminile (subìto, agito, condiviso, invidiato), si descrive la gravidanza come esperienza peculiare della donna, il cui corpo è sottoposto a forme di controllo sociale con divieti e obblighi rituali, oggetti scaramantici. Interessante la questione introdotta dal cristianesimo relativa al momento in cui Dio infonde l’anima nel feto: il quarantesimo giorno se è maschio, l’ottantesimo se è femmina. Dopo la Controriforma la data si sposta al terzo giorno dal concepimento.

Varie pagine sono dedicate al parto, al puerperio, alla nascita, alle credenze ed ai rituali connessi prima nel mondo antico, poi nel mondo cristiano, quando la Chiesa impone il suo controllo sulla sfera della sessualità e della riproduzione.

Si evidenziano permanenze di lunga durata e rielaborazioni simili in tutta Europa (Francia, Germania e paesi anglosassoni con vari esempi di storia veneziana). A questo discorso si intreccia poi la descrizione della nascita del pensiero medico antico e della sua lunga continuità nell’occidente medievale e moderno.

Attenzione particolare è data alla figura della levatrice, presenza fondamentale sulla scena del parto sia nel mondo antico che nell’Occidente cristiano, ma anche figura di riferimento in caso di problemi legati al ciclo mestruale, all’allattamento, in casi di sterilità o stupro o per indurre un aborto attraverso pozioni particolari, incantesimi e amuleti. Per questa sua partecipazione sia alla sfera della vita che a quella della morte, questa donna appariva ambigua allo sguardo degli uomini, esclusi da quel mondo di conoscenze e pratiche. Alla levatrice si collega anche il concetto di nascita sociale che sancisce, attraverso un rituale, l’ingresso del nuovo nato nella famiglia e nella società. Essa infatti assiste alla nascita naturale, ma consegna poi il neonato al padre e lo affianca, assieme alla madrina, nel rito del battesimo, da cui la madre è esclusa. Talvolta è lei stessa a fare da madrina, diventando la madre spirituale del bimbo, ed è comunque autorizzata ad amministrare il battesimo “sotto condizione” in caso di pericolo di vita del neonato al momento della nascita.

La terza parte (Lo snodo del Settecento) si confronta col XVIII secolo, un periodo di profonda trasformazione nella storia della nascita per i cambiamenti che investono sia la scienza che il contesto socio-politico.

Si impongono nuove teorie sulla fecondazione e sullo sviluppo fetale e si afferma la figura del chirurgo-ostetricante che modifica la secolare tradizione di presenza esclusivamente femminile sulla scena del parto.

Emerge da parte degli Stati un interesse specifico per il controllo della popolazione e nasce il biopotere il cui fine è quello di potenziare e gestire la vita, il corpo stesso delle persone, controllando salute, natalità mortalità.

In linea con questa nuova concezione si colloca il processo di personificazione dell’embrione-feto e l’affermarsi dell’idea del feto-cittadino, che giustifica l’intervento pubblico nel settore della nascita. Vengono istituite le scuole ostetriche, nascono gli ospedali per partorienti.

L’ultima parte (Le molteplici rivoluzioni del Novecento) affronta l’età contemporanea quando il biopotere si afferma sempre di più fino ad arrivare alle politiche eugenetiche e demografiche dei regimi totalitari, in particolare del nazismo, e quando il parto diventa sempre più soggetto alla medicalizzazione e all’ospedalizzazione.

Si affermano nuove tecniche come l’ecografia, definita un “nuovo rito conoscitivo”, la psicoprofilassi e l’analgesia.

Dal punto di vista legale si arriva progressivamente, in un numero crescente di paesi, alla legalizzazione della contraccezione e dell’interruzione volontaria di gravidanza, al varo di leggi a tutela della maternità.

Si fa sempre più strada, sulla spinta delle rivendicazioni femministe, l’idea dell’autodeterminazione della donna e della maternità come libera scelta e viene messo in discussione l’automatismo del legame sessualità-procreazione. Anche la figura del padre acquista un ruolo più partecipe, sia durante la gravidanza che al momento della nascita.

La fecondazione artificiale infine apre nuovi orizzonti coniugando il termine di maternità con quello di diritto, mentre si diffondono nella società nuovi modelli genitoriali e familiari (famiglie arcobaleno).

La crioconservazione di ovuli e spermatozoi sembra assicurare una specie di immortalità biologica all’individuo, non più legata alla filiazione reale, ma già realizzata nell’idea di filiazione possibile.

Alle soglie del terzo millennio, l’autrice sottolinea la presenza di aspetti contraddittori: le gerarchie di genere alla nascita sono state scardinate nei paesi occidentali, ma l’applicazione della tecnologia ha portato all’alterazione del rapporto naturale tra i sessi in molte parti del mondo; l’applicazione di alcune leggi a favore della donna non è sempre praticata, la fecondazione assistita rimane un privilegio per gli alti costi; la maternità è certamente una scelta, non più un obbligo o un destino, ma la crisi economica e la precarietà dei contratti di lavoro compromettono a volte una effettiva libera scelta.

In estrema sintesi si può dire che queste stimolanti pagine evidenziano la continuità nel tempo di quattro nodi fondamentali: l’idea di impurità legata alla sessualità femminile; il carattere ambivalente sul piano sociale e culturale dell’esperienza del parto (sacro, ma anche indicibile); la connotazione culturale di parto e nascita, definiti dall’ambiente in cui avvengono, dai rapporti fra i generi, dalle conoscenze mediche e anatomiche; il corpo femminile al centro di continui scontri di potere.

Il libro, che si conclude con un’ampia bibliografia ragionata in cui si valorizzano gli studi femminili, fornisce agli insegnanti una grande ricchezza di elementi per un approccio didattico ampio e articolato anche sul piano interdisciplinare. Potrebbe essere interessante un percorso sul tema dei diritti umani (acquisiti in alcune parti del mondo, non ancora in altre dove sopravvivono situazioni simili a quelle descritte nel testo e riferite al passato dei paesi occidentali), con collegamento agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU.

Livia Tiazzoldi

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