Public history: discussioni e pratiche – FARNETTI et al (BC)

FARNETTI, Paolo Bertella; BERTUCELLI, Lorenzo; BOTTI, Alfonso Botti (A cura di). Public history: discussioni e pratiche. Milano – Udine: Mimesis, 2017. 338p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.10, p.105-109, gen., 2019.

La Public History?  “Un nuovo contenitore trendy che in sostanza indica una storia spiegata a gente che non la sa da parte di altra gente che non la sa nemmeno lei, un po’ l’imparicchia e un po’ l’inventa”, secondo la definizione dello storico F. Cardini, a proposito della Saga dei Medici prodotto da Rai Fiction-Luz Vide.

Il libro di cui si parla in questa recensione può aiutare a capirci qualcosa di più. Diviso in due parti, il volume raccoglie nella prima il dibattito sulle definizioni della PH, ne ripercorre la storia negli Stati Uniti (sul finire degli anni Settanta del secolo scorso) e in Italia (di PH si è cominciato a parlare dal 2000; l’Associazione italiana di Public History (AIPH) nasce nel 2016), esplorando alcuni dei nodi metodologici più significativi, in particolare i rapporti tra PH, storia accademica, uso pubblico della storia, memoria.

La seconda parte offre un panorama delle esperienze e dei campi di applicazione della PH: dalla storia d’impresa alla storia orale, dalla storia digitale ai diversi linguaggi e strumenti per raccontare il passato: musica, cinema, documentari, musei, archivi.

Cos’è dunque la PH? Quali le caratteristiche salienti, le contaminazioni e le differenze con altri ambiti, la storia accademica in primo luogo, e le diverse forme di divulgazione del passato? Cosa rende pubblica la storia e quali le pratiche più diffuse?  Le risposte vanno cercate nel percorso di ricerca che a livello internazionale si sta svolgendo attorno a questi temi. Da tempo, il sapere storico (occidentale) sembra caratterizzato da un paradosso: la sempre maggiore specializzazione e conseguente marginalizzazione della sua funzione e del suo “valore” (nella società, nel dibattito pubblico, nella scuola) a vantaggio degli scienziati sociali specialisti del presente (sociologi, economisti, politologi, antropologi). Una crisi alimentata, tra l’altro, dalla messa in discussione della narrazione euro-centrica coloniale e post coloniale del passato, sempre meno capace di dare conto dei processi di trasformazione del mondo e della vicenda umana nel suo complesso. E d’altra parte, la crescita esponenziale dell’interesse e della presenza del passato, della divulgazione storica, della memoria nei media e nella comunicazione pubblica (dalla carta stampata ai talk show, alle serie televisive, dal cinema alla graphic novel, al web, dai viaggi nei luoghi della memoria alle rievocazioni, alle feste e ai festival di storia).

La PH si può sbrigativamente definire come la storia applicata alla società in cui viviamo (ritornerò su questo punto più avanti) e può essere letta come un tentativo di ritrovare/dare un senso alla storia e alla sua funzione.

Il sintagma mette in relazione due campi semantici: storia come sapere disciplinato da regole, protocolli di ricerca, statuto epistemologico e pubblica (o in pubblico), per identificare un ambito di applicazione nel quale il pubblico non sia solo destinatario ma compartecipe alla costruzione del racconto del passato.

Nel saggio che apre il volume, Paolo Bertella Farnetti riassume lo status quaestionis del dibattito sulla PH. Dagli esordi californiani (nella primavera del 1975) ad oggi la PH si è affermata come un nuovo campo di studi, è diventata una nuova disciplina (oggi nelle università americane ci sono circa duecento programmi di PH; il primo master in Public History in Italia è nato nell’Università di Modena e Reggio Emilia nel 2015), ci sono riviste, associazioni nazionali e internazionali, convegni e seminari di studi. E per uscire dalla torre d’avorio dell’accademia e delle università, i public historian hanno avuto bisogno di altre competenze, oltre a quelle proprie dell’officina disciplinare apprese nel curricolo tradizionale degli studi.

Sulla necessità di praticare una storia rigorosa, scientificamente affidabile, capace di fare riferimento ai risultati più alti della ricerca c’è accordo nella riflessione sulla PH. Più aperto il significato di pubblico: non un pubblico, ma tanti tipi di pubblici, che da semplici fruitori del discorso sul passato devono diventare (co)protagonisti nella sua elaborazione, e per coinvolgerli sono sempre più necessari nuovi linguaggi, strumenti, luoghi.

“C’è una storia che si presenta in pubblico (…), una storia creata per e con i vari tipi di pubblico, e infine ci sono progetti storici creati insieme al pubblico“ (p. 46). La PH dunque non solo per facilitare la fruizione del racconto storico, ma per condividerne anche il processo di elaborazione, l’uso delle fonti per la costruzione della narrazione, le ipotesi interpretative, l’intreccio tra dati “oggettivi” e soggettività. Con alcuni rischi: la banalizzazione, la riduzione della complessità, la disneyfication del discorso storico. Decisivo quindi il legame con la ricerca accademica, sia per la formazione degli storici in pubblico che per la formalizzazione di questa nuova disciplina.

Thomas Cauvin nel suo contributo sullo sviluppo della PH nel Nord America e in Europa ricorda come la storia divenne una disciplina scientifica nel secolo XIX in Europa, con una progressiva professionalizzazione degli storici e specializzazione del pubblico. Anche se ben prima dell’affermazione della PH erano presenti, accanto agli accademici, molti altri storici che lavorarono per un pubblico più generale.

La PH ebbe origine e crebbe durante gli anni Settanta (il termine PH fu coniato dalla University of California at Santa Barbara e usato per la prima volta dallo storico Rober Kelley), in un contesto internazionale di rinnovamento dei campi di studio della storia: maggiore attenzione alla storia sociale, alla vita quotidiana, alla storia dal basso capace di usare nuovi media e di rivolgersi ad un pubblico più vasto. Nata negli Stati Uniti, la PH si diffuse rapidamente in altri paesi (Canada, Australia, Nuova Zelanda) per approdare poi anche in Europa.

Solo utilizzando le procedure e pratiche condivise dalla comunità scientifica degli storici, secondo Lorenzo Bertucelli, possiamo trasformare il passato in storia e dunque “storicizzare la nostra comprensione del presente ed essere più consapevoli della nostra storicità” (p. 83). La PH condivide l’approccio metodologico e conoscitivo con le discipline storiche ma “ambisce a coinvolgere il pubblico come attore attivo del processo interpretativo”, con l’obiettivo di renderlo consapevole di tale costruzione.

Pensare con la storia, ragionare storicamente, condividere responsabilmente questo processo con il pubblico è perciò il nucleo fondante della PH” sostiene L. Bertucelli che puntualizza come le tappe del percorso interpretativo (fonte, conoscenza, prova e rielaborazione della conoscenza) siano le stesse per la storia che per la PH. Nel percorso per condividere con il pubblico la cassetta degli attrezzi necessari alla costruzione della storia, il public historian non si pone in posizione gerarchica e sovraordinata, ma pone “la sua conoscenza del passato storico in relazione con le memorie e gli sguardi sul passato proposti dal pubblico” (p. 87) in un mix tra autorità condivisa e assunzione di responsabilità.

L’autore passa poi a considerare il rapporto tra PH e uso pubblico della storia. Escludendo gli usi esplicitamente strumentali della storia (“uso politico” o “abuso pubblico della storia”), si tratta di due ambiti non separabili da distinzioni nette, che richiedono un’ulteriore riflessione per essere meglio definiti nelle reciproche caratteristiche.

Ponte tra disciplina storica e società, la PH deve da una parte condividere con la comunità scientifica i fondamenti metodologici e le acquisizioni della storiografia più avvertita, dall’altra intercettare la domanda sociale di storia, con l’ambizione di fare del pubblico un attore, coprotagonista con il public historian per migliorare la conoscenza del passato.

La PH può essere letta come la risposta alla crisi del sapere accademico, al disagio epocale e congiunturale degli storici, al complessivo declino delle scienze umane, alla domanda diffusa di conoscenza del passato e di storia, in una fase in cui il discorso pubblico è sempre più ricco di Storia e di Storie. Alfonso Botti e di Maurizio Ridolfi ragionano in particolare sui rapporti tra PH e uso pubblico della storia. Con questa espressione lo storico Nicola Gallerano si riferiva “(…) a tutto ciò che si svolge fuori dai luoghi deputati della ricerca scientifica in senso stretto, della storia degli storici, che è invece scritta di norma per gli addetti ai lavori e un segmento molto ristretto di pubblico” (p. 109): una concettualizzazione che va collocata nel contesto culturale (metà degli anni Novanta) di una storia militante che caratterizzava la ricerca di quella fase.

Per la PH si tratta dunque di comprenderne meglio lo statuto epistemologico: come storia applicata essa allude a qualcosa di più e di altro rispetto all’uso pubblico della storia o al suo abuso politico.

M. Ridolfi sintetizza nel motto “Fare e narrare storia, per e con il pubblico” il significato della PH e ripercorre le tappe della via italiana alla PH e del suo sviluppo accelerato: dall’uso delle nuove tecnologie del Web 2.0 e all’intensificarsi di occasioni e interventi di storia applicata, alla istituzionalizzazione in alcune università di percorsi, laboratori, master specialistici per la formazione di possibili figure di Public historian.

La PH inoltre rinvia a un altro tema: il ruolo pubblico dello storico nell’era della  rivoluzione digitale, drasticamente ridefinito dalla disintermediazione della conoscenza storica e dalla crisi dell’autorevolezza scientifica. A partire da ciò, nel suo contributo Marcello Ravveduto sostiene la necessità di “costruire ponti tra la terra ferma dell’accademia e l’arcipelago della PH” (p. 136) in un rapporto complementare e prossimo tra i due ambiti, grazie al quale storici accademici e public historian possano assumere “un ruolo guida nei circuiti di produzione e di comunicazione del “fare storia” (p. 138).

Quali le vie di contatto tra terra ferma e isole dell’arcipelago?  M. Ravveduto ne indica tre: la ricerca epistemologica, la didattica, la comunicazione. Per quest’ultima, in particolare, l’autore auspica l’impegno di una nuova generazione di storici, i “coloni digitali” che hanno conosciuto la vita prima del Web e che sono stati protagonisti del boom della cybertecnology, capaci quindi di un dialogo costruttivo con i nativi digitali.

Al rapporto tra storia, memoria/e e PH è dedicato il contributo di Angelo Ventrone che chiude la prima parte del volume. Ricordando le riflessioni del filosofo francese P. Ricoeur per il quale di fronte al passato abbiamo tre diverse opzioni: dimenticare, essere ossessionati (eccesso di memoria), perdonare (comprendere per andare avanti) – propone di iscrivere la funzione della PH all’interno di questa ultima prospettiva: “aiutare a mettere a confronto le ragioni dell’uno e dell’altro, ovvero le memorie discordanti, imponendo loro di aprirsi alle ragioni avverse e sollecitandole a cambiare proprio in conseguenza di questa apertura” (p. 149). Una funzione che qualifica la PH come strumento per passare dalla memoria-ripetizione alla memoria–ricostruzione. “Lo storico, per certi versi, può essere paragonato a colui che compie un gesto simile alla sepoltura: dà cioè pace alla memoria mentre ne rivitalizza il ricordo” (p. 151-52).

Ai campi di applicazione della PH è dedicata la seconda parte del libro, esplorati attraverso dodici contributi: Cecilia Dau Novelli: le storie di imprenditori, imprese e lavoro; Antonio Canovi: PH e storia orale e dunque la possibilità di coniugare la storia con le memorie; Enrica Salvatori: l’impatto della rivoluzione digitale sul modi di produrre, consumare, comunicare la storia; Claudio Siligrandi: la musica e in particolare le canzoni come fonti per la PH; Adolfo Mignemi: l’uso del documento visivo, con riferimento alle numerose criticità (differenza tra memoria e storia, abuso del ricorso all’analogia, la peculiarità dei linguaggi visivi, i criteri di edizione delle fonti visive) ancora presenti in questo ambito; Vittorio Irvese: il cinema documentario, riflettendo sui punti di convergenza e frizione con la PH, a partire dalla riflessione di W. Benjamin nei sue ”Tesi di filosofia della storia”; Marco Cipolloni: il rapporto tra storia naturale e storia umana nel cinema in riferimento al quale la PH può svolgere un ruolo importante di alfabetizzazione culturale e linguistica; Michelangela Di Giacomo: i musei di storia a cui si affidano nuovi compiti e funzioni come strumenti anche di educazione alla cittadinanza, con rischi (la riaffermazione dell’identità nazionale e del nazionalismo, amplificazione della storia dal basso) da evitare; Aldo Di Russo: i musei narranti, (a partire da due esempi: il Castello di Lagopesole in Basilicata che racconta le lotte dell’Imperatore Federico II per la supremazia sulla chiesa; e la casa natale di Joe Petrosino a Padula (SA), simbolo della lotta alla mafia del grande poliziotto italo-americano) legati a luoghi che furono testimoni di fatti avvenimenti storici che intendono raccontare e presentare al visitatore; Paolo Simoni: gli archivi audiovisivi di famiglia (fotografici, audiovisivi e digitali), con particolare riferimento al progetto “Vite filmate”, una nuova piattaforma digitale che consente l’esplorazione di fondi filmici particolarmente rappresentativi per temi, periodo storico, provenienza geografica; Eric Teyssier: l’esperienza dei “Grandi Giochi Romani” che dal 2010 si replica nell’anfiteatro di Nimes in Francia, come ricostruzione storica, comunicazione di un antico passato e verifica di alcune ipotesi interpretative della nostra idea della gladiatura romana; Manfredi Scanagatta: le tappe del lavoro della PH, dalla ricerca creativa delle fonti (non solo quelle archivistiche) alla messa in scena dei contenuti di conoscenza per condividerne significati e senso con il pubblico, in particolare quello della scuola e delle studentesse e degli studenti che la abitano.

Una rassegna che non vuole essere completa ma rappresentativa di piste di ricerca, lavoro, impegno sulle quali si dovrà ancora misurare la PH. Affinché il public historian possa assolvere fino in fondo quel ruolo di “ “traghettatore” verso l’avvenire” auspicato con forza da Serge Noiret nella sua appassionata introduzione (p. 33).

Per ulteriori approfondimenti sul tema della public history:

Associazione Italiana di Public History (AIPH) (https://aiph.hypotheses.org).

International Federation for Public History IFPH / Fédération Internationale pour l’Histoire Publique FIHP (https://ifph.hypotheses.org).

Tommaso Detti.

Lo storico come figura sociale, relazione inaugurale a Giunta Centrale per gli Studi Storici, L’organizzazione della ricerca storica in Italia, convegno, Roma, 16-17 dicembre 2014, (http://www.gcss.it/wp-content/uploads/2015/09/Lo-storico-come-figura-sociale.pdf). (Ultima consultazione 6 nov. 2018).

Ernesto Perillo

Acessar publicação original

[IF]

Deixe um Comentário

Você precisa fazer login para publicar um comentário.