Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950 – GINSBORG (BC)

GINSBORG, Paul. Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950. Torino: Einaudi, 2013. 678p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.13, p.120-123, lug., 2020.

La famiglia esiste? La ricerca storica (e non solo) aiuta a dare una risposta: si incarica di dirci se la famiglia sia sempre esistita, come si sia formata, come si sia trasformata nel tempo e nelle diverse società.

Nei libri di storia generale, e non parlo solo dei manuali scolastici, la famiglia non c’è. Un po’ come, se è lecito il paragone, le donne e il genere (con cui peraltro la famiglia condivide ampi legami). Solo qualche rapida descrizio ne in alcuni momenti e periodi, senza che sia possibile per studentesse e studenti comprendere la dimensione storica della famiglia, le connessioni e le interdipend enze con i contesti sociali, economici, culturali, le trasformazioni nel tempo, le cesure essenziali, le lunghe durate di ruoli, relazioni, funzioni. La famiglia è un presupposto, si dà per scontata.

Ma nulla è più importante, lo sappiamo, che mettere in discussione i presupposti implic iti che reggono le nostre idee e i nostri pensieri. Le nostre visioni del mondo e della sua storia. Il libro di Paul Ginsborg aiuta a colmare questo vuoto.

Il progetto originario era quello di analizzare il tema della famiglia lungo tutto il Novecento, con uno spartiacque collocato dopo la fine del secondo conflitto mondia le, quando la sconfitta delle dittature e dei fascismi inaugurò anche per la famiglia una nuova epoca. La quantità di materia le accumulato e la ricchezza dei temi hanno orientato l’autore a prendere un’altra decisione: la pubblicazione di un volume relativo alla prima metà del secolo scorso. Un secondo libro avrebbe poi raccontato il seguito della storia fino agli ultimi anni del Novecento.

Un progetto ambizioso, dunque, importante e innovativo: tematizzare la famiglia non solo come oggetto dell’indagine storica ma come soggetto di questo racconto, scritto assumendo quel punto di vista.

La scelta nasce da lontano. Nel 1993, facendo un bilancio della storia della famiglia in età contemporanea (cfr. Famiglia, società civile e stato nella storia contemporanea: alcune considerazioni metodologiche, in “Meridiana”, 1997, n.17, pp. 179-208), Ginsborg denunciava già il sostanziale silenzio della storiografia sulla connessione tra famiglia e politica.

«C’è il rischio, dunque, che la storia della famiglia venga rinchiusa in un ghetto metodologico, in parte per sua stessa colpa, che rimanga uno «studio di area» invece di una parte essenziale di ogni ragionamento storiografico che tenti di legare le istituzio ni sociali, tra le quali la famiglia deve essere considerata la più importante, alle istituzio ni dello stato. La marginalizzazione della dimensione politica nella storia della famiglia comporta la marginalizzazione della famiglia dalla grande storia.» (p.180).

E nel suo libro L’Italia del tempo presente (Einaudi, 1998) il sottotitolo Famiglia, società civile, Stato evidenzia la volontà di assicurare alla famiglia un’attenzione specifica. In questo volume la connessione tra famiglia e storia politica è al centro, occupa tutta la scena.

La necessità è quella di non separare la storia della famiglia dalla storia politica, o la storia sociale da entrambe, ma di cercare come priorità metodologica la relazione tra di esse. E di raccontare, dunque, la storia del Novecento attraverso la lente della vita familiare per rileggere quel periodo.

Da qui, l’attenzione non solo alla politica per la famiglia (le diverse iniziative degli Stati in questo ambito), ma soprattutto alla politica della famiglia, tramite le molteplici e variegate interconnessioni tra individui, famiglia, società civile, Stato. Un rovesciamento di prospettiva che non solo mette in evidenza l’istituzio ne famiglia, ma modifica, arricchendolo, il significato di storia politica.

Il tempo, lo abbiamo detto, è quello della prima metà del Novecento. Sullo sfondo la grande guerra, le rivoluzioni, il primo dopoguerra e l’affermazione dei regimi dittatoriali. Anni di profonde trasformazio ni che l’autore attraversa esaminando in chiave comparativa la storia della famiglia in vari Stati-Nazione: la Russia, prima e dopo la rivoluzione sovietica; la Turchia, dall’Impe ro Ottomano alla Repubblica kemalista; l’Italia fascista; la Spagna prima e durante il regime franchista; la Germania, dalla Repubblica di Weimar al nazionalsocialismo; l’Unio ne sovietica staliniana. A ciascuno di questi stati è dedicato un capitolo (un centinaio di pagine circa) del libro.

Tre sono gli elementi metodologicame nte interessanti del volume di Ginsborg. Il primo è dato dalla pluralità dei temi messi in campo, delle angolature e delle tessere utilizzate per ricostruire il mosaico della famiglia: l’uso originale delle biografie di personaggi esemplari (Alexandra Kollontaj per la Russia rivoluzionaria, la scrittrice nazionalista Halide Edib per la Turchia del primo Novecento, Il futurista Filippo Marinetti per l’Italia fascista, la femminista Margarita Nelken per la Spagna e per la Germania Joseph Goebbels come modello archetipico della famiglia nazista); la ricostruzione della vita delle famiglie comuni, con particolare attenzione a quelle contadine e operaie; la focalizzazione sulle diseguaglianze di genere e le lotte delle femministe; il controllo spesso violento e repressivo della grandi dittature verso le famiglie e allo stesso tempo i sogni e le proposte rivoluzionarie e utopiche maturate in quegli anni; la legislazione e i codici che ne hanno definito ruoli, regole, diritti e doveri e le teorie politic he che ne hanno tentato letture e interpretazio ni complessive.

Con questa tavolozza l’autore disegna il suo racconto che procede ricostruendo ampi quadri descrittivi degli Stati esaminati, all’interno dei quali si possono cogliere la ricchezza e la complessità dell’universo familiare e il ruolo della famiglia come istituzione politica e civile, non riducibile alla sola dimensio ne privata.

La chiave comparativa è l’altra importante ossatura del libro: la prima metà del Novecento è un’epoca di grandi e radicali trasformazio ni che sconvolgono l’assetto geopolitico dell’Europa, le strutture economiche, le società e anche le mentalità collettive. Rivoluzioni e dittature sono messe a confronto con la vita familiare.

Si scoprono analogie: ad esempio il predominio della struttura patriarcale, tratto largamente dominante e trasversale ai differenti contesti; il sostegno, la difesa e la regolamentazione della famiglia riconosciuta dai diversi regimi assieme alla repressione di massa di determinate categorie di famiglie, su base etnica, razziale, nazionale, di classe, religiosa o politica, al là dei contenuti ideologici differenti che li caratterizzano; il ruolo della società civile che fu sostanzialmente soffocata dall’oppressione dei diversi regimi che eliminarono qualsiasi forma di pluralismo, dall’Impero ottomano, alla Russia rivoluzionaria, alla stessa esperienza degli anarchici spagnoli.

E anche significative differenze: per esempio comparando l’effettivo potere sulle famiglie è possibile allineare i diversi regimi lungo un continuum che va dal relativo lassismo di Mussolini in Italia al più alto controllo del nazisti che adottano una politica eugenetica contro i membri più deboli della loro stessa comunità nazionale. O relativamente ai rapporti di genere e al ripensamento stesso della vita familia re, particolarmente significativa è stata l’esperienza rivoluzionaria russa che si distingue per la lotta al patriarcato e i diversi tentativi di emancipazione femminile. Le proposte di Alexandra Kollontaj, unica donna a far parte del Consiglio dei commissari del popolo guidato da Lenin, di una grande società famiglia nella quale si superasse definitivamente il modello della famiglia, fallirono ma decisive e importanti furono le ricadute di quella riflessione sui codici di famiglia che ne derivarono così come fu essenziale l’aver affermato il ruolo centrale dei rapporti sessuali e sentimentali nella lotta per la liberazione.

Ma, mentre in Russia dopo la rivoluzione la famiglia borghese era da superare e abbattere, nella Turchia di Mustafa Kemal rappresentava una prospettiva rivoluzionaria: “applicare nel 1926 il Codice civile svizzero a una società prevalentemente rurale e musulmana fu un atto straordinario di rivoluzione dall’alto” (p. 614) Un ruolo particolare fu quello della Chiesa cattolica che di fronte alle dittature “non difese la vita familiare in sé, ma piuttosto la civiltà cattolica” (p.620). L’integralismo di Pio XI e Pio XII era più preoccupato di affermare il primato dell’ ecclesia che i valori del pluralismo, della libertà e della democrazia.

C’è inoltre un altro aspetto che qualifica questo libro di storia: i documenti iconogra fic i e la rappresentazione visuale della famiglia. Le complessive 135 illustrazioni ne sono parte integrante, fornendo ulteriori chiavi di lettura del tema assieme ai dipinti di alcuni grandi artisti della prima metà del Novecento – Archile Gorky, Pablo Picasso, Mario Sironi, Max Beckman, Kazimir Malevic e altri ancora – le cui opere sono presentate in 18 tavole fuori testo.

L’appendice statistica sugli aspetti demografici della storia della famiglia in chiave comparativa, curata dall’autore insieme a Giambattista Salinari, tematizza tre aspetti: la transizione demografica, le catastrofi demografiche e le politiche eugenetiche.

Nelle considerazioni finali, P. Ginsborg tirando le fila del suo lungo percorso di analisi mette in discussione la categoria di totalitarismo con cui tradizionalmente si legge la prima metà del secolo scorso: la storia delle famiglie mostra anche zone di antagonismo, certamente minoritarie e marginali, che però sono tracce di un ruolo che l’istituzio ne famiglia seppe agire pur di fronte a un potere dittatoriale e “totalitario”. Lo spazio privato della casa è stato anche il luogo di reti di solidarietà, di comportamenti e codici di opposizione e di resistenza. È la storia di Victor Klemperer, uno dei 198 ebrei rimasti a Dresda nel febbraio del 1945 (erano 1265 alla fine del 1941), il quale, grazie all’aiuto della moglie Eva Schlemmer, sopravvisse anche ai bombardamenti alleati della città: si strappa la stella gialla di David dal cappotto e con documenti falsi fugge verso la Baviera e la salvezza. O di Pepa López « madre cattolica e borghese che riuscì a salvare la sua famiglia dalle “orde rosse” a Malaga nel luglio 1936, travestendosi da venditrice di frutta e verdura (…)». (p. 612).

Non c’è solo una relazione diretta tra individui atomizzati e stato totalitario, in grado di controllare comportamenti, pensieri e azioni: se prendiamo in considerazione anche la famiglia e le storie delle famiglie il quadro si modifica e obbliga a valutazioni più articolate e complesse.

Il ruolo interpretato dalle famiglie nel nuovo contesto democratico che si affermerà dopo il 1945 sarà poi del tutto diverso. Ma questa, come si dice, è un’altra storia. Ancora da raccontare.

Ernesto Perillo Acessar publicação original

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L’età del disordine. Storia del mondo attuale 1968-2017 – DETTI; GOZZINI (BC)

DETTI, T.; GOZZINI, G. L’età del disordine. Storia del mondo attuale 1968-2017. Bari-Roma: Laterza, 2018. 210p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.190-192, giu./nov., 2019.

Cinque anni nel cuore del Novecento trasformano il XX secolo: dal 1968 al 1973 si manifestano o accelerano in modo significativo mutamenti strutturali che, spesso in modo graduale e in parte inavvertito, danno forma al mondo attuale. Questa è la tesi dei due autori: in quegli anni si sono poste le radici di uno stravolgimento economico, sociale e culturale che ha generato un grande disordine planetario, vissuto spesso con ansia e paura; una congiuntura che richiede l’elaborazione di coordinate orientative, al fine di affrontare le sfide globali che ci sovrastano: migrazioni, disuguaglianze, clima, finanza, povertà.

Lo shock petrolifero del ’73 pone per la prima volta in modo drammatico l’Occcidente di fronte al problema delle fonti di energia; il ciclo economico innescato determina un lungo periodo di stagnazione e di inflazione, accelerando processi ancora in atto. La globalizzazione acutizza fenomeni capaci di trasformare radicalmente gli equilibri mondiali. È l’”incubo dei nostri tempi”? Forse sì, se pensiamo alla finanza, quella “bolla di carta” sempre più svincolata e distante dalla ricchezza tangibile. Ma la globalizzazione, scrivono Detti e Gozzini, non è un complotto, è l’insieme dei movimenti internazionali di merci, persone, capitali e informazioni ed è tanto velleitario pensare di annullarla quanto necessario provare a controllarla. Certamente, tra le sue conseguenze ci sono l’approfondirsi del dislivello di ricchezza tra le parti del mondo industrializzato e le altre, così come disoccupazione e sotto-occupazione nei Paesi ricchi, migrazioni, sfruttamento incontrollato e distruzione dell’ambiente in quelli poveri. Tuttavia, i dati evidenziano che è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per un possibile processo di convergenza. Riforme agrarie, scolarizzazione di massa, qualificazione, innovazione tecnologica hanno una forte potenzialità nell’aumento del reddito e nell’uscita dalla povertà: in Asia le grandi carestie sono state sconfitte; dal 1980 in poi i poveri di tutto il mondo sono considerevolmente calati. Permangono, però, forti fragilità nell’Africa subsahariana ed equilibri instabili sul piano sociale ed economico sia all’interno di un Paese, sia fra Paesi diversi. Ne sono emergenze ben visibili le tragedie umanitarie del Terzo mondo, la povertà persistente fra gli anziani e nelle famiglie numerose dell’Occidente avanzato, ma anche quel mutamento antropologico, indotto dai media e dai consumi, che si manifesta nell’individualismo acquisitivo di massa e nel prevalere delle ragioni della libertà economica sulla giustizia.

Nel ’68 si accesero i riflettori internazionali sulla prima grande crisi umanitaria nella regione nigeriana del Biafra, a seguito di una guerra civile. Migrazioni, carestie e profughi si sono drammaticamente replicati con andamento altalenante: segno che la politica e la diplomazia possono fare molto per contenerli e per indirizzare verso la pace, ma anche che raramente questa volontà si manifesta in maniera concorde nelle nazioni più potenti.

Le migrazioni sono, infatti, attualmente uno dei maggiori fattori di ‘disordine’ mondiale. Certo, è difficile e fuorviante accordare le tendenze demografiche con i tempi brevi dei cambiamenti economici e politici. Tuttavia, le legislazioni restrittive adottate l’indomani della crisi petrolifera del 1973, finalizzate a fornire risposte a un’opinione pubblica spaventata dalla recessione, hanno inciso sulle caratteristiche e sulla visione pubblica del fenomeno: da arrivo favorito dal bisogno di forza lavoro cento anni fa, a viaggi di fortuna e ingressi illegali e osteggiati, spesso sostenuti dalla delinquenza organizzata. L’andamento ondulatorio dei flussi è un segno che le crisi si possono limitare, se sono coordinate sul piano internazionale e se si elabora la complessità economica e sociale del problema: “Abbiamo di fronte esseri umani non interessati a prendere le nostre terre, ma alla ricerca di un futuro migliore. Ci si può intendere, basta che ci sia una politica con l’intento di farlo”.

Il quinquennio 1968-1973 si apre con un ciclo di mobilitazioni studentesche che, per la prima volta nella storia, assume una dimensione globale; una massa critica di giovani con aspirazioni e speranze molto maggiori di quelle dei genitori si scontra con una realtà che non corrisponde alle loro aspettative: società tradizionalista, strutture universitarie inadeguate, docenti distaccati e retrogradi. I loro sogni spesso si frantumano, ma nello stesso tempo si affermano due processi nuovi correlati: il potenziamento dei media, ancorché inegualmente distribuiti, tendenzialmente al servizio del potere e generatori di conformismo, ma dotati di dirompente potenzialità: “Ci furono foto pubblicate sui giornali che contribuirono a cambiare la storia”; la svolta sui diritti sociali e civili delle donne: sale percentualmente in modo significativo l’occupazione femminile, aumenta l’impiego in settori qualificati, crescono le iscrizioni all’Università. Negli anni Settanta, gli stessi movimenti rivendicano la parità ma chiedono il riconoscimento della differenza tra uomini e donne e la valorizzazione delle specificità. Si avvia così l’elaborazione del concetto di gender, una categoria interpretativa che supera il determinismo biologico di quella di sesso e privilegia gli aspetti sociali e culturali, storicamente variabili nello spazio e nel tempo.

Altri processi toccano il sistema politico democratico. Si afferma, in quegli anni, una forte proliferazione del numero degli Stati, ma si ridimensiona la loro sovranità a seguito dell’avvento di una governance sovranazionale. La speranza che il nuovo sistema riesca ad assicurare definitivamente una diffusione della democrazia, però, si rivela presto un’illusione: la democrazia appare un processo evolutivo, conflittuale e reversibile. Ne sono testimonianza i golpe in Uruguay e Cile, lo stato d’emergenza in India, la primavera di Praga, la rivoluzione dei garofani in Portogallo. Ma lo spirito dei tempi sembra decisamente a suo favore: molti regimi autoritari si rivelano incapaci di legittimarsi come modelli alternativi e migliori. Altrettanto lacerata è l’area mediorientale, dove, a seguito dello shock petrolifero del ’73 che rilancia il ruolo di alcuni Paesi esportatori di petrolio (in particolare l’Arabia Saudita), ha inizio un’era islamista. Nel difficile contesto della decolonizzazione, emergono gravi contraddizioni e si radica il fondamentalismo; l’11 settembre 2001 aprirà lo scenario a una serie di prolungati conflitti nel mondo musulmano, incapace di garantire benessere e libertà, che dimostrano quanto sia difficile la transizione di queste società alla democrazia.

Globalizzazione, disordine, democrazia: la dialettica fra i tre termini lancia numerosi spunti di riflessione e costituisce una buona base di partenza per comprendere il nostro tempo. Certo – scrivono Detti e Gozzini – la globalizzazione contemporanea non è molto diversa da quella di cento anni fa, quando movimenti umani, di merci e informazioni si spostavano in misure altrettanto consistenti. Allora la politica la fermò con i nazionalismi e due guerre mondiali, al prezzo di settanta milioni di morti. Per non ripercorrere quella strada c’è bisogno di una nuova politica che non ceda.

Enrica Dondero Acessar publicação original

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Storia della globalizzazione. Dimensioni, processi, epoche – OSTERHAMMEL; PETERSSON (BC)

OSTERHAMMEL, Jürgen; PETERSSON,  Niels P. Storia della globalizzazione. Dimensioni, processi, epoche. Bologna: Il Mulino, 2005 (2003). Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.184-189, giu./nov., 2019.

Il saggio si snoda attraverso sette capitoli e una conclusione finale. Dopo aver precisato il concetto di globalizzazione nei due capitoli introduttivi, gli autori (insegnano storia contemporanea all’università di Costanza) ricostruiscono i processi che hanno portato all’attuale mondo globalizzato, a partire dall’età medievale e moderna, mostrando la progressiva interconnessione di rapporti economici, politici e culturali e al tempo stesso la profondità storica della globalizzazione.

Il presente è terreno elettivo delle scienze sociali che hanno assunto la globalizzazione (dagli anni Novanta circa del secolo scorso) come categoria interpretativa delle loro analisi, mettendone in luce le diverse caratteristiche. Che il mondo sia sempre più piccolo e interconnesso è d’altronde senso comune diffuso, esperienza quotidiana e concreta di un numero sempre maggiore di persone.

In questo scenario gli storici possono essere utili esercitando il loro mestiere: mettere in prospettiva temporale il tema (la globalizzazione), problematizzare ciò che appare come assoluta novità, verificare la tenuta euristica e interpretativa della concettualizzazione anche nel loro campo di indagine: la lettura del passato.

La storiografia che nasce come disciplina scientifica nell’Ottocento ha previlegiato la nazione come oggetto di ricostruzione e soggetto delle sue narrazioni: solo recentemente si sta affermando la necessità di una interrogazione trasversale rispetto alle storie nazionali, di una storia globale al cui interno la (storia della) globalizzazione rappresenta un campo specifico.

Il concetto di rete diventa allora essenziale: la globalizzazione è il processo di costruzione e intensificazione delle reti mondiali (ai diversi livelli, con diversa intensità e velocità di contatti e grado di integrazione). E processo significa dare conto di svolgimenti e cambiamenti che avvengono nel tempo, non in modo meccanico, regolare, scandito sulle canoniche tappe ed epoche della storia politica, ma con ritmi, accelerazioni, rallentamenti, riprese che sono proprie dei diversi ambiti coinvolti dalla globalizzazione: economico, tecnico, politico e dell’organizzazione dello Stato, sociale, culturale.

La periodizzazione è lo strumento concettuale che gli storici utilizzano per comprendere i fenomeni analizzati. Ogni periodizzazione è discutibile e provvisoria: Osterhammel e Petersson ne sono consapevoli. Ed è proprio la loro discutibilità il sale della storiografia e strumento di migliore comprensione della storia come ricerca.

Per i due storici tedeschi è possibile periodizzare il processo di globalizzazione,  dopo alcune forme di integrazione verificatesi già in età antica e medievale, nelle seguenti fasi:

  • 1450-1500: inizio della modernità e avvio della globalizzazione
  • 1750-1880: Imperialismo, industrializzazione e libero commercio
  • 1880-1945: Capitalismo mondiale e crisi mondiali
  • 1945-1975: La globalizzazione dimezzata

Dagli ultimi decenni del Novecento: La globalizzazione attuale  La preistoria della globalizzazione  Riguarda il mondo antico e premoderno. In esso l’integrazione macrospaziale si verificò in forme diverse (l’ aggregazione di unità politiche minori in grandi imperi sulla base essenzialmente della forza militare (l’impero romano, cinese, indiano, ottomano…), l’ecumene religiosa (cristianesimo, islam, buddismo…), il commercio a distanza (la via della seta che univa la Cina al Mediterraneo, le vie carovaniere del Vicino Oriente e del Nordafrica…), le migrazioni di popoli (gli insediamenti preistorici dell’America e dell’Asia, la diffusione di popolazioni di lingua bantu della regione del Niger-Congo tra il 500 a.C. e il 1000 d. C. …).

In epoca medievale, le spinte all’integrazione di ampi spazi si possono collocare nel VIII (fondazione e diffusione dell’Islam) e nel XIII (l’impero mongolo di Gengis Khan), mentre dal XIV secolo si rafforzarono processi differenti nella parte orientale dell’Eurasia (consolidamento di Cina e Giappone) rispetto a quella occidentale e meridionale (ripresa degli imperi plurinazionali accanto alla formazione degli “Stati territoriali”).

L’inizio della modernità

Il periodo tra il 1450 e il 1500 si conferma come profonda cesura nella storia della globalizzazione e l’inizio della “modernità” anche in una prospettiva di storia globale. Ne furono fattori decisivi e connessi la scoperta e la colonizzazione dell’America, l’avanzata degli Europei nell’Oceano Indiano e nel Pacifico, l’«imperialismo ecologico» (in primo luogo i virus e i batteri delle malattie europee), la rivoluzione delle tecnologie militari (polvere da sparo e artiglieria) e della comunicazione (la stampa).

Gli europei stabilirono sull’Atlantico un dominio incontrastato e nell’America si realizzò un’economia di piantagione (caffè, tè, cacao, caucciù…) coltivata da schiavi, che introdotta alla fine del Cinquecento si affermò come istituzione sociale dominante fino ai primi decenni del XIX secolo. Si intensificarono inoltre le reti commerciali transoceaniche: per il commercio di schiavi in primo luogo e delle merci preziose (spezie, tessuti, tè, pelli animali, argento).

1750-1880 Imperialismo, industrializzazione e libero commercio

Intorno alla metà del Settecento, ancora prima delle rivoluzioni politiche (americana e francese) e industriale, un altro impulso ai processi di globalizzazione venne dall’affermarsi di una politica mondiale legata alla necessità del controllo degli oceani (sia dal punto di vista militare che commerciale): il teatro dei conflitti non fu, come in precedenza, a scala locale/regionale, ma mondiale con una presenza egemonica dell’Inghilterra.

Le rivolte di coloni e schiavi delle Americhe tra il 1765 e il 1825 (le tredici colonie inglesi a Nord e le repubbliche del Sud e del Centroamerica) se da una parte indebolirono i legami della rete globale, dall’altra, superata la rottura politica, posero le basi per una diversa relazione tra Stati Uniti e Inghilterra.

La rivoluzione industriale fu ovviamente fattore decisivo per l’intensificarsi dell’interconnessione globale: gli autori mettono in evidenza da una parte le caratteristiche e le ragioni del caso inglese, dall’altro gli effetti a distanza in ambiti diversi dalla produzione di merci: armi e cannoni, trasporti, tecnologie della comunicazione (telegrafo).

Nel corso del XIX secolo l’Europa occidentale e in particolare l’Inghilterra si affermarono quali potenze dominanti e come modello di riferimento per lo sviluppo e il progresso di ogni altro stato del mondo: il futuro sarebbe stato possibile solo accostandosi almeno parzialmente al loro livello.

Gli autori parlano di una globalizzazione adattiva e ambivalente (tra ammirazione e disprezzo, vicinanza e distacco, assimilazione e preservazione della propria identità): si andava profilando un unipolarismo culturale ancora più che geopolitico, che vide nello Stato nazionale la forma ideale e desiderabile per le sfide del tempo.

Nella seconda metà dell’Ottocento la dimensione mondiale dell’economia trovò ulteriore impulso: accelerazione del commercio mondiale, migrazioni di massa (tra il 1850 e il 1894 circa 60/70 milioni di persone), nuova divisione internazionale del lavoro legata alla possibilità di inviare beni di massa a grande distanza, congiunture economiche con ripercussioni su scala planetaria (grande depressione del 1873, congiuntura favorevole del 1896).

Capitalismo mondiale e crisi mondiali (1880-1945)

Contrariamente alla vulgata corrente (soprattutto della storia economica) che racconta gli anni precedenti lo scoppio della Prima guerra mondiale come epoca di estesa globalizzazione seguita da una de-globalizzazione che durò fino al secondo dopoguerra, gli autori suggeriscono una lettura del periodo secondo la quale il contrasto tra queste due fasi è meno netto: gli stessi processi di de-globalizzazione sono descrivibili dentro uno spazio economico e politico mondiale.

Alla svolta del secolo il mondo era percepito come una comunità di destino: grazie anche ad una diversa esperienza (non solo nella coscienza delle élites) della dimensione del tempo e dello spazio nella vita quotidiana. La sempre maggiore diffusione dei mezzi di comunicazione, l’alfabetizzazione crescente, l’adozione di un sistema di computo del tempo suddiviso per fusi orari e basato sul meridiano di Greenwich, la maggiore frequenza dei viaggi transcontinentali furono tra i fattori di questo cambiamento. Tra Otto e Novecento l’economia mondiale può essere descritta come un sistema multilaterale caratterizzato da flussi internazionali interconnessi (di forza lavoro, capitali e merci), reti commerciali con centro a Londra e conseguenze anche per i paesi extraeuropei, infrastrutture (trasporti e comunicazioni) garantite dagli Stati nazionali.

Non che fossero assenti “buchi” nella rete (la maggior parte dell’Africa, le regioni interne della Cina e tutti i continenti non collegati dalle reti ferroviarie e dalle rotte delle navi a vapore): nel 1913 il divario tra i più ricchi centri del mondo (che non erano già più in Europa) e i più poveri era di 10:1 (nel 1820 era di 3:1).

La globalizzazione avveniva parallelamente alla costruzione delle nazioni. E il mondo divenne uno spazio di interazione tra Stati nazionali concorrenti (con l’aggiunta di nuovi attori, gli Stati Uniti e il Giappone): un mondo sempre più piccolo (nel 1911 quando R. Amundsen arrivò al Polo Sud, ogni parte del globo era conosciuta e cartografata) nel quale si realizzarono un sistema globale di alleanze, la spartizione coloniale del pianeta, processi di territorializzazione degli Stati nazionali, all’interno della dialettica tra globalizzazione e frammentazione.

Secondo J. Osterhammel e N. P. Petersson la Grande Guerra dal punto di vista delle cause fu una guerra europea che ben presto si allargò su scala globale con l’impiego di risorse globali. Segnò la fine del potere mondiale dell’Europa e l’assunzione dello Stato nazionale come modello di organizzazione politica generale. Negli anni successivi si assistette alla ideologizzazione della politica su scala mondiale: liberalismo, leninismo e fascismo furono esperimenti politici che si scontrarono in quella che può essere definita una guerra civile internazionale.

Il cosiddetto “regionalismo” dell’economia internazionale del periodo tra le due guerre con il privilegio accordato ovunque all’ambito “nazionale” conferma il primato della politica sulle interazioni economiche. Si possono anche leggere le politiche autarchiche degli anni Trenta come forme di regionalismo: la loro valenza globalizzante fu che condussero a una nuova guerra mondiale che divenne anch’essa globale, consacrando gli Usa potenza mondiale decisiva e fu punto di partenza di un ulteriore impulso alla globalizzazione economica, politica, e culturale del dopoguerra. Il 1945 può essere considerata una data decisiva (una data globale): per la fine della guerra e la volontà dei vincitori di creare un nuovo ordine mondiale.

Dal 1945 alla metà degli anni Settanta: la globalizzazione dimezzata

La divisione del mondo in due blocchi contrapposti fu la più importante struttura politica (non prevista) del secondo dopoguerra che condizionò anche gli spazi di interazione economica ai vari livelli. Diverse furono le conseguenze di questo assetto geopolitico bipolare nella sfera di influenza sovietica e in quella occidentale nella quale la priorità della riorganizzazione interna produceva, tra l’altro, una spinta all’integrazione regionale. Il processo di integrazione europeo, in transizione dalla federazione di Stati allo Stato federale, va inquadrato in questo contesto. Se da una parte tale processo può essere letto come limitazione del potere degli Stati nazionali, dall’altro si può pensare che la cooperazione realizzata nl quadro delle strutture europee sia stata funzionale al persistere dello stesso modello dello Stato nazionale.

L’ordine della guerra fredda pose fino anche agli imperi coloniali: dal 1950 al 1970 gli Stati nazionali indipendenti passarono da 81 a 134. Nacque quello che allora si chiamò il “Terzo Mondo” che non divenne uno spazio d’integrazione e di cooperazione di politiche sovranazionali. Un ruolo politico transnazionale importante, invece, ebbe la protesta studentesca della fine degli anni Sessanta che coinvolse paesi di gran parte del mondo e le cui ragioni sono comprensibili nel quadro delle trasformazioni socioculturali del secondo dopoguerra.

Gli accordi di Bretton Woods del 1944 avrebbero dovuto assicurare un nuovo ordine mondiale dell’economia, attraverso istituzioni (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio) create per garantirne il funzionamento.

La pianificazione economica in realtà fallì ma navigazione, commercio, telecomunicazioni, traffico aereo e attività multinazionali crearono reti globali che aggregarono, a gradi diversi di intensità delle interdipendenze, anche il Terzo mondo e l’area di influenza sovietica, ad esclusione della Cina che seguiva una scelta rigidamente autarchica.

Dagli anni Sessanta si registrarono spinte verso una globalizzazione socioculturale: le migrazioni verso l’Europa con la creazione di megalopoli multiculturali, l’aumento dei flussi turistici legati alle vacanze di massa, l’omogeneizzazione globale dei riferimenti culturali e degli stili di consumo (dalla Coca-Cola che divenne un marchio mondiale alla diffusione dei jeans e delle t-shirt). Un processo che non fu privo di contraddizioni e resistenze: basti pensare ancora al movimento del ’68 e alla lotta contro l’omologazione culturale e ideologica che trovò nella mobilitazione contro la guerra del Vietnam uno dei suoi momenti più significativi.

Conseguenza della cultura della contestazione di quegli anni fu anche la consapevolezza politica che per la prima volta si ebbe sui temi del clima, dell’esauribilità delle risorse, dell’inquinamento e in generale dell’impatto dell’uomo sul pianeta. Non solo la guerra nucleare, ma anche lo sfruttamento incontrollato delle risorse del mondo potevano determinarne la fine.

La svolta del XX secolo

Può essere datata alla fine degli anni Sessanta con la trasformazione degli assetti complessivi del secondo dopoguerra. In una prospettiva storica, questa ultima (per ora) globalizzazione (per alcuni la vera globalizzazione) è caratterizzata, secondo gli autori, principalmente da questi aspetti: la fine del mondo bipolare con il crollo dell’Urss e del blocco sovietico, la crisi dello Stato sociale (conseguenza e causa al tempo stesso della globalizzazione), l’estensione delle relazioni internazionali e finanziarie internazionali (con l’affermazione delle imprese transnazionali e l’evoluzione dei paesi di recente industrializzazione, in particolare nel Sud-Est asiatico), i progressi delle reti di comunicazione e di informazione, la diffusione su scala globale di beni e modelli culturali (soprattutto americani) pur in presenza di spinte che vanno nella direzione opposta, la presenza, accanto alle reti internazionali legali di quelle illegali (droga, riciclaggio di denaro sporco, traffico di esseri umani) con un peso significativo all’interno dell’economia globale.

Per J.Osterhammel e N. P. Petersson “la sensazione diffusa a livello mondiale di vivere nell’epoca della globalizzazione ha validi fondamenti “ (p. 122), ma non si tratta di un unicum nella storia dell’umanità: la cesura fondamentale a partire dalla quale la globalizzazione è diventata tema centrale e decisivo va individuata, secondo gli autori, nella prima età moderna (epoca delle scoperte, del commercio degli schiavi, dell’«imperialismo ecologico») e non nel tardo Novecento. Spinte e tendenze alla globalizzazione si sono poi verificate in epoche precedenti, a partire dalla metà dell’Ottocento.

Nella riflessione conclusiva del saggio si sottolinea come nella storia delle modernità i processi di integrazione e di de-globalizzazione e frammentazione sono andati di pari passo e come la globalizzazione sia strettamente connessa con la modernizzazione.

Il concetto di globalizzazione, in conclusione, ha senso ed è utile se non viene usato come categoria astratta, essenzializzandone il contenuto, e senza dimenticare che dietro e dentro la globalizzazione e i legami globali ci sono attori e soggetti (Stati, imprese, gruppi, individui… con differenti visioni e strategie), conflitti di interesse, vincitori e vinti.

La globalizzazione è dunque una categoria interpretativa e un processo con una sua storia: che è compito degli storici indagare e far conoscere.

Ernesto Perillo

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Public history: discussioni e pratiche – FARNETTI et al (BC)

FARNETTI, Paolo Bertella; BERTUCELLI, Lorenzo; BOTTI, Alfonso Botti (A cura di). Public history: discussioni e pratiche. Milano – Udine: Mimesis, 2017. 338p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.10, p.105-109, gen., 2019.

La Public History?  “Un nuovo contenitore trendy che in sostanza indica una storia spiegata a gente che non la sa da parte di altra gente che non la sa nemmeno lei, un po’ l’imparicchia e un po’ l’inventa”, secondo la definizione dello storico F. Cardini, a proposito della Saga dei Medici prodotto da Rai Fiction-Luz Vide.

Il libro di cui si parla in questa recensione può aiutare a capirci qualcosa di più. Diviso in due parti, il volume raccoglie nella prima il dibattito sulle definizioni della PH, ne ripercorre la storia negli Stati Uniti (sul finire degli anni Settanta del secolo scorso) e in Italia (di PH si è cominciato a parlare dal 2000; l’Associazione italiana di Public History (AIPH) nasce nel 2016), esplorando alcuni dei nodi metodologici più significativi, in particolare i rapporti tra PH, storia accademica, uso pubblico della storia, memoria. Leia Mais

Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così – CALZOLAIO; PIEVANI (BC)

CALZOLAIO, V. ; PIEVANI, T. Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così. Torino: Einaudi, 2016. 144p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.8, p.77-79, dic., 2017.

Le migrazioni sono processi complessi. La storia e la geografia (assieme ad altre discipline, come ad esempio l’antropologia e la biologia) possono aiutarci a comprenderli, perché tempo e spazio sono parametri utili per mettere in prospettiva un problema, soprattutto se complicato e difficile come questo.

Per capire il presente e i suoi eventi abbiamo bisogno di distanza, di prenderne le distanze. Così come per capire il luogo nel quale ci è capitato di vivere, ce ne dobbiamo allontanare. Da fuori si vedono altre cose e aspetti che prima rimanevano invisibili.

Il saggio di V. Calzolaio e T. Pievani parla di migrazioni nella prospettiva spazio-temporale del tempo profondo dell’evoluzione e della storia di Homo sapiens, su scala planetaria.

Inserire la vicenda umana nel contesto dell’evoluzione ci aiuta a comprendere come il fenomeno migratorio riguardi prima di tutto animali e piante che nel lunghissimo periodo seguono i destini dei territori in cui abitano (che si separano e si uniscono a causa della deriva dei continenti e dei cambiamenti climatici) e abbia un ruolo decisivo nel processo evolutivo, dando origine spesso a nuove specie.

Quella umana è stata condizionata da sempre dal migrare di altre specie e le ha condizionate con i suoi spostamenti che hanno assunto nel tempo una straordinaria funzione evolutiva, non solo per chi si spostava ma anche per gli ecosistemi coinvolti.

I capitoli iniziali del saggio di Calzolaio e Pievani ripercorrono le tappe delle migrazioni umane dagli albori della storia degli ominidi intorno a 6 milioni di anni fa in Africa, che resta il territorio di massima espansione della specie fino a 2 milioni di anni fa, fornendo le premesse per un possibile atlante globale delle migrazioni umane.

Il bipedismo è stato l’innovazione decisiva, con la conseguente liberazione delle mani. Dal cespuglio di forme ominide, una molteplicità di specie distribuite tra l’Etiopia e il Sudafrica, è emerso il genere Homo intorno a 2,5 milioni di anni fa, all’inizio del Pleistocene in concomitanza di continue oscillazioni glaciali. In questo periodo, per la prima volta nella storia, ha luogo un processo di espansione che porterà il genere Homo a oltrepassare i confini dell’Africa, in un arco temporale che abbraccia decine e centinaia di migliaia di anni. “(…) Immaginiamo che un piccolo campo base umano venga spostato lungo certi corridoi geografici di 2 o 3 chilometri per ogni generazione, ogni 25 anni (…) in 100.000 anni dall’Africa si può raggiungere la Cina. Non è necessaria alcuna intenzione di farlo. Se il clima cambia, le fasce di vegetazione lentamente si spostano, e con esse le faune: tutte le vicende di rilievo del nostro genere si svolgono nell’instabilità delle oscillazioni climatiche del Pleistocene”. (pp. 17-18).

In tre ondate migratorie successive (Out of Africa), sostanzialmente attraverso gli stessi corridoi geografici (valle del Nilo e costa del Mar Rosso verso il Mediterraneo; corridoi del Levante e da qui smistamento verso l’Asia e l’Europa), si perfeziona la conquista africana del mondo: e intorno a 50-45000 anni Homo sapiens entra per la prima volta in Europa. Al suo arrivo l’Eurasia era già abitata da altre specie umane. “Quello che oggi ci sembra fuori discussione, cioè essere l’unica specie umana sulla Terra” affermano gli autori “ in realtà è un evento recente frutto di numerose e sovrapposte migrazioni” (p. 27).

In meno di 50 mila anni Homo sapiens arriverà a completare il popolamento dei continenti, imponendosi sulle altre specie umane (almeno tre). Secondo gli autori questo successo è dovuto alla migliore capacità migratoria dei nostri antenati. Alla base, un circolo virtuoso tra comportamenti sociali e culturali più avanzati (in particolare per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio e dell’intelligenza simbolica), la capacità migratoria e l’espansione territoriale.

Il viaggio ormai non è solo costrizione ma intenzione e scelta connessa alla capacità di trasformare le nicchie ecologiche.

Mentre alcuni popoli restarono raccoglitori cacciatori, altri si avviarono verso la domesticazione di piante e animali in un processo di differenziazione dovuto al “variopinto mosaico di fattori ecologici e geografici” (clima, geologia, habitat, epidemie…).

Il cambiamento radicale si ha con la rivoluzione agricola: fino allora (intorno ai 10 mila anni prima di Cristo) gli umani erano quasi tutti raccoglitori cacciatori senza fissa dimora (si è stimata una popolazione mondiale intorno ai 10 milioni); il loro numero progressivamente andrà diminuendo fino allo 0,001 per cento su una popolazione totale di tre miliardi negli anni Settanta del XX secolo.

Inizia una nuova fase: il tempo delle emigrazioni e delle immigrazioni da e verso territori di altri popoli, che dura fino ad oggi.

Si possono individuare 8 ondate migratorie collettive di neocontadini, secondo un processo non lineare (ci furono anche contrazioni demografiche) e con differenze in parte spiegabili con i vincoli ambientali. Le strategie adattive di Homo sapiens migrante globale sono alla base della diversità umana, biologica e culturale, accelerata da spostamenti e rimescolamenti: le culture e le tecnologie sono state gli strumenti delle comunità umane in movimento per vivere in climi e ambienti i più diversi e instabili.

Attorno alle risorse idriche si vanno formando le prime civiltà con la specializzazione e complessità legata alla successiva rivoluzione urbana e della scrittura. Migrare non è ora solo comportamento adattivo legato a criticità climatiche o ecologiche; è in qualche modo un comportamento culturale: accanto alle costrizioni del migrare (ora anche quelle in conseguenza delle guerre umane e dell’aggressione violenta di un gruppo su un altro) si va affermando la libertà di migrare.

Sia forzati che non, gli spostamenti con il neolitico incisero profondamente sulle dinamiche culturali, sociali, linguistiche e genetiche delle popolazioni. Si complicarono e intensificarono i meticciati (basti penare alle tracce di incontri tra migranti presenti in ogni lingua): “Non ci sono un tempo e un luogo ove osservare una comunità di umani in una forma autentica e originaria.” (p. 67).

Ci sono confini naturali (nicchie e corridoi di specie, barriere geografiche, linee di costa, crinali montani…) e confini artificiali, antropici: con la diffusione dell’agricoltura stanziale si vanno consolidando i confini artificiali. E nel progressivo affermarsi della centralizzazione dei poteri decisionali, del controllo della forza e dell’imposizione di gerarchie e dominio si stabilizzano i confini istituzionali che le migrazioni in qualche modo mettono in discussione, contribuendo a configurare l’evoluzione della specie sul pianeta e a determinare processi di differenziazione e trasformazione delle biodiversità e dinamiche che durano ancora oggi.

“Prima dell’età antica, la specie umana non è tutta nomade e seminomade, come si legge da troppe parti. Esiste un antichissimo e complesso fenomeno migratorio, precedente il tradizionale inizio della storia. Poi, dopo la diffusa rivoluzione neolitica, si stagliano probabilmente due lunghi periodi storicamente e geograficamente determinati delle migrazioni umane sulla Terra: il periodo antico della diffusione dell’agricoltura, primo e quasi unico settore produttivo, anche durante i fenomeni medievali (e forse non proprio solo europei latino-germanici) del feudalesimo e dell’assolutismo; il periodo moderno dell’espansione di Stati europei e di confini statuali, subito collegato al periodo contemporaneo delle rivoluzioni industriali, fino alla globalizzazione e ai cambiamenti climatici antropici globali.” (p. 71).

Si rende dunque indispensabile, secondo gli autori, la ricostruzione dell’“impasto migratorio fra mondi separati delle antichissime e antiche comunità” per capire anche gli sviluppi successivi della vicenda umana.

Gli ultimi capitoli del volume sono dedicati alla storia moderna e contemporanea delle migrazioni a cominciare dai due Out of Europa: il primo con la conquista del mondo da parte degli Stati europei a partire dall’inizio del XVI secolo; il secondo dopo la rivoluzione industriale alla fine del XVIII secolo con l’inizio dell’Antropocene.

Alla base delle migrazioni internazionali del primo Out of Europa, tra gli altri fattori, l’affermazione dello Stato moderno e poi di quello nazionale, delle nuove armi e delle nuove navi. Del secondo, l’espansione del capitalismo, l’imperialismo degli Stati europei che nel 1914 controllavano l’81,4 per cento della superficie mondiale, le dinamiche demografiche ed economiche delle madrepatrie: nei primi decenni del Novecento La somma dei migranti era pari a circa il 5 per cento della popolazione mondiale. Emigrazione e immigrazione si formalizzano con gli Stati nazionali: si vanno definendo in questo periodo la condizione di profugo e di rifugiato e si cominciano ad adottare politiche migratorie statali, soprattutto per il controllo degli arrivi e il contingentamento dei flussi.

Venendo all’oggi, gli autori mettono in rielevo il nesso tra clima e migrazioni, documentato anche dai numerosi rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC Intergovernmental Panel on Climate Change http://www.ipcc.ch/index.htm); nesso peraltro già presente nelle migrazioni di massa della specie all’inizio della sua storia. Con una novità decisiva: adesso l’ecosistema globale è messo in discussione dall’azione di Homo sapiens. I profughi ambientali (migranti forzati dall’impatto umano sugli ecosistemi, da disastri e delocalizzazioni) sarebbero nel 1994 circa 25 milioni, cui dobbiamo aggiungere quelli a seguito di guerre, violazione dei diritti, povertà, disuguaglianze multiple: i migranti forzati costretti a fuggire dalle loro case sono stati 59,5 milioni alla fine del 20I4, con una tendenza al rialzo che sembra consolidarsi.

Di fronte a questo quadro, che fare?  Gli autori propongono tre percorsi per non subire ma gestire i futuri flussi migratori:  – riconoscere i rifugiati climatici;  – contrastare le migrazioni forzate;  – gestire le migrazioni sostenibili.

Sono migranti contemporanei a noi oltre un miliardo dei sette e mezzo miliardi di donne e uomini che vivono nel pianeta. Accanto alla libertà di migrare (già prevista nella Dichiarazione universale dei diritti umani: art. 13 e 29), va garantito il diritto di poter retare con dignità nel territorio dove si è nati.

Un impegno decisivo per la sopravvivenza, la convivenza, lo sviluppo di Homo sapiens e dell’intero ecosistema: “La virtù necessaria per questa impresa è anche una delle più scarse al momento: la lungimiranza. Verso il passato e verso il futuro”.

Ernesto Perillo

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Storia globale. Un’introduzione – CONRAD (BC)

CONRAD, Sebastian. Storia globale. Un’introduzione. Roma: Carocci, 2015. 210p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.5, p.55-60, giu., 2017.

Non considerata a rigore tra i segnali paratestuali, l’introduzione assolve a diversi compiti importanti: indicare le ragioni della trattazione del tema in oggetto; presentare il tema, esplicitando, se necessario, questioni, genesi, elementi; ricapitolarne riassuntivamente il contenuto.

Posta sulla soglia del testo, l’introduzione ne costituisce, dunque, la necessaria porta di ingresso: una mappa per la comprensione anticipata del territorio che vogliamo esplorare. In questo caso quello della storia globale: il libro di S.Conrad ci consente di averne una visionecomplessiva e articolata, capace di farci conoscereil tema ancora prima di averlo attraversatoconcretamente e utile proprio per esserne unaguida preventivamente efficace.

Un’introduzione, appunto.

Analizziamo la mappa/introduzione alla storia globale: ci mostra sostanzialmente tre luoghi e consente di rispondere a tre domande:  La sua genesi: quando e com’ è nata la storia globale?  Definizione e contenuti: che cosa è e di cosa si occupa la storia globale?  Gli aspetti critici: quali le controversie e le obiezioni più frequenti?  Cominciamo allora l’esplorazione, partendo dalla definizione di storia globale :  “A un primo approccio, ancora molto generale, la storia globale definisce una forma di analisi storica nella quale fenomeni, eventi e processi vengono inquadrati in contesti globali. Con ciò non si intende necessariamente che l’indagine venga estesa all’intero globo terrestre; per molti temi i punti di riferimento saranno più limitati. Ciò significa anche che la maggior parte degli approcci di storia globale non cerca di sostituire l’affermato paradigma storico-nazionale con un’ astratta totalità del “mondo”, cioè di scrivere una storia totale del globo. Spesso si tratta più facilmente della storiografia di aree limitate, quindi non “globali”, ma piuttosto con una consapevolezza delle relazioni globali”.1  La storia globale è dunque innanzi tutto una prospettiva2, che pone in primo piano altre dimensioni, altre domande attraverso le quali traguardare il passato. Ma è al tempo stesso un tema specifico del discorso storico: per una contestualizzazione globale è spesso importante rendere conto del grado e del carattere dei collegamenti delle reti globali.3

La genesi

Quando si chiede a uno storico/a una definizione, (di solito) la riposta è il racconto di una storia: la comprensione di un fatto è custodita nella sua genesi; nei contesti e/o nei processi dentro i quali esso si è manifestato.

S.Conrad dedica i capitoli iniziali della suaintroduzione alla storia della storia globale, a partire dall’antichità, per mostrare come i concetti di “mondo” e globalità siano storicamente mutevoli e diversi a seconda dell’epoca e dei luoghi. E mette a fuoco un elemento decisivo:

“ Come qualsiasi altra forma di storiografia, anche la storia globale è sempre plasmata dalle sue condizioni di nascita e dal contesto sociale concreto nel quale viene scritta. Una prospettiva di storia globale è, a questo riguardo, prima di tutto una specifica lettura delle relazioni globali, e non significa affatto che questa visione debba anche essere capita o addirittura accettata ovunque nel mondo. Così come i testi scolastici tedeschi, francesi o polacchi si possono differenziare (nei loro interessi tematici, in ciò che omettono, ma anche nelle interpretazioni degli eventi che trattano), altrettanto le rappresentazioni della storia mondiale possono variare talvolta in maniera sostanziale.

(…) Singoli temi, ad esempio lo schiavismo, mutano il loro significato sociale in maniera basilare, a seconda se esso venga preso in considerazione dalla prospettiva dell’Angola o della Nigeria, del Brasile o di Cuba, ma anche della Francia o dell’ Inghilterra. E anche il concetto di mondo rispettivamente rilevante non è affatto omogeneo in differenti società e nazioni.

Poiché la storia globale non è un soggetto naturalmente dato ma rappresenta una prospettiva, è tanto più importante considerare da dove essa viene osservata.” (p. 45)

Tre sono gli approcci che dagli anni Novanta del secolo scorso caratterizzano la storia globale:  -l’analisi di connessioni transnazionali(senza un esplicito riferimento al”mondo”): il riferimento è alla storiacomparata (ma non solo) e all’attenzioneprivilegiata alle macroregioni (OceanoIndiano, Oceano Atlantico, il continenteeuropeo nel suo complesso…); -la storia delle civiltà; -la pluralizzazione della storia globale emondiale: “conviene osservare la storia globale in una prospettiva di storia globale, per assicurarsi della relatività e della posizionalità di ogni lettura del passato globale.”(p. 63)

I contenuti

a.Gli ambiti

S.Conrad individua quattro ambiti didiscussione, all’interno dei quali attualmente gli storici riflettono sulla dinamica del mondo moderno:  -la teoria del sistema-mondo: dall’approccioteorico elaborato da I. Wallerstein negli anni Settanta alle critiche successive circa la possibilità del suo utilizzo ancora oggi: superamento della cornice analitica dello Stato nazionale, uso del concetto dell’incorporazione graduale in un contesto dominato dall’Europa, attenzione ai cambiamenti strutturali di natura macrostorica;  -i postcolonial studies per una lettura noneurocentrica del mondo moderno. Dopo aver messo in luce alcuni elementi critici della prospettiva postcoloniale, l’autore ne sottolinea tre aspetti ancora significativi: l’esistenza di spazi di ibridazione, acquisizioni locali, negoziazioni in condizioni coloniali accanto alla diffusione e all’adattamento come processi di transfer culturali di storia mondiale; l’attenzione alle dipendenze, interferenze, connessioni, superando l’idea che nazione e civilizzazione siano da considerare unità “naturali” della storia, contro una storiografia mondiale eurocentrica che legge lo sviluppo europeo/occidentale slegato dal resto del mondo; la considerazione che i processi di integrazione globale si realizzano entro rapporti e strutture di dominio;  -le analisi delle reti: l’epoca degli Statinazionali, basati sul controllo di territori pensati come superfici in relazione tra di loro, è stata sostituita dall’epoca della connessione (merci, informazioni, uomini e donne);  -il concetto di multiple modernities: al centrodell’attenzione la pluralizzazione delle linee di sviluppo della modernità e il ridimensionamento dell’assioma della secolarizzazione che avrebbe accompagnato ovunque i processi di modernizzazione.

Diversi, secondo Conrad, sono gli ambiti storiografici rivisitati in prospettiva di storia globale dalla storia economica a quella sociale, da quella geopolitica alla storia culturale e della vita quotidiana, per citarne alcuni. L’autore indica sei campi nei quali oggi la ricerca è particolarmente attiva: merci globali; storia degli oceani; la migrazione; gli imperi; la nazione; la storia dell’ambiente.

b.Le problematiche di riferimento

Quali le principali questioni della storiaglobale? Conrad le individua a partire dalle seguenti domande:  “Come si può scrivere una storia del mondo e delle sue connessioni che non sia eurocentrica e la cui logica non sia prestrutturata attraverso l’uso di concetti occidentali? Da quando si può propriamente parlare di un contesto globale, e di una storia della globalizzazione? Ha corso la storia del mondo sempre verso l’egemonia dell”’Occidente”, come essa si è manifestata nel XIX e XX secolo, e quali erano le cause di questa divergenza tra Europa e Asia? Infine, c’è stato un potenziale di modernizzazione anche al di fuori dell”’Occidente”, e quale significato hanno avuto le rispettive risorse culturali di società premoderne per la transizione a un mondo moderno globalizzato? “ (p. 95)  Sono questioni importanti: potrebbero (dovrebbero?) essere domande guida anche per la storia generale insegnata. Vediamole nel dettaglio:  Eurocentrismo  Per molto tempo nella storiografia mondiale l’Europa (e la master narrative eurocentrica) era vista come l’unico soggetto attivo.

Nell’assunzione critica dell’eurocentrismo si tratta di trovare un equilibrio tra il superamento di questa impostazione e la non marginalizzazione dell’Europa, distinguendo tra eurocentrismo come dinamica del processo storico (incomprensibile senza il riferimento all’egemonia dell’Europa occidentale e più tardi degli Stati Uniti, in un processo che non fu lineare e che ebbe inizio solo nel XIX secolo) ed eurocentrismo come prospettiva: presunti concetti analitici come nazione, rivoluzione, società o progresso trasformarono un’esperienza parziale, quella europea, in una lingua teorica universalistica, che prestruttura già l’interpretazione dei rispettivi passati locali.

Periodizzazione

Anche qui ha senso distinguere in modo euristico tra globalizzazione come processo e globalizzazione come prospettiva. In merito al primo punto: la maggior parte degli storici pone l’inizio di una connessione globale al principio del XVI secolo. La seconda possibile cesura di questa storia cade nel XIX secolo: fino ad allora il mondo era ancora un mondo delle regioni, strettamente unito da molteplici reti (reti commerciali e correnti migratorie così come comunanze culturali). Ma solo dalla metà del XIX secolo si giunse a una connessione sistematica, all’integrazione globale delle società, in ragione della sovrapposizione di «due macroprocessi reciprocamente dipendenti» (Charles Tilly) del mondo moderno: la formazione e la diffusione del sistema degli Stati nazionali e la creazione di un meccanismo universale di mercati e di accumulazione di capitale.

Si può parlare di una nuova fase della globalizzazione dal 1990? Conrad mette in discussione questa ipotesi, sottolineando come, in generale, una storia della globalizzazione non dovrebbe essere una narrazione lineare della sempre più grande connessione del mondo.

Altro aspetto fondamentale: la globalizzazione come prospettiva. Nel XIX secolo la globalizzazione ha presupposto la diffusione di norme euro-americane, in condizioni di colonialismo e di estensione universale dello Stato nazionale. All’interno di questo paradigma le differenze culturali erano state gerarchizzate e disposte in scala temporale: la connessione del modernizzazione complessiva e di un’omogeneizzazione graduale. Dal tardo XX secolo, sostiene Dirlik, ciò è mutato: la differenza culturale non appariva più come arretratezza, ma era concepita come alternativa a concetti eurocentrici o, meglio, universali. La globalizzazione e l’insistenza sull’ autonomia culturale andavano di pari passo. E ancora: l’aumento d’interazione globale addirittura rafforzava e produceva specificità culturali. Invece di una temporalizzazione della differenza, nel senso della costruzione di diversi gradi di sviluppo, il mondo globale del XXI secolo ha vissuto addirittura uno spatial turn. Progetti di modernità culturalmente diversi e concorrenti potevano dunque essere pensati come esistenti fianco a fianco contemporaneamente.

Asia e Europa

Perché l’Europa? In che cosa consisteva il Sonderweg (“la via speciale”) europeo? È davvero esistito?  Nella lunga discussione su questo tema, si possono distinguere essenzialmente tre posizioni. La prima rimandava a Marx e poneva in primo piano la questione dei modi di produzione. In opposizione a ciò, gli storici che si orientavano all’opera di Weber insistevano sui fattori culturali e istituzionali. Sia l’approccio classicamente marxista che quello weberiano privilegiano, secondo Conrand, modelli esplicativi endogeni e si limitano a una narrativa che spiega l’ascesa dell’Europa da sé stessa, internalisticamente.

A partire dai tardi anni Novanta è stata pubblicata una serie di lavori che hanno spostato il terreno sul quale era stata condotta questa discussione in maniera sostanziale. Conrad passa in rassegna i contributi revisionistici della cosiddetta California School (l’espressione designa storici come Pomeranz, Wong, Frank) che hanno proposto una spiegazione della dinamica dell’economia inglese non più endogena e non basata su lunghe continuità culturali e istituzionali. Al centro di questa lettura la prospettiva comparata, lo sguardo dalla Cina, l’accentuazione di interazioni transregionali, l’attenzione alle origini politiche della rivoluzione industriale e l’enfatizzazione di fattori casualmente coincidenti (conjunctural foctors).

Early modernities

In generale si tratta di capire quale significato possa essere attribuito, nel passaggio al mondo moderno, alle diverse risorse culturali di società non occidentali.

Gli approcci più interessanti della early modernity si riferiscono a un periodo dell’età moderna, che durò all’incirca dal 1450 al 1800, un’epoca durante la quale si costituirono le forze e le strutture che produssero trasformazioni in collegamento tra di loro, ma per nulla identiche, che poi sfociarono nel mondo del XIX secolo: solo nell’ambito dell’integrazione imperialistica e capitalistica del mondo dopo il 1800 esse furono gradualmente incorporate negli ampi processi che plasmarono il mondo moderno.

La più estesa argomentazione della early modernity è stata sinora formulata per la Cina e in generale per altri paesi asiatici (India e Giappone)  Le critiche  I progetti di storia mondiale e globale non sono stati esenti da critiche e obiezioni, anche se le riserve, in fondo, non hanno messo in discussione in modo radicale tale approccio. Nell’illustrare i principali limiti della ricerca di storia globale, l’autore vuole dare un contributo costruttivo per l’approfondimento di questa prospettiva.

La riserva metodologica

Gli storici globali non si basano su fonti primarie ma sono vincolati del tutto alla letteratura secondaria. Del resto questa è anche la situazione delle opere generali di storia nazionale che si basano su una visione d’insieme dei risultati di ricerche “locali”.

La strumentazione concettuale

Le nozioni/concetti con cui si scrive la storia delle connessioni globali sono quelle/i dela  “zavorra” eurocentrica: feudalesimo, nazione, religione…? Non c’è il rischio di omologare concettualmente situazioni diverse, e di appiattire differenze e particolarità? Il concetto di globalizzazione rischia di essere un macroconcetto poco utilizzabile in contesti specifici che presentano dinamiche diverse.

La finalizzazione teleologica  Le prospettive storico-globali corrono il rischio di costruire una genealogia dell’attuale processo di globalizzazione come svolgimento quasi inevitabile e naturale.

La storia e la connessione globale limitate alle sole relazioni con l’Europa

L’esempio è quello della storia dell’India che sarebbe stata liberata dalla stagnazione solo con il colonialismo, mentre già in epoca precoloniale intratteneva rapporti economici e culturali importanti con l’Africa, l’area araba e il Sud-Est asiatico.

La ricerca storica globale secondo Conrad deve affrontare una serie di questioni e evitare alcuni pericoli per poter sviluppare un proficuo dialogo critico al suo interno: il rischio di sostituire l’eurocentrismo con il sinocentrismo (come nel libro ReOrient di Frank); la sopravvalutazione dei fattori esterni, assegnando particolare valore al contesto spaziale nella spiegazione di eventi e processi; la sopravvalutazione delle connessioni, dei punti di contatto trascurando le particolarità; la feticizzazione della mobilità; la marginalizzazione degli approcci che soprattutto negli anni Ottanta hanno messo in evidenza l’importanza delle dimensioni storico-culturali e di storia del genere del passato; la tentazione di dimenticare che la storia globale è pur sempre una prospettiva per gettare un nuovo sguardo sul passato, non semplicemente un oggetto che esiste senza problemi.

Conrand insiste, come abbiamo già detto sulla pluralizzazione della storia globale e la “posizionalità” di ogni lettura del passato globale. E cita lo studioso della letteratura S. Krishan che mette in evidenza i meccanismi linguistici e narrativi attraverso i quali il mondo viene creato come unità connessa e interdipendente:

«Nelle discussioni recenti sulla globalizzazione viene tacitamente accettato che l’aggettivo “globale” si rivolga a un processo empirico, che ha luogo “lì fuori” nel mondo. [ … ] Al contrario io parto dal presupposto che “globale” descriva un modo della tematizzazione, o un modo di occuparsi del mondo». La lingua del globale suggerisce una trasparenza, un accesso diretto a un processo da osservare empiricamente: in effetti, però, si tratta di un modo che riassume diversi fenomeni in un comune discorso e così lo rende controllabile. Esso non rimanda al mondo in sé, ma alle condizioni e alle implicazioni dei modi istituzionalizzati per mezzo dei quali i diversi terreni e popoli di questo mondo vengono resi leggibili all’interno di un’unica cornice» (…). Il globale rappresenta la prospettiva dominante dalla quale il mondo viene prodotto come rappresentabile e controllabile». (p. 79).

[Notas]

1 S. Conrad, Storia globale. Un’introduzione, Roma, Carocci, 2015, p.18.

2 “Per fare un esempio, si può osservare il Kulturkampf in Baviera nel XIX secolo da un punto di vista di storia locale, con una problematizzazione storico-culturale o di storia di genere, o come parte della storia tedesca. Però lo si può anche collocare in maniera storicoglobale e intendere come espressione dei contrasti tra lo Stato liberale e le Chiese, che furono condotti nel XIX secolo in molte parti del mondo: in tutta Europa, ma anche in America Latina o in Giappone”. Ibidem, p. 20.

3 “Il crash della borsa di Vienna nel 1873 ebbe un’ importanza differente dalle crisi economiche del 1929 e 2008, perché il grado di collegamento dell’economia mondiale, ma anche l’intreccio mediatico degli anni intorno al 1870, non aveva ancora raggiunto la stessa densità che in seguito”. Idem.

Ernesto Pirillo

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