Stranieri. Figure dell’altro nella Grecia antica | Andrea Cozzo

Sei anni dopo la pubblicazione di Stranieri. Figure dell’altro nella Grecia antica, Andrea Cozzo pubblica una nuova edizione del suo lavoro di indagine sul tema dello straniero nell’area di civiltà greca, rinnovando così il suo contributo a una tematica particolarmente feconda delle scienze dell’antichità su cui ha avuto modo di offrire ulteriori riflessioni anche nel successivo Nel mezzo. Microfisica della mediazione nel mondo greco antico (Pisa 2014) e nel più recente Riso e sorriso. E altri saggi sulla nonviolenza nella Grecia arcaica (Sesto San Giovanni 2018).

Nel volume recensito l’Autore si propone di esplorare attraverso un’analisi sistematica delle fonti in quali modi si declinasse il rapporto tra Noi e gli Altri (per utilizzare le categorie di indagine di cui si serve egli stesso) entro l’area di civiltà greca, ma anche in quei contesti di confine e di convivenza fra gruppi sociali inscrivibili entro le due categorie appena citate, entrando così nel merito di «realtà politiche e culture dell’identità» (p. 8). Nel fare ciò viene coperto un arco temporale che da Omero arriva fino al IV sec. d.C., e quindi al periodo di incontro e scontro tra la tradizione pagana greco-romana e quella dei Padri della Chiesa; quest’ultimo tema è ulteriormente approfondito in un paragrafo pubblicato nella nuova edizione del volume (4.7. Come pensare le credenze religiose degli Altri? pp. 145-56).

La ricerca viene condotta dichiaratamente in una prospettiva ‘storica’, ma anche «in modo tale che certi luoghi comuni e certi singoli problemi che agitano la contemporaneità, benché non esplicitamente menzionati» siano «facilmente richiamabili all’attenzione ‘comparativa’ di chi legge» (p. 7). Si può cogliere a questo punto l’occasione per sottolineare uno dei principali pregi di questo lavoro: il fatto che l’Autore porti avanti le proprie argomentazioni facendo parlare principalmente le numerose fonti proposte, senza rinunciare tuttavia a far emergere chiara la propria posizione, e fornendo implicitamente spunti di riflessione su manifestazioni a noi contemporanee del tema trattato. Ad esempio di ciò si riporta un testo tratto dall’Epistola 94 di Basilio di Cesarea, che viene presentato a proposito dei modi in cui nel IV sec. d.C. i Padri della Chiesa posero la loro attenzione sull’atteggiamento da tenere nei confronti degli immigrati secondo l’insegnamento di Gesù: «A chi facciamo torto costruendo dei rifugi per gli stranieri (katagóghia tóis xénois), per quelli che sono di passaggio e per quelli che a causa della loro debolezza hanno bisogno di qualche cura, e installandovi il conforto necessario, gli infermieri, i medici, le bestie da soma, gli accompagnatori?» (p. 141).

L’opera è strutturata in una breve introduzione (pp. 7-10) e in quattro capitoli che si tengono presenti l’un l’altro. Nel primo di questi (Gli Altri come ospiti, pp. 11-34) si individua nell’accoglienza offerta allo straniero un elemento tipico del codice valoriale aristocratico proprio dei poemi omerici. Viene specificato che il vincolo di ospitalità, avente carattere personale e interessato, è sancito attraverso uno scambio di doni che esprime la reciprocità del rapporto instaurato e che apre di conseguenza ad alleanze future. Dalle parole che Menelao rivolge a Eteoneo quando Telemaco e Pisistrato giungono presso il suo palazzo a Sparta (Od. IV. 31-6) viene così rilevato che per chi si è già trovato in una condizione di dipendenza dall’ospitalità altrui è obbligatoria la decisione di ospitare stranieri in difficoltà, dal momento che si conoscono in prima persona le sofferenze insite in quella condizione (pp. 12s). Anche la violazione del codice getta luce sulle caratteristiche dell’ospitalità omerica: i Proci che offendono Odisseo-mendicante si rivelano non solo dei cattivi aristocratici che non hanno cura della propria fama (p. 16), ma anche dei selvaggi, se si prende in considerazione il fatto che nel poema coloro che sono philóxenoi e rispettosi degli dei sono nettamente distinti da coloro che sono invece definiti hybristái te kài ágrioi oudè díkaioi (Od. VI. 119- 21, pp. 13s).

Passando ad esaminare i modi in cui l’ospitalità si declina al di fuori dell’epos, ne viene individuata una forma privata attestata nella letteratura di V e IV sec. a.C., che si può presentare sia come occasionale che generalizzata. A tal proposito viene citato l’esempio dell’agrigentino Gellia, che nella seconda metà del V sec. “aveva incaricato alcuni servi di invitare tutti gli stranieri che passavano di lì a ricevere la sua accoglienza” (Diod. Sic. XIII. 83, p. 25). Una novità è poi rappresentata dalla pratica della proxenía, che forse già dalla fine del VII sec. a.C. “regolarizza a livello pubblico il tradizionale costume dell’ospitalità privata” (pp. 24s).

Il secondo capitolo (La purezza del Noi, pp. 35-58) considera l’identità e la differenza tra gruppi sociali come prodotte dalla possibilità o meno di comprendersi comunicando. La riflessione prende avvio dall’aggettivo omerico barbaróphonos, ritenuto «privo di connotazione specificamente etico-culturale, anche se già peggiorativo» (p. 37), per poi soffermarsi sui criteri che Erodoto individua come caratterizzanti tò hellenikón: il legame di sangue, la lingua, gli altari e i sacrifici, i costumi. Viene argomentato dunque in modo convincente che «chi viene da un’altra città greca è semplicemente xénos, ‘straniero’», mentre il bárbaros lo è doppiamente, essendo anche «un estraneo dal punto di vista etnicoculturale» (pp. 37s). L’Autore ritiene inoltre, a mio parere in modo meno opportuno, che una connotazione specificamente negativa del termine bárbaros si diffonda a partire dalle guerre persiane, secondo «un’ideologia che vincola pregiudizialmente a un’ostilità generalizzata e decontestualizzata nei confronti dei popoli con cui si abbiano contatti a rischio di conflittualità» da lui rintracciata nelle fonti di V e IV sec. a.C. prese in esame (pp. 41-9). Con questa puntualizzazione non intendo negare la validità delle argomentazioni proposte, ma mi chiedo se sia effettivamente possibile rintracciare già all’indomani delle guerre persiane una posizione così fortemente radicata e ideologizzata nei confronti degli Altri, e non piuttosto sul finire del V e nel corso del IV sec., dal momento che principalmente a partire da questo periodo cominciano a susseguirsi fonti che sembrano andare con decisione verso quella direzione.

La riflessione si sofferma quindi sul tema dell’autoctonia, che identifica un gruppo sociale in quanto radicato con continuità su un territorio, e sull’uso che la democrazia ateniese fa di tale argomento: dagli Ateniesi il non essersi mai trovati nella condizione di stranieri erranti è infatti percepito come un valore, ed esibito come un motivo della «propria pretesa superiorità sulle altre città» (p. 52).

Il terzo capitolo (Gli Altri per Noi, pp. 59-91) prende in esame gli Altri in quanto noncittadini sia all’esterno della polis, ovvero come xénoi e bárbaroi, che all’interno di essa, nel caso di schiavi, stranieri di passaggio e stranieri residenti. L’Autore indaga pertanto la condizione dei meteci, e riconduce efficacemente il loro status di non-cittadini a cause specificamente economiche e sociali, individuando una forma di pensiero a partire dalla struttura sociale della polis: i meteci infatti non possono essere cittadini in quanto le loro attività economiche impediscono loro di dedicarsi ai doveri del cittadino (pp. 62-5).

Il capitolo procede soffermandosi su diverse fonti che ci restituiscono una realtà complessa, che nei fatti mostra i limiti della presunta autoctonia ateniese. Vengono presentati casi di meteci che si comportano come buoni cittadini e cittadini che non appaiono meritevoli dei propri diritti, ma anche casi in cui ad Atene tra il V e il II sec. a.C. veniva concessa la cittadinanza per motivi diplomatici, di merito e soprattutto per la «convenienza economica e politica della città» (p. 73), non sempre senza critiche e rimostranze nel nome della pretesa autoctonia (pp. 82-5). La cittadinanza poteva infatti essere concessa anche a masse di meteci o schiavi, come accadde nel 406 a.C. a quanti di essi si erano arruolati volontariamente tra le fila dei rematori ateniesi per la battaglia delle Arginuse, una pratica che continuò anche in età ellenistica presso altre poleis (pp. 75-81).

L’ultimo capitolo (Gli Altri e Noi, pp. 93-156) approfondisce ulteriormente le forme di pensiero con cui ci si rapportava all’alterità e i casi di effettiva convivenza in cui si concretizzava tale rapporto. Vengono dapprima esaminate fonti che trattano della discendenza dei parlanti lingua greca da antichi popoli giunti da terre orientali, e che pertanto riconoscono una parità tra i primi e i barbari (es. Antiph. fr. 44 D-K) descrivendoli come ugualmente immigrati. È per questo motivo che Aristotele può abbandonare ogni pretesa di purezza ‘autoctona’, individuando meramente nella decisione politica l’origine della cittadinanza (pp. 93-100).

L’analisi si sposta quindi sui casi di convivenza fra gruppi sociali di identità diversa, sottolineando che solo in seguito a un certo periodo di graduale affiatamento si poteva arrivare a una loro concreta integrazione, cosa peraltro non sempre facilmente raggiungibile: fra gli altri, la politica matrimoniale adottata da Alessandro di Macedonia per rendere possibile un’armonizzazione fra le genti greche e le popolazioni orientali viene citata come esempio riuscito di mediazione (pp. 105-14), mentre il caso della comunità ebraica presente ad Alessandria d’Egitto è preso a modello di una convivenza fallimentare e all’origine di una serie di conflitti sanguinosi, come quello che all’epoca di Nerone sfociò nella morte di circa cinquantamila Giudei (pp. 116-20).

Viene dunque preso in considerazione l’atteggiamento dei cristiani, i quali nel nome di una «identità religiosa» e dell’amore per il prossimo predicato da Cristo annullavano ogni differenza politica, culturale e di genere, mettendo in pratica con successo l’accoglienza degli stranieri (pp. 134-9). Facendo poi riferimento agli scontri ideologici tra pagani e cristiani sulla superiorità delle rispettive opere rispetto a quelle altrui, l’analisi si concentra sui modi in cui nei secoli precedenti i parlanti lingua greca si ponevano nei confronti delle credenze religiose degli altri popoli. Fra le altre, viene individuata in Erodoto la pratica di «vie di mezzo conciliatorie», non diversamente dalle forme di mediazione seguite in un primo momento anche da alcuni cristiani come San Paolo (pp. 145-50). È proprio in chiusura di questo capitolo e dell’intero volume che, in maniera del tutto significativa e ad eccezione di quanto fatto nel resto della ricerca, viene richiamata esplicitamente l’attenzione del lettore sulla possibilità di praticare il dialogo anziché il giudizio nei confronti della fede altrui (p. 156).

In conclusione, grazie a uno stile scorrevole e a una convincente interpretazione delle fonti, Andrea Cozzo offre uno studio dalla grande rilevanza e utilità per il lettore non esperto che vuole tornare al passato per guardare in modo diverso a certi aspetti della contemporaneità così da poterli comprendere con maggiore efficacia. Allo stesso tempo, Stranieri si rivela essere una risorsa preziosa anche per chi si occupa del tema dell’alterità all’interno del campo di indagine delle scienze dell’antichità, sia per la ricchezza di fonti analizzate che per la chiara visione d’insieme sul problema indagato. Entro l’area di civiltà greca sono individuati modi di pensare l’alterità e di relazionarsi con essa non univoci e nemmeno assoluti, ma opportunamente inseriti in un contesto di cui sono più volte sottolineate la varietà e la complessità, aspetto che dal mio punto di vista costituisce uno dei principali punti di forza dell’opera. Così, ad esempio, già alla fine del primo capitolo viene giustamente osservato che certi comportamenti presentati come exempla negativi possono essere letti come traccia di pratiche anche piuttosto diffuse, in una realtà in cui i rischi che gli stranieri potevano incontrare non sarebbero da considerarsi come eccezioni (pp. 27s), e in cui stranieri e meteci potevano provare una dolorosa insicurezza per via della loro mancanza di diritti, trovandosi a dover vivere secondo l’obbligo di «stare al proprio posto» in una condizione di marginalità (pp. 29-34). Il tema della sofferenza insita nella condizione dell’esule è ripreso peraltro anche in una delle sezioni conclusive del volume (pp. 121-34) in cui l’Autore esplora da un punto di vista linguistico le implicazioni emotive che la lingua greca contempla per chi viaggia lontano dalla propria patria (ad esempio, i phygádes sono etimologicamente collegati a phóbos, la stessa paura che Eschilo mette in scena a proposito della condizione delle Danaidi nelle Supplici), continuando così a ricostruire la realtà complessa che è tenuta presente durante tutto il suo lavoro.


Resenhista

Mattia Boscarino – Università di Pisa. E-mail: mattiaboscarino@gmail.com


Referências desta Resenha

COZZO, Andrea. Stranieri. Figure dell’altro nella Grecia antica. Di Girolamo, Trapani: DG Pocket, 2020. Resenha de: BOSCARINO, Mattia. Grecorromana. Revista Chilena de Estudios Clásicos. Santiago, v. 3, p. 154- 158, 2021.Acessar publicação original [DR]

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