Storia di donne e di uomini, di acque e di terre – BELLAFRONTE (CN)

BELLAFRONTE, E. Russo. Storia di donne e di uomini, di acque e di terre. Barletta: Editrice Rotas, 2009. Resenha de: GUANCI, Vincenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.

Il sale non è solo l’ingrediente per rendere “saporita” la nostra alimentazione quotidiana. Il sale è assolutamente necessario nell’industria chimica, nella concia delle pelli e, naturalmente, per la fabbricazione dei prodotti agroalimentari. Pervade la nostra vita quotidiana. Ma non da ora; fin dal Neolitico i gruppi umani scoprirono l’importanza strategica di una materia prima necessaria all’alimentazione e che, per di più, consentiva la conservazione dei cibi. La storia dell’umanità è punteggiata da alleanze e conflitti per il controllo della produzione del sale, che, fino a pochi decenni or sono, era monopolio statale, e non solo in Italia.

Al museo della salina di Margherita di Savoia si impara la storia.  La storia del sale e delle saline, la storia di Margherita di Savoia, delle sue donne, dei suoi uomini, dei suoi bambini, del loro lavoro, della loro vita.

Questo ci dicono e ci fanno capire Francesca  Bellafronte ed Enzo Russo con il loro libro-catalogo del museo, Storia di donne e di uomini, di acque e di terre, editrice Rotas, Barletta, 2009.

La felice scelta degli autori è quella di dare al libro un’impostazione di tipo didattico.

Innanzitutto, la salina di Margherita di Savoia è raccontata secondo una struttura “presente-passato-presente”, che con tutta e immediata evidenza dà conto  dei motivi per cui oggi valga la pena di studiare la storia di una realtà importante come la salina.

In secondo luogo, le difficoltà del testo storiografico sono stemperate attraverso l’uso della domanda e della  risposta. Intendiamo dire, per esempio, che un testo descrittivo-argomentativo con un intrinseco rischio di forti asperità lessicali e concettuali,  come quello sulle innovazioni tecniche nel XIX secolo, viene invece smontato, tematizzato, problematizzato e risolto con risposte relativamente brevi e piane a dieci domande:

  • perché nel primo trentennio del XIX secolo prese corpo l’ipotesi di bonifica del lago Salpi?
  • Quali conseguenze produsse la riduzione della profondità del lago?
  • Quale problema destava più preoccupazione?
  • Come si intervenne per risolvere questi problemi?
  • Quale era il progetto di Afan de Rivera?
  • Gli obiettivi di Afan de Rivera furono raggiunti?
  • Come si presentava il nostro territorio a metà Ottocento?
  • Quali erano le vie di comunicazione a metà Ottocento?
  • Qual era la produzione della salina?
  • Come si spiega l’incremento produttivo di inizio Novecento?

In terzo luogo, le tantissime riproduzioni di documenti d’archivio, carte topografiche, fotografie d’epoca, non svolgono una mera  funzione esornativa bensì costituiscono, assieme ai testi, parte integrante del materiale per la costruzione della conoscenza storica di chi legge e studia.

Infine, due testi introduttivi e un glossario forniscono gli strumenti cognitivi e concettuali per seguire senza difficoltà, sia la visita al museo sia la  sola lettura del libro.

Si inizia con la descrizione della salina oggi, all’inizio del XXI secolo: dove si trova, come funziona, con quali macchine; ci si sofferma sui procedimenti di produzione del sale, si scopre come viene impacchettato, come viene trasportato nelle varie parti d’Italia e del mondo; si arriva fino alle innovazioni più recenti, quale, per esempio,  l’arricchimento con lo iodio  introdotto da una legge del 2005.

La seconda parte del volume racconta il passato, la storia della salina. Si va  dalla prima attestazione documentaria di una salina nella Tavola Peutingeriana, che nel XII secolo segnala la presenza di saline sulla costa adriatica già in epoca romana, fino  agli anni Sessanta del Novecento. Ma alcune tracce la fanno risalire al Neolitico; si tratta delle cosiddette “vasche napoletane”. Cosa sono? Ce lo spiegano  F. Bellafronte e E. Russo: “due canalette circolari, scavate su una piattaforma di pietra nell’età del Bronzo, rinvenute nei pressi del canale Carmosino. Probabilmente erano utilizzate per lo scolo dei sali di magnesio, più amari, dai cumuli di cloruro di sodio.”

La modernità irrompe nella salina in epoca illuminista con l’intervento del Vanvitelli, ingegnere e architetto, colui che aveva progettato la reggia di Caserta, chiamato dal re di Napoli, Carlo III di Borbone, ad ammodernare e riorganizzare la salina, per aumentarne la produzione. Nel XVIII secolo, ci ricordano gli autori, le “tecniche produttive erano rudimentali e basate sull’impiego di attrezzi manuali, per lo più azionati con la forza della braccia. L’energia animale era impiegata nel trasporto del sale: i cavalli trainavano i carretti carichi di sacchi di sale fino alla spiaggia, dove prendevano la via del mare. L’energia solare ed eolica, allora, come oggi, erano le principali protagoniste del processo di salinazione, attraverso l’evaporazione dell’acqua”. Vanvitelli risistemò le vasche, “attraverso l’eliminazione degli isolotti di terra, il livellamento del fondo e il consolidamento della base degli argini d’argilla, mediante l’inserimento di una fila di tufi.” Ma, naturalmente, non si limitò a questo; rese più vivibile l’ambiente, ampliò la base produttiva della salina e, soprattutto, introdusse le “coclee di Archimede”, chiamate volgarmente “trombe”, macchine che sostituivano i tradizionali “sciorni”.

Lo sciorno, ci spiegano gli autori, “consiste[va] in una specie di parallelipedo aperto su un lato, della capacità di due secchi, fissato ad un treppiede per mezzo di una fune. Veniva azionato a braccia: ci voleva un movimento continuo e ripetuto dei salinieri, per trasferire tutta l’acqua da un vaso all’altro” (cfr. illustrazione a p. 61). Le coclee di Archimede permettevano di “sollevare più facilmente l’acqua, in tempi più veloci e con minore fatica, superando i dislivelli altimetrici tra gli scaldati ed i campi” (p. 65) comportando anche una notevole riduzione di manodopera.

E così via. Il racconto del passato della salina di Margherita di Savoia viene presentato prestando sempre molta attenzione al contesto storico del tempo, spiegando le trasformazioni locali nella salina con il quadro politico, economico, sociale e culturale italiano ed europeo. Insomma, un esempio di come si può studiare la storia locale senza scadere nel localismo sterile che non ci fa capire i veri movimenti della storia.

Il libro si conclude con una bella carrellata di fotografie sulla evoluzione delle tecniche nel XX secolo rispetto alle problematiche di sempre della salina:

  • raccolta e ammassamento del sale;
  • pesatura e confezionamento;

L’accelerazione novecentesca appare in tutta la sua evidenza dalle fotografie degli zappasale al lavoro nei primi anni del Novecento, alla prima introduzione degli elevatori meccanici negli anni Dieci, alla velocizzazione con i nastri trasportatori  negli anni Trenta,  alla foto del capannone Nervi in funzione fino agli anni Settanta.

Insomma una pubblicazione di storia locale e di storia generale, di storia della tecnica e di storia sociale; una guida per una visita al museo e un percorso di educazione al patrimonio culturale. Impreziosita, tra l’altro, dall’accuratezza della grafica che rende leggibili le riproduzioni cartografiche e godibili quelle fotografiche.

Del resto già Giorgio Nebbia nella sua ricca e impegnata presentazione iniziale ci ricorda che oggi – dati del 2007 – nel mondo si producono ancora circa 250 milioni di tonnellate di sale, a testimonianza della sua importanza economica.

“Esiste tutta una economia e fiscalità del sale, una merce così importante – scrive Nebbia – che tutti i potenti ne hanno approfittato per ricavare imposte e per instaurare monopoli sul suo commercio. Salaria, Salina, Sale, Saline… sono i nomi di località e strade associate alla produzione e al commercio del sale. Plinio ricorda le saline di Taranto, di cui oggi resta traccia soltanto in un toponimo. E al sale era associato anche il nome di Salapia, Salpi, la misteriosa città che sorgeva proprio alle spalle della più grande salina del Mediterraneo, quella di Margherita di Savoia.” (p. 6).

Appunto a questa è dedicato il Museo, a parere dello stesso Nebbia di grande interesse per almeno tre motivi:

costituisce un opportuno riconoscimento dell’importanza dell’energia solare, il cui impiego nella salina di Margherita ammonta su base annua all’equivalente energetico di tre milioni e mezzo di tonnellate di prodotti petroliferi.

Mostra la lenta formazione del sale nelle saline solari, la nascita di cristalli diversi, mano a mano che con l’evaporazione si separano i vari sali. “Uno spettacolo che meriterebbe un film, tanto più che simili fenomeni si verificano nelle pentole, quando bolle l’acqua per la minestra, sulle serpentine degli scaldabagni …”

Recupera  e valorizza la conoscenza di una peculiare industria chimico-mineraria, tipica del Mezzogiorno.

“Il recupero della storia e delle tecniche salinare di Margherita contribuirà – secondo Nebbia – a conservare e far crescere la conoscenza e l’orgoglio operaio e imprenditoriale proprio in Puglia, tanto più che le saline di Margherita sono state ricche di innovazioni sia meccaniche, sia chimico-industriali …”

Enzo Guanci – Membro della segreteria nazionale di Clio ’92, Associazione di insegnanti e ricercatori sulla didattica della storia. Ha insegnato Storia e ricoperto il ruolo di dirigente scolastico nella scuola secondaria di II grado. Recentemente ha curato, assieme a Carla Santini, il volume Capire il Novecento, FrancoAngeli editore, Milano, 2008. Svolge attività di formazione, ricerca e aggiornamento sulla didattica della storia.

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The Idea of Order: The Circular Archetype in Prehistoric Europe | Richard Bradley

Richard Bradley é professor de Arqueologia na Universidade de Reading, especializado em estudos da pré-história europeia, focando em paisagens pré-históricas, organização ritual e social e arte rupestre. Entre seus últimos livros publicados estão The Prehistory of Britain and Ireland (2007) e Image and Audience: Rethinking Prehistoric Art (2009). Sua maior contribuição à área é o livro The Significance of Monuments: On the Shaping of Human Experience in Neolithic and Bronze Age Europe (1998). Neste livro, é lançada a ideia de que a escolha e a predominância de um formato circular para a construção de monumentos na Europa Atlântica durante o Neolítico estaria ligada à cosmovisão comum das populações pré-históricas em contato.

A busca para compreender a escolha do que o autor denomina como “arquétipo circular” [1] é constante em suas publicações, e é ela que pauta todo o livro, afastando-se um pouco da noção de cosmovisão, e observando fatores mais práticos e do cotidiano, como, por exemplo, a influência do ambiente habitado e conhecido na construção de casas e monumentos. Como o próprio autor pontua: este não é um livro sobre um período ou um lugar; é sobre uma ideia (BRADLEY, 2012:3).

As ideias de um padrão circular, assim como seus questionamentos do início do livro, na verdade, costuram toda a obra, por entre seus dez capítulos: por que tantos povos na pré-história europeia construíram monumentos circulares? Por que escolher as casas redondas enquanto outras comunidades as rejeitavam? Por que havia pessoas que habitavam casas retangulares e frequentemente enterravam seus mortos em montículos circulares ou cultuavam seus deuses e ancestrais em templos circulares? (BRADLEY, 2012: 3).

Obviamente, o leitor que procura respostas acabará o livro sobrecarregado, devido à quantidade de detalhes e levemente frustrado: há mais questionamentos do que respostas. É uma recorrência ao longo do livro. As inquietações de Richard Bradley perpassam estudos etnográficos na América e África além de análises comparativas que vão desde o Neolítico à Irlanda Medieval, passando por sítios da Espanha, Portugal, França, Sardenha, Irlanda, Inglaterra e Escandinávia. Lembrando que seu foco de análise é a forma circular e o seu longo período de existência, não negligenciando o tipo de suporte material: seja na construção de casas e monumentos, ou na decoração de objetos (em cerâmica e metal).

Devido à complexidade do assunto em questão e até como uma forma de crítica às duas posições entendidas como antagônicas nos estudos de pré-história, o autor faz um julgamento claro em relação à divisão ainda existente na abordagem dos estudos na área. Os processualistas, que tendem sempre às generalizações e à construção de grandes modelos de análise; e os pós-processualistas, que enfatizam sempre estudos de caso e análises particulares, que acabam por demonstrar que o modelo generalizante se encontra equivocado. Assim, R. Bradley preferiu seguir uma sequência lógica, movendo-se sempre de um questionamento generalizante para os estudos de caso (o particular), não deixando nunca de levantar os pontos de interesse mais amplos e de esquematizar melhor suas exposições ao final dos capítulos da maneira mais didática possível.

O autor, ainda, demonstra sua preocupação com a autocrítica em relação à escolha dos seus métodos de análise, dedicando um espaço nos capítulos para questioná-los antes mesmo que o leitor o faça – como é o caso, por exemplo, do segundo capítulo, no qual ele questiona o uso de dados etnográficos. Este tipo de abordagem só faz com que a obra se torne irritantemente genial, pois mostra o trabalho massivo para a construção do livro, a preocupação com os dados e a erudição do autor, assim como incita o leitor a pensar – uma proliferação de questionamentos ao longo de todo o livro.

Tendo em vista a amplitude espaço-temporal da sua análise, Richard Bradley teve a preocupação de esquematizar, no seu primeiro capítulo, como funciona a organização do seu argumento, partindo da análise de casas circulares e sua distribuição pela Europa, utilizando dados etnográficos e observando artisticamente os estilos curvilíneo e linear, correlacionando-os com escolhas de moradia do mesmo período.

Na segunda parte do livro, é observada a relação entre as moradias (casas e assentamentos) e a construção de monumentos e, na terceira parte, foi analisada a relação e a concomitância das estruturas curvilíneas e retilíneas, não deixando de investigar as circunstâncias em que o modelo circular foi abandonado.

O autor inicia seu livro descrevendo e analisando um sítio na Irlanda, um local conhecido pela possível ocorrência do festival Céltico de Beltane, um lugar antigo para reuniões, associado ao culto Druídico do Fogo e ao trono dos Reis Irlandeses. Hill of Uisneach, um centro sagrado da Irlanda em tempos pagãos, de acordo com o folclore e evidências literárias. Esse sítio está situado em uma colina que domina a paisagem que a cerca, como o centro da mesma. De seu topo, pode-se observar os vários condados irlandeses. Possui mais de 20 monumentos antigos, entre tumbas megalíticas, montículos funerários, aterros e fortificações anelares, com datações que variam entre o Neolítico e a Idade do Bronze no caso das construções, e da Idade do Ferro ao Medievo no caso das (re)utilizações encontradas.

Recentemente, o sítio teve uma tradição inventada [2] : o Fire Festival (Festival do Fogo) que envolve a construção de uma série de prédios de madeira circulares (temporários), com algumas estruturas decoradas com desenhos curvilíneos – uma decisão deliberada dos criadores do evento para refletir a configuração dos monumentos do lugar, que, não por coincidência, é a configuração tradicional em toda Irlanda, desde as tumbas do Neolítico, passando pelos centros reais da Idade do Ferro até os monastérios mais antigos.

Ao adentrar pela análise da construção dos monumentos antigos, o autor expõe um problema: a sequência extensa desses monumentos. Eles possuem uma longa história, e como o autor explicita, não é fácil analisá-los quando muitos pré-historiadores são especialistas em períodos específicos. Torna-se clara sua crítica, talvez um pouco generalista e exagerada, aos pós-processualistas e ao seu alto grau de especialização. Ele entende que o problema deve ser sanado ao se olhar mais largamente, espacialmente e temporalmente – o que, a exemplo deste livro, é fruto de um trabalho árduo que poucos provavelmente têm interesse em fazer.

A partir da análise dos eixos de preferências entre os padrões retilíneos e curvilíneos, fica claro seu posicionamento. Para o autor, a construção da arquitetura curvilínea seria uma escolha; uma alternativa aos modelos lineares “tradicionais”. A noção de escolha deve ser entendida relacionada ao conceito de agência – que engloba outros diversos conceitos e enfoques, tais como ritual, monumentalização, práticas funerárias, apreensão do mundo via sentidos, cadeia operatória, noções de memória, ancestralidade e identidade.

Deve-se considerar no conceito de agência que o corpo é o principal locus físico da experiência e a cultura material é o meio pelo qual se estabelece a comunicação, cria e reproduz o simbólico. É, portanto, um meio para compreender as relações sociais e os mapas cognitivos e, quando aplicado ao coletivo, implica em força para a construção de noções partilhadas do social e do simbólico, por meio da monumentalização e da construção ritual (OWOC, 2005; CUMMINGS, 2003; BAHN & RENFREW, 2005). Deste modo, o autor entende que o contraste entre as formas era significativo, uma vez que elas indicam ideias particulares de ordem, não estando, necessariamente, ligadas somente à questão da funcionalidade, mas com forte carga simbólica.

Assim, as construções seriam a concretização da experiência humana e do pensamento simbólico na cultura material, refletindo os componentes do ambiente construído que cercava as populações. Se faz crucial, entretanto, atentar para o fato que as percepções variam, mesmo entre comunidades que habitam um mesmo espaço: a interpretação de um fenômeno, assim como do ambiente ao seu redor, varia. Seguindo esse raciocínio, a construção dos monumentos seria consequência direta de crenças compartilhadas para a construção e utilização de edificações domésticas: elas teriam influenciado as percepções de mundo das populações pré-históricas [3].

No terceiro capítulo, é analisado o contraste entre as formas curvilíneas e retilíneas na arte. Poderiam, por exemplo, estar ligadas a noções de sagrado e secular, público e privado. A observação vem a partir da reinterpretação da “arte Celta” [4 ]elaborada em metal, da Idade do Ferro. Os objetos desse período que contém temática curvilínea são provenientes de contexto religioso/ritual, mesma característica dos contextos de construção de monumentos circulares no Neolítico e Idade do Bronze.

  1. Bradley afirma sua posição exemplificando uma “continuidade” do padrão curvilíneo com a construção do Catolicismo na Irlanda Medieval e o padrão circular associado à na construção de igrejas e monastérios, assim como da criação da “Irish Cross”. Acredito, entretanto, que seja necessário considerar a possibilidade de ser somente uma continuidade de uma tradição para adaptação local e não, necessariamente, uma escolha deliberada baseada em um simbolismo milenar que tenha sobrevivido sem grandes alterações desde a pré-história.

Um questionamento interessante é feito no capítulo quatro: é necessário levar em consideração a audiência para a qual o monumento foi feito – entendendo que a maioria das pessoas só teria acesso à parte externa dos monumentos e a maioria dos estudos não leva isso em consideração; há uma crítica excessiva à muita atenção prestada ao interior dos monumentos e à pouca ênfase dada ao exterior – formato e direcionamento, que muitas vezes lembram moradias e ocupações domésticas. Neste ponto, se faz necessário abrir uma ressalva, pois a crítica do autor está inserida no contexto de estudos da arqueologia da paisagem e é consequência direta da forma como ele entende e analisa os monumentos. A arqueologia da paisagem é um campo da Arqueologia que estuda a forma como as pessoas do passado moldavam sua paisagem e nela viviam. Assim, ao ter como foco os monumentos e assentamentos que se integram aos traços geográficos e ambientais, é possível buscar entender o âmbito socioeconômico para, consequentemente, chegar-se ao cultural. A paisagem, desse modo, é entendida como uma construção sociocultural. Assim, analisa-se a inter-relação entre os sítios e os espaços físicos que os separam a partir da análise extra-sítio (ver Anshuetz et al 2001; INGOLD, 1993; TILLEY, 1994; BENDER, 1992).

Ao introduzir no capítulo cinco a análise dos monumentos em pedra, trabalhando com noção de intencionalidade e escolha do material [5], leva em consideração a sua durabilidade (ver PEARSON & RAMILSONINA, 1998) e os compara com os monumentos de madeira, deixando explícita a diferenciação do foco de cada tipo de monumento: os de madeira seriam feitos para reuniões entre os vivos, e os de pedra, teriam ligação com os mortos e ancestrais. Além disso, é introduzido o questionamento sobre a datação das marcações feitas em terrenos (trabalhos de terraplanagem e construção de fossos) reconhecidas como henges: alguns deles seriam posteriores aos monumentos (círculos de pedra e madeira) que estão atualmente relacionados (ou assim era entendido).

Dessa forma, a inserção dos henges no contexto dos círculos de pedra, por exemplo, demonstra uma provável mudança no foco ritual desses locais, provavelmente ligados aos ritos de passagem (ver GENNEP, 1909; TURNER, 1969) com inversão de convenções sociais, transformação do estado pessoal e manutenção de forças dentro do círculo. Indo além, alguns desses henges e trabalhos de terraplanagem teriam o intuito de barrar a visão do interior dos monumentos, revelando a necessidade de uma audiência fechada, caracterizando uma hierarquia social, onde muitos construíam, mas poucos tinham acesso direto (seja visual, seja físico) ao centro do ritual [6] – e, por que não, da paisagem ritualizada.

Um dos exemplos usados pelo autor é o caso de Stonehenge, provavelmente o círculo de pedra mais conhecido, localizado na Inglaterra. Sua fama vem do fato de ser uma construção massiva em monólitos, que chama a atenção como centro de um microcosmo do mundo e dominando a paisagem que o cerca. A comoção maior surgiu no século XVIII com os antiquários [7], como John Aubey e William Stukley, que interpretaram o monumento erroneamente e acabaram criando uma tradição na qual ele seria construção feita pela população celta, voltado para atividades rituais: um templo dos druidas, popularmente conhecidos como “sacerdotes celtas” [8].

Os antiquários foram percussores/fomentadores de um movimento conhecido como Celtomania, intrinsecamente ligada ao Celtismo, conhecido como a invenção de uma “tradição” celta a partir dos antiquários do século XVIII, que influenciou fortemente os movimentos nacionalistas na Europa e desencadeou o fenômeno da Celtomania, no século XIX. Ligada ao imaginário popular, ao mítico, ao fantástico, baseou-se no Celtismo e nas lendas medievais. Atualmente, existe uma cultura pop com distorções ainda maiores, com ampliação das imagens criadas e com uma forte idealização mítica. Como consequência, foi criada uma alegoria do que teria sido a sociedade celta, com implicações políticas e identitárias fortes e que até hoje influencia religiosidades neopagãs – que (re)interpretam e (re)utilizam monumentos pré-históricos como sendo representantes de uma crença milenar e ancestral.

Apesar de sua importância indiscutível ao longo de séculos, Richard Bradley oferece muito pouco espaço para analisar Stonehenge. Com monólitos massivos moldados e cuidadosamente conectados, como peças de carpintaria, fazendo a ocorrência incomum para o tipo de círculo de pedras, o autor traz uma nova ideia, de que Stonehenge teria sido concebido como uma cópia de um edifício de madeira doméstico, mas infelizmente deixa o leitor perdido, no meio do questionamento, sem desenvolver mais sua teoria e sem proporcionar maiores detalhes.

Na penúltima parte do livro, que engloba os capítulos sete, oito e nove, o autor trabalha com a análise da existência das construções em formas retilíneas e retangulares em concomitância com as circulares. Seja por justaposição ou interação dessas estruturas, examina o motivo de a construção circular ter sido afetada à medida que a construção retangular fica mais proeminente. Essa análise se dá pelo estudo de caso em diferentes espacialidades no mesmo recorte temporal: Idade do Ferro na Sicília e nas Ilhas Britânicas, além da cultura dos Castros na Península Ibérica; e por meio de estudos etnográficos utilizando exemplos africanos.

No último capítulo, o autor faz um apanhado geral das ideias expostas em seu trabalho, traçando um elo comum entre os casos analisados: a experiência de viver em casas redondas seria uma ideia particular nas comunidades da pré-história europeia e seu formato seria uma escolha importante, uma vez que os monumentos circulares não foram substituídos por monumentos retilíneos e, quando a forma circular foi suprimida das casas, teria provavelmente ocorrido por pressão política; e teria sido direcionada, então, para a construção de templos. Apesar de possuírem um layout mais prático, as casas retangulares não foram completamente adotadas por comunidades sedentárias.

A escolha do autor pelo estudo e ênfase nas moradias e construções domésticas, (as casas), pode não ficar muito clara para o leitor até o final do livro. Ele parte sempre das casas como unidade principal de análise, mesmo para casos comparativos. Isto se deve ao fato que, para ele, é possível enxergar nos monumentos uma tentativa de utilizar o “protótipo” doméstico em escala aumentada. Como já exposto, esse modelo original doméstico influenciaria toda a visão de mundo e as escolhas simbólicas e rituais das populações, fazendo com que fosse massivamente reinterpretado ao longo do tempo, por diversas comunidades.

Após esta afirmação, permanece o questionamento: não seria simplificar em demasia o motivo e o poder de escolha de uma população a partir única e exclusivamente da influência do padrão de construção que a moradia possuía? Como é mostrado no próprio livro, as escolhas dos tipos de moradia são influenciadas também pela relação do homem no ambiente e na paisagem que o cerca. Se levarmos em consideração os estudos de paisagem, é possível percebê-la como dinâmica: o ambiente influencia a ação humana, as casas influenciam os monumentos, os monumentos influenciam as casas … e vice-versa.

Sendo assim, não seria mais lógico considerar a paisagem, na qual as casas e os monumentos estão inseridos, como uma plataforma interativa para a experiência humana, constantemente recriada por meio de construções físicas, metafísicas e simbólicas que alterariam continuamente o relacionamento e a percepção daqueles que nela se engajavam, criando a percepção humana de estar no mundo (TILLEY, 1994; INGOLD, 1993) e, isso sim, influenciar no padrão de construção das casas e monumentos?

Essa exposição só vem demonstrar o uso diferenciado do espaço na Europa, que tem a ver com o ambiente, a paisagem, a economia e o assentamento das populações – o que levou a reiterar uma das poucas conclusões do livro: há um padrão para as construções e uma dualidade – já exposta por Cunliffe (2008) – entre dois eixos da Europa. A arquitetura curvilínea é mais comum nas áreas conectadas pelo mar: oeste do Mediterrâneo e a costa do Atlântico, com poucos exemplos na França. Essas áreas eram extremamente conectadas durante o Neolítico e a Idade do Bronze e depois por contatos transoceânicos na Idade do Ferro e no Período Romano (CUNLIFFE, 2001). Sua caracterização não concretiza um dado que as comunidades ali presentes possuíam, reconheciam e partilhavam de uma origem comum, mas evidencia as trocas de longas distância. Já a arquitetura retilínea é mais comum no eixo da Europa continental, central e norte, enfatizada pelos contatos por terra, exemplificando uma diferença na forma de conceber e lidar com o mundo: na terra, contatos em redes, caminhos e trilhas; enquanto no eixo marítimo a paisagem é mais aberta, com o contato diferenciado entre o indivíduo, o horizonte e o céu – o que, certamente, influenciou na forma de construir, idealizar e habitar das populações.

The Idea of Order: The Circular Archetype in Prehistoric Europe é uma obra extensa, extremamente detalhada e descritiva, exigindo atenção e dedicação total do leitor, de preferência, com uma leitura lenta, atentando sempre para as correlações e os questionamentos que seguem encadeados ao longo dos nove capítulos e que são amarrados no capítulo final do livro. Ao finalizá-lo, o leitor dificilmente irá concluir, devido à enxurrada de questionamentos explicitados ao longo do texto, se existiu (ou não) um padrão circular presente no inconsciente coletivo e partilhado pelas populações préhistóricas através de gerações ou ainda se a ideia particular de ordem que sintetizaria a concepção circular do espaço seria fruto de uma consciência comum às populações préhistóricas da faixa Atlântica. O máximo que se poderá concluir é, como o próprio autor expõe: que não é possível afirmar, mas é válido fazer a pergunta.

Notas

1. Vale à pena salientar que para R. Bradley, a noção de arquétipo ultrapassa o significado basilar ligado a: padrão, modelo ou até paradigma. No curso de suas obras, o autor vai indicando que sua escolha se aproxima mais do conceito Junguiano de arquétipo, que seria um modelo de construção circular presente no (in)consciente coletivo das populações pré-históricas da faixa atlântica.

2. Sobre tradição inventada ver HOBSBAWM & RANGER, 1992.

3. Para o estudo mais aprofundado sobre a vida doméstica e sua influência, ver BRADLEY, 2005.

4. Tradicionalmente conhecido como arte do período La Tène (ver CUNLIFFE, 1997). 5 Relacionamento entre sujeito e objeto ver HODDER, 1995.

6. Entende-se como ritual atos que não fazem parte de atividades cotidianas e, em alguns casos, não domésticas que se comunicam através de mídia distinta para criar uma noção de tempo diferenciada: a fusão do passado no presente, com intuito de manter a ordem social (BELL, 1992).

7. Antiquarismo: movimento do século XVIII/XIX, anterior à arqueologia, composto por estudiosos, curiosos e colecionadores que tinham interesse nas relíquias do passado (Cf Trigger, 2004).

8. Para maiores informações, ver CUNLIFFE, 2010.

Referências

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Ana Carolina Moliterno Lopes de Oliveira – Mestranda em História Social na Universidade Federal Fluminense (UFF) NEREIDA/UFF. E-mail: [email protected]


BRADLEY, RICHARD. The Idea of Order: The Circular Archetype in Prehistoric Europe. Oxford. Oxford University Press, 2012. Versão e-book. Resenha de: OLIVEIRA, Ana Carolina Moliterno Lopes de. Brathair – Revista de Estudos Celtas e Germânicos. São Luís, v.14, n.2, p. 129-138, 2014. Acessar publicação original [DR]