Crisi. Come rinascono le nazioni / Jared Diamond

DIAMONT Jared Crisi. Come rinascono le nazioni
Jared Diamond / Foto: Lavin Agency /

DIAMOND J Crisi Crisi. Come rinascono le nazioniJared Diamond, noto geografo, antropologo, ornitologo americano, meglio noto al pubblico italiano per il suo volume più famoso, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, pubblicato nel 1997, si è costruito con questo testo, a pieno diritto, anche la fama di storico e di divulgatore. In seguito adottando un metodo di analisi multidisciplinare, da lui stesso definito pensiero orizzontale, che dispone lo scienziato all’integrazione di ambiti apparentemente separati, si è applicato allo studio della questione ambientale con il volume Il collasso (2005).

Nell’ultimo suo lavoro, di cui diremo in questa recensione, l’autore spostando la sua attenzione sulla storia più recente, ha analizzato il concetto di crisi attraverso lo studio di sette casi, riguardanti la Finlandia nel periodo della guerra con l’Urss, il Giappone nel periodo Meiji, il Cile di Pinochet, l’Indonesia degli anni Sessanta, la Germania e l’Australia del secondo dopoguerra, gli Stati Uniti nel periodo storico attuale. Il volume intitolato Crisi. Come rinascono le nazioni è stato pubblicato nel 2019 dall’editore Einaudi.

Il termine crisi, utilizzato in molteplici accezioni e quindi applicabile in diversi ambiti, nella sua origine etimologica greca afferisce “all’area semantica di separare, decidere, distinguere. Quindi potremmo pensare alla crisi come a un momento di verità, un punto di svolta in cui la differenza fra la realtà che precede quel momento e la realtà che lo segue è molto più marcata che nella maggior parte degli altri momenti” (pag. XIX).

Questa è la definizione dalla quale prende spunto Diamond. Ma l’aspetto più originale di questo corposo lavoro risiede nella scelta dell’autore di adottare la prospettiva delle crisi individuali, che capitano ad ognuno di noi nel corso della vita, per applicarla alle crisi delle nazioni. E lo fa in modo coerentemente scientifico, accogliendo le tesi della cosiddetta terapia della crisi, una teoria ed una pratica terapeutica ideata dallo psichiatra Erich Lindemann che si sforzava di risolvere in tempi brevi le angosciose condizioni di crisi esistenziali dei propri pazienti.

Diamond, partendo da alcuni fattori che possono rivelarsi utili al superamento delle crisi individuali, costruisce a specchio un elenco di fattori che dovrebbero consentire di rispondere alle crisi collettive di livello nazionale e sovranazionale. Ma guardiamoli più da vicini questi fattori (a sinistra quelli che riguardano l’individuo, a destra quelli che riguardano invece le nazioni:

  1. Riconoscimento dello stato di crisi / consenso circa lo stato di crisi nazionale. / accettazione della responsabilità nazionale.
  2. Tracciare un confine / confini chiari per delineare i problemi nazionali da risolvere.
  3. Chiedere aiuto agli altri / richiesta di aiuto materiale ed economico ad altre nazioni.
  4. Gli altri come modello / le altre nazioni come modello per la risoluzione dei problemi.
  5. Forza dell’io / identità nazionale.
  6. Capacità autocritica / capacità di autovalutazione nazionale onesta.
  7. Esperienze di crisi pregresse / esperienza storica di crisi nazionali precedenti.
  8. Pazienza / presa in carico del fallimento nazionale.
  9. Flessibilità / flessibilità nazionale in situazioni specifiche.
  10. Valori fondanti / valori fondanti nazionali.
  11. Libertà dalle costrizioni / libertà da costrizioni geopolitiche.

Possono i fattori individuali adattati e applicati alla storia delle nazioni rivelarsi utili per la comprensione degli esiti delle crisi nazionali?  Come è facilmente comprensibile l’adattamento a specchio dei fattori di crisi dall’individuo alle nazioni non si rivela così automatico e tuttavia il tentativo portato avanti da Diamond è in grado di suscitare la curiosità dei lettori e non è privo di interesse per lo storico.

Per portare avanti le sue tesi l’autore prende in considerazione i sette casi di crisi che abbiamo anticipato in precedenza che hanno caratteristiche diverse e riguardano nazioni le cui storie sono molto differenti tra loro.

Non abbiamo modo in questa recensione di esaminarli tutti nel dettaglio, anche per non togliere al lettore il piacere di seguire Diamond nelle sue analisi. Ci soffermeremo quindi solo sull’esempio della storia del Giappone.

Fino al 1853 questo paese somigliava molto all’Europa medievale con una struttura gerarchica di tipo feudale, controllata al vertice dallo shogun, proprietario di larga parte delle terre e dai signori, i daimyo, soggetti a lui. L’imperatore, figura fantoccio, era sostanzialmente privo di potere reale. Rispetto agli stranieri il Giappone mantenne, fino alla metà dell’Ottocento contatti limitati e sufficientemente controllati dal governo. Questo equilibrio si ruppe con l’intervento militare degli Usa che cercavano di rompere l’isolamento degli shogun. Si apriva quella che può essere considerata una fase di crisi acuta per la nazione nipponica che durò circa quindici anni e si tradusse in un capovolgimento dei rapporti interni di potere, un cambiamento dei rapporti del Giappone con il mondo esterno e più in generale una trasformazione del paese. Fu ripristinato il potere reale dell’imperatore, fu avviata una politica di riforme di stampo occidentale e fu progressivamente attenuato l’isolazionismo commerciale del Giappone.

Al termine della sua narrazione degli eventi e dei processi che interessarono questa nazione dal periodo dello shogunato al periodo cosiddetto Meiji Diamond ci mostra anche quali, tra gli indicatori del suo modello, possono aiutarci a comprendere il comportamento adottato dalla nazione nipponica per uscire dalla crisi di quegli anni.

Il Giappone si distingue, più degli altri paesi presi in considerazione, per aver saputo prendere come modello le altre nazioni per la risoluzione dei problemi (Fattore n.5 dell’elenco). La Costituzione come l’organizzazione militare e il codice civile prendono infatti spunto dai modelli tedeschi, inglesi, americani. Riesce inoltre a mettere in atto una capacità di autovalutazione nazionale realistica e onesta (Fattore n.7 dell’elenco) riconoscendo che “i barbari erano molto più forti e che l’unico modo per rafforzarsi era proprio imparare da loro”. Dimostrò infine di essere in grado “di tracciare un confine e di adottare il cambiamento in modo selettivo (Fattore n.3). Molti furono infatti gli ambiti della società nipponica interessati dal rinnovamento, da quello economico a quello giuridico, militare, politico, sociale e tecnologico; ma il Periodo Meiji seppe anche conservare importanti prerogative del Giappone tradizionale, come l’etica confuciana, la venerazione nei confronti dell’imperatore, l’omogeneità etnica, la pietà filiale, lo scintoismo e il sistema di scrittura nazionale”.

Con lo stesso metodo di narrazione storica, di spiegazione e di interpretazione comparativa l’autore si avvicina alla storia degli altri paesi presi in considerazione. E non si può non osservare la sua abilità di scrittura, un piacevole e pacato tono espositivo, la tendenza a mescolare esperienze personali e private con argomentazioni di ordine generale che mantengono viva l’attenzione del lettore.

Ma non è solo sulla storia passata che Diamond mette alla prova il suo modello interpretativo. Nella terza parte del libro prende in considerazione le crisi in corso su scala nazionale del Giappone e degli Stati uniti e le sfide che il mondo nella sua dimensione globale dovrà affrontare per evitare nuove crisi.

Emergono così, in tutta la loro evidenza problemi ben noti nel presente e che riguardano per il Giappone il debito pubblico, il ruolo della donna in una società avanzata, il calo e l’invecchiamento demografico, il rapporto con la Cina e la Corea, la gestione delle risorse naturali, mentre per gli Usa l’autore sottolinea in particolare “il crescente e preoccupante deterioramento della nostra capacità di raggiungere il compromesso politico” causa di “una polarizzazione, di una intolleranza e litigiosità della società americana” partita dalla classe politica per estendersi all’elettorato e in tutti gli ambiti della vita sociale.

L’analisi dei fattori di crisi si estende infine, nell’ultima parte del libro, ai possibili scenari futuri e ai fattori che “minacciano le popolazioni della terra e i nostri standard di vita in generale…e rischiano di minacciare a livello globale la sopravvivenza stessa della civiltà.” Diamond ritiene di identificare questi fattori di potenziale crisi nell’impiego di armi nucleari, nei cambiamenti climatici, nell’esaurimento delle risorse del pianeta e nelle disuguaglianze negli standard di vita.

Diamond ha scritto questo libro nel 2019 a breve distanza dallo scoppio della drammatica crisi pandemica che ha colpito non le singole nazioni ma l’intero pianeta. Ci potremmo chiedere se questo modello di interpretazione della storia, alla luce del concetto di crisi, ci potrà essere utile anche per il superamento di questa crisi pandemica. La risposta ci viene dallo stesso autore in una serie di articoli pubblicati negli ultimi mesi sulla stampa internazionale e italiana. I fattori di potenziale crisi nel prossimo futuro, dianzi esposti, e cioè armi nucleari, clima, risorse del pianeta e disuguaglianze, sono ben più importanti che la pandemia: il Covid-19 non è che un piccolo cruccio momentaneo, ben più importanti saranno le conseguenze di un fattore di crisi come ad esempio il cambiamento climatico. Il saldo delle vittime umane provocate dal clima che cambia è già più pesante rispetto al saldo attuale delle vittime del Covid-19 e non basterà un vaccino per risolvere la crisi o meglio le crisi che il clima è in grado di produrre. Perché l’allarme su questo aspetto non è almeno pari a quello generato dal virus? Le pagine finali del libro, sempre sul filo della comparazione storica e dei possibili scenari futuri del mondo, pongono al lettore un interrogativo se cioè “le nazioni hanno sempre bisogno di una crisi per sentirsi motivate ad agire o sanno anche agire in modo preventivo”. Gli esempi proposti da Diamond in questo libro non risolvono la questione, nel senso che talvolta le nazioni hanno avuto la necessità di attraversare una crisi prima di adottare cambiamenti, talvolta invece hanno prevenuto la crisi adottando scelte che hanno permesso di evitarla. D’altronde è ciò che accade ai singoli individui che di fronte ad una possibile crisi nella loro esistenza talvolta giocano d’anticipo, talvolta riescono a reagire solo quando la crisi ci ha già travolti come ricorda un aforisma di Samuel Johnson:  “Credetemi, signore, quando un uomo sa che nel giro di due settimane sarà impiccato, la sua mente si concentra in modo meraviglioso”.

Giuseppe Di Tonto


DIAMOND, Jared. Crisi. Come rinascono le nazioni. Torino: Einaudi, 2019. 450p. Resenha de: DI TONTO, Giuseppe. Il Bollettino di Clio, n.14, p.153-156, dic., 2020.  Acessar publicação original

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L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea – BELLASSAI (BC)

BELLASSAI, Sandro. L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea. Roma: Carocci, 2012. 181p. Resenha de: DI TONTO, Giuseppe. Il Bollettino di Clio, n.9, p.79-82, feb., 2018.

Che cosa hanno in comune le immagini di Mussolini in posa atletica, proposte dall’Istituto Luce durante la “Battaglia del grano”, con le foto dei corpi maschili dagli addominali perfetti che la pubblicità moderna ci propina? Apparentemente nulla o quasi. Entrambe, comunque, segnalano alcune tappe della rappresentazione dell’identità maschile nella nostra società e con esse il concetto di virilità, che va a pieno titolo inserito nello scaffale tematico della storia di genere letta al maschile.

A questo tema lo storico Sandro Bellassai ha dedicato, alcuni anni fa, esattamente nel 2012, una delle sue ricerche sulla storia di genere al maschile nel libro L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Roma 2012, che a noi pare, se pur a distanza di qualche anno dalla sua uscita, ancora di fondamentale importanza per quanti volessero farsi un’idea più approfondita su questo problema della storiografia di genere.

Il concetto di virilismo, inteso nella definizione del Grande Dizionario della Lingua Italiana di S. Battaglia come “l’esasperazione di qualità, comportamenti virili o tradizionalmente ritenuti tali” viene analizzato da Bellassai nel suo sviluppo storico per periodi a partire dal secolo XIX per arrivare fino ai nostri giorni.

Lo scopo del libro, esplicitamente dichiarato dall’autore, è quello di delineare una cornice interpretativa di “una storia del virilismo come ideale politico (dove questo aggettivo non si riferisce letteralmente solo al sistema politico, ma a dinamiche sociali e culturali che definiscono limiti e possibilità della libertà e del potere nelle relazioni fra uomini e donne). Come ideale politico astratto, in particolare, che ha segnato profondamente per oltre un secolo linguaggi, immagini, comportamenti di soggetti maschili concreti.”(p.9)  L’approccio proposto privilegia quindi, in modo particolare, la dimensione simbolica della mascolinità e le rappresentazioni che ad essa possono essere collegate, cercando di mettere in rilievo alcuni aspetti del loro uso politico nella storia italiana contemporanea.

L’analisi prende le mosse dalla società della fine del secolo XIX, con le sue radicali trasformazioni economiche sociali e culturali, quando sembrava “prefigurarsi una decadenza dell’assoluta sicurezza maschile nel pubblico e nel privato” (p.17). La patriarcale centralità della figura maschile che fino ad allora aveva dominato indiscussa, entrava in crisi e con essa le gerarchie di genere. In un‘epoca in cui “le élite e la sempre più rilevante opinione pubblica avevano un carattere prevalentemente maschile, il crescente protagonismo – anche sociale e politico – delle donne venne percepito come una minaccia pericolosissima per gli assetti sociali del potere, dunque della supremazia degli uomini in quanto genere.” (p.17)  La risposta a questo indebolimento del ruolo maschile, a livello individuale e collettivo, fu il rilancio della virilità nei suoi caratteri concreti e simbolici in contrapposizione alla modernità dilagante e ai suoi effetti.

Bellassai sottolinea a più riprese come sul piano delle relazioni di genere la prima e più potente incarnazione di questa contrapposizione al tradizionale dominio dell’uomo era la donna, la “donna nuova” che dalla seconda metà dell’Ottocento era entrata nella sfera pubblica con l’accesso all’istruzione universitaria, alle professioni, al mondo della cultura e del lavoro. I tratti misogini della polemica maschile non si limitavano a riproporre “l’antico adagio denigratorio delle donne… (ma rappresentavano) …la reazione maschile alle conseguenze di genere di una modernizzazione che toglieva l’aurea di sacralità agli equilibri di potere consolidati” (p.45). La misoginia si affermava quindi come “strumento retorico mediante il quale si è perseguita per decenni una restaurazione delle identità e dei ruoli di genere tradizionali”(p.45) e trovava spazio “nei più svariati ambiti della cultura, della scienza e dell’opinione pubblica.”(p.46) Interessanti gli esempi riportati dall’autore: dallo stereotipo della femme fatale del Decadentismo alle affermazioni di antropologi e sociologi come Lombroso e Mantegazza sulle degenerazioni femminili e sui rischi di feminilizzazione maschile. Esempi di una misoginia che aveva lo scopo di fissare le differenze naturali in termini gerarchici tra i due sessi e cercare una strada che “esaltasse e rigenerasse i tratti considerati più marcati e specifici dell’identità maschile” (pag.53) esprimendo in questo modo un antimodernismo che sembrava già mostrare le sue debolezze rispetto alle grandi trasformazioni che il nuovo secolo proponeva.

La seconda fase presa in considerazione dall’autore è quella del ventennio fascista considerata “sul piano della storia nazionale, certamente il più organico tentativo di imporre dall’alto del potere statale una via autoritaria alla modernità” (pag.53) ma trattavasi pur sempre di una modernizzazione autoritaria che distingueva tra una buona e una cattiva modernità ed esprimeva un antimodernismo che rappresentava “un setaccio retorico che aveva il compito di purificare il futuro della nazione degli elementi inconciliabili con la riaffermazione di un ordine sociale rigidamente gerarchico.(p.64)”  Questo ordine gerarchico avrebbero trovato una sua espressione anche nel virilismo e nei rapporti di genere. Tra le manifestazioni della retorica fascista di questo rinnovato virilismo Bellassai annovera l’esaltazione della popolazione rurale e la celebrazione del contadino “come quintessenza di mascolinità naturale o selvatica” (p.73). A questa retorica si affiancava quella della famiglia patriarcale contadina, esempio di “un ordine sociale e di genere tradizionale, premoderno, rigidamente gerarchico” che doveva difendere la nuova civiltà fascista “dalle degenerazioni della civiltà contemporanea, tra le quali si dovevano di sicuro contare il desiderio delle giovani donne di una vita migliore e di una maggiore cura di sé” e la ricerca “di nuove forme di svago e socializzazione che favorivano la promiscuità fra i sessi e indebolivano il sentimento religioso e, ovviamente, il virus della denatalità che dalle città già infette minacciava costantemente di propagarsi alle virilissime aree rurali” (p.74)

Altro tema di interesse nell’analisi del virilismo era il fascino del rischio e della vita avventurosa riproposti anche dalla letteratura popolare “ispirata alle avventure in mondi selvaggi e misteriosi, compresi i bassifondi urbani, o all’esistenza solitaria di uomini forti a contatto con la natura (dai romanzi coloniali al mito letterario del West, dalla prima science fiction al genere poliziesco” (p.75). Era l’uomo della classe media urbana che si serviva di quel mito come “compensazione fantastica di una condizione esistenziale che egli percepiva deleteria per la propria identità di maschio” (p.75).

Non meno interessanti sono le osservazioni dell’autore a proposito della posizione sull’intellettualismo inteso dal fascismo come una sorta di “malattia dell’intelligenza ed essendo quest’ultima, nella concezione tradizionale, un attributo precipuamente maschile, l’intellettualismo era una malattia della mascolinità. Una ‘intelligenza senza virilità’  appunto” (p.77) alla quale bisognava opporre gli ideali di azione, di impulsività e di giovinezza. Ma è ancora sulla donna e sulla sua subalternità che si concentrava la costruzione dell’immagine maschile in questo periodo. Il problema era la ”trasformazione profonda ed epocale, e non certo trascurabile, dell’identità femminile”. Come scriveva il famoso scrittore Dino Segre, meglio noto con lo pseudonimo di Pitigrilli, in un suo romanzo di quell’epoca “Le signorine di una volta simulavano l’ingenuità e la purezza, la trasparenza spirituale e l’impermeabilità materiale; facevano mostra di non capire mai. Quelle di oggi, invece dell’ingenuità ostentano malizia, mostrando di scoprire intrighi oscuri nelle vicende più limpide, ambiguità misteriose nelle parole più oneste, raffinate impurità nelle pratiche più francescane”. (p.84)

Alla diffusione della cultura di massa americana, considerata dal fascismo responsabile della gran parte delle degenerazioni della “donna moderna”, il regime rispondeva con appelli e campagne contro “la diffusione della moda indecorosa di origine straniera, contro i balli moderni, contro i nuovi modelli di donne magre, disinvolte, decise a conquistare un accesso più ampio al lavoro extra domestico e al tempo libero” e al tempo stesso si varavano misure e iniziative “per sostenere l’esclusiva ‘missione di madre’ di ogni donna” sostenendo la pubblicazione di “romanzi, opere moraleggianti e articoli su ogni tipo di periodici per esaltare la donna moglie e madre e per spegnere sul nascere ogni focolaio della terribile infezione modernista”.(p.84). Di altrettanto interesse i paragrafi dedicati dall’autore alla retorica fascista per combatte i fenomeni di denatalità e propagandare la libertà sessuale lasciata agli uomini “come una delle principali attrattive dello scenario coloniale(p.91). Nell’analisi della quarta fase di questa storia del virilismo in Italia, l’autore, sottolineando i grandi cambiamenti economici,  sociali e culturali degli anni ’50 e ’60 in Italia, pone in relazione tali trasformazioni e le conseguenze che esse ebbero “nell’assetto delle relazioni di genere: sensibili cambiamenti si riscontrano ad esempio, nella rappresentazione dei ruoli femminili anche nell’ambito domestico, nella progressiva affermazione di una morale sessuale e di atteggiamenti meno oppressivi sul piano del senso comune diffuso, nel riconoscimento di nuovi diritti civili e sociali delle donne”. (p.97)

Pur continuando a permanere differenze di genere che fanno parlare Bellassai di un assetto asimmetrico del potere e delle gerarchie di genere, emergevano novità rispetto al recente passato che, tuttavia, non consentivano certo di invocare in tempi brevi “la scomparsa delle disuguaglianze fra uomini e donne” (p.98). Ciò nonostante si chiudeva, secondo l’autore, “definitivamente una pluridecennale fase storica in cui i modelli di mascolinità ispirati al virilismo nella sua declinazione più autoritaria, gerarchica e violenta avevano detenuto una notevole egemonia nell’immaginario collettivo. Ma l’idea che gerarchia, forza e ordine fossero indispensabili alla virilità collettiva, e che quest’ultima fosse a sua volta un pilastro irrinunciabile del naturale equilibrio sociale, certamente non scomparve”. (p.99)

Molti gli esempi prodotti a conferma di questa tesi in particolare nell’ambito della comunicazione pubblicitaria relativa ai nuovi beni di consumo. Il miracolo economico produceva la percezione di essere usciti dalla miseria dopo il secondo conflitto mondiale. Le aree urbane delle città industriali del Nord furono investite da fenomeni di immigrazione dalle campagne e soprattutto dal Sud e nelle città del benessere gli “immigrati potevano accantonare i costumi tradizionali”. (p.105).

Così Giorgio Bocca, riportato da Bellassai, nel suo libro La scoperta dell’Italia del 1963 descriveva il fenomeno che investiva anche le identità di genere “scomparsi o tenuti in sordina i temi maschili, aggressivi e rudi, inizia il declino del gallismo e di quella sua manifestazione che è il pappagallismo [ …] Per effetto della cultura di massa il Bel paese si ingentilisce e si svirilizza” (p. 104). Nuovi modi di comportamento si affermavano tra le donne: con gli acquisti di elettrodomestici per la casa ma anche di prodotti di consumo voluttuario. Bellassai fa ancora parlare Giorgio Bocca dallo stesso volume prima citato “Nella civiltà dei consumi, l’universo del confort appare affidato alle donne, sono esse a decidere gli acquisti e i primi ad esserne persuasi sono i venditori, prova ne sia che la pubblicità va ai giornali femminili nella misura del settanta per cento, più del doppio di quanta ne vada ai giornali maschili-femminili” (p.106). Tuttavia questo fenomeno di svirilizzazione, contrariamente alle epoche passate, non appariva a tutto il mondo maschile come un fenomeno negativo “era l’inizio di un’epoca in cui il tradizionale virilismo si avviava a diventare una delle opzioni in campo, perdendo quindi il monopolio identitario che riteneva spettargli di diritto [] l’inizio della fine del virilismo stesso quale aveva dominato la dimensione dell’identità maschile per quasi un secolo” (p.110). Arrivando a parlare degli ultimi decenni del XX secolo e degli inizi del nuovo secolo il giudizio dell’autore si fa più netto a favore della tesi secondo la quale “la crisi della prospettiva maschile tocca il suo apice nel decennio settanta per lasciare spazio a partire dalla fine del millennio, al tentativo di rilanciare un ordine culturale ispirato alla subordinazione delle donne nel pubblico e nel privato, alla riproposta di una polarizzazione identitaria del maschile e del femminile, al risorgere di pulsioni antiegualitarie, xenofobe o apertamente razziste” (p.123).

I ragionamenti fin qui condotti dall’autore portano alla conclusione che il modello virilista è stato largamente screditato ma non si può abbassare la guardia e considerare la sua storia conclusa. Basta pensare ai numerosissimi episodi di violenza sulle donne di cui veniamo quotidianamente a conoscenza dalle cronache e che riguardano ambienti e classi sociali diverse. E da questa conclusione può partire un’ultima riflessione sulla funzione che la scuola può e deve svolgere. Siamo ancora lontani dall’idea di immaginare rapporti di genere diversi. Il libro di Bellassai ci aiuta a muovere i passi, donne e uomini, in quella direzione, semmai partendo dalla scuola e dall’insegnamento della storia anche nell’ottica della storia di genere.

Giuseppe Di Tonto

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