Crisi. Come rinascono le nazioni / Jared Diamond

DIAMONT Jared Crisi. Come rinascono le nazioni
Jared Diamond / Foto: Lavin Agency /

DIAMOND J Crisi Crisi. Come rinascono le nazioniJared Diamond, noto geografo, antropologo, ornitologo americano, meglio noto al pubblico italiano per il suo volume più famoso, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, pubblicato nel 1997, si è costruito con questo testo, a pieno diritto, anche la fama di storico e di divulgatore. In seguito adottando un metodo di analisi multidisciplinare, da lui stesso definito pensiero orizzontale, che dispone lo scienziato all’integrazione di ambiti apparentemente separati, si è applicato allo studio della questione ambientale con il volume Il collasso (2005).

Nell’ultimo suo lavoro, di cui diremo in questa recensione, l’autore spostando la sua attenzione sulla storia più recente, ha analizzato il concetto di crisi attraverso lo studio di sette casi, riguardanti la Finlandia nel periodo della guerra con l’Urss, il Giappone nel periodo Meiji, il Cile di Pinochet, l’Indonesia degli anni Sessanta, la Germania e l’Australia del secondo dopoguerra, gli Stati Uniti nel periodo storico attuale. Il volume intitolato Crisi. Come rinascono le nazioni è stato pubblicato nel 2019 dall’editore Einaudi.

Il termine crisi, utilizzato in molteplici accezioni e quindi applicabile in diversi ambiti, nella sua origine etimologica greca afferisce “all’area semantica di separare, decidere, distinguere. Quindi potremmo pensare alla crisi come a un momento di verità, un punto di svolta in cui la differenza fra la realtà che precede quel momento e la realtà che lo segue è molto più marcata che nella maggior parte degli altri momenti” (pag. XIX).

Questa è la definizione dalla quale prende spunto Diamond. Ma l’aspetto più originale di questo corposo lavoro risiede nella scelta dell’autore di adottare la prospettiva delle crisi individuali, che capitano ad ognuno di noi nel corso della vita, per applicarla alle crisi delle nazioni. E lo fa in modo coerentemente scientifico, accogliendo le tesi della cosiddetta terapia della crisi, una teoria ed una pratica terapeutica ideata dallo psichiatra Erich Lindemann che si sforzava di risolvere in tempi brevi le angosciose condizioni di crisi esistenziali dei propri pazienti.

Diamond, partendo da alcuni fattori che possono rivelarsi utili al superamento delle crisi individuali, costruisce a specchio un elenco di fattori che dovrebbero consentire di rispondere alle crisi collettive di livello nazionale e sovranazionale. Ma guardiamoli più da vicini questi fattori (a sinistra quelli che riguardano l’individuo, a destra quelli che riguardano invece le nazioni:

  1. Riconoscimento dello stato di crisi / consenso circa lo stato di crisi nazionale. / accettazione della responsabilità nazionale.
  2. Tracciare un confine / confini chiari per delineare i problemi nazionali da risolvere.
  3. Chiedere aiuto agli altri / richiesta di aiuto materiale ed economico ad altre nazioni.
  4. Gli altri come modello / le altre nazioni come modello per la risoluzione dei problemi.
  5. Forza dell’io / identità nazionale.
  6. Capacità autocritica / capacità di autovalutazione nazionale onesta.
  7. Esperienze di crisi pregresse / esperienza storica di crisi nazionali precedenti.
  8. Pazienza / presa in carico del fallimento nazionale.
  9. Flessibilità / flessibilità nazionale in situazioni specifiche.
  10. Valori fondanti / valori fondanti nazionali.
  11. Libertà dalle costrizioni / libertà da costrizioni geopolitiche.

Possono i fattori individuali adattati e applicati alla storia delle nazioni rivelarsi utili per la comprensione degli esiti delle crisi nazionali?  Come è facilmente comprensibile l’adattamento a specchio dei fattori di crisi dall’individuo alle nazioni non si rivela così automatico e tuttavia il tentativo portato avanti da Diamond è in grado di suscitare la curiosità dei lettori e non è privo di interesse per lo storico.

Per portare avanti le sue tesi l’autore prende in considerazione i sette casi di crisi che abbiamo anticipato in precedenza che hanno caratteristiche diverse e riguardano nazioni le cui storie sono molto differenti tra loro.

Non abbiamo modo in questa recensione di esaminarli tutti nel dettaglio, anche per non togliere al lettore il piacere di seguire Diamond nelle sue analisi. Ci soffermeremo quindi solo sull’esempio della storia del Giappone.

Fino al 1853 questo paese somigliava molto all’Europa medievale con una struttura gerarchica di tipo feudale, controllata al vertice dallo shogun, proprietario di larga parte delle terre e dai signori, i daimyo, soggetti a lui. L’imperatore, figura fantoccio, era sostanzialmente privo di potere reale. Rispetto agli stranieri il Giappone mantenne, fino alla metà dell’Ottocento contatti limitati e sufficientemente controllati dal governo. Questo equilibrio si ruppe con l’intervento militare degli Usa che cercavano di rompere l’isolamento degli shogun. Si apriva quella che può essere considerata una fase di crisi acuta per la nazione nipponica che durò circa quindici anni e si tradusse in un capovolgimento dei rapporti interni di potere, un cambiamento dei rapporti del Giappone con il mondo esterno e più in generale una trasformazione del paese. Fu ripristinato il potere reale dell’imperatore, fu avviata una politica di riforme di stampo occidentale e fu progressivamente attenuato l’isolazionismo commerciale del Giappone.

Al termine della sua narrazione degli eventi e dei processi che interessarono questa nazione dal periodo dello shogunato al periodo cosiddetto Meiji Diamond ci mostra anche quali, tra gli indicatori del suo modello, possono aiutarci a comprendere il comportamento adottato dalla nazione nipponica per uscire dalla crisi di quegli anni.

Il Giappone si distingue, più degli altri paesi presi in considerazione, per aver saputo prendere come modello le altre nazioni per la risoluzione dei problemi (Fattore n.5 dell’elenco). La Costituzione come l’organizzazione militare e il codice civile prendono infatti spunto dai modelli tedeschi, inglesi, americani. Riesce inoltre a mettere in atto una capacità di autovalutazione nazionale realistica e onesta (Fattore n.7 dell’elenco) riconoscendo che “i barbari erano molto più forti e che l’unico modo per rafforzarsi era proprio imparare da loro”. Dimostrò infine di essere in grado “di tracciare un confine e di adottare il cambiamento in modo selettivo (Fattore n.3). Molti furono infatti gli ambiti della società nipponica interessati dal rinnovamento, da quello economico a quello giuridico, militare, politico, sociale e tecnologico; ma il Periodo Meiji seppe anche conservare importanti prerogative del Giappone tradizionale, come l’etica confuciana, la venerazione nei confronti dell’imperatore, l’omogeneità etnica, la pietà filiale, lo scintoismo e il sistema di scrittura nazionale”.

Con lo stesso metodo di narrazione storica, di spiegazione e di interpretazione comparativa l’autore si avvicina alla storia degli altri paesi presi in considerazione. E non si può non osservare la sua abilità di scrittura, un piacevole e pacato tono espositivo, la tendenza a mescolare esperienze personali e private con argomentazioni di ordine generale che mantengono viva l’attenzione del lettore.

Ma non è solo sulla storia passata che Diamond mette alla prova il suo modello interpretativo. Nella terza parte del libro prende in considerazione le crisi in corso su scala nazionale del Giappone e degli Stati uniti e le sfide che il mondo nella sua dimensione globale dovrà affrontare per evitare nuove crisi.

Emergono così, in tutta la loro evidenza problemi ben noti nel presente e che riguardano per il Giappone il debito pubblico, il ruolo della donna in una società avanzata, il calo e l’invecchiamento demografico, il rapporto con la Cina e la Corea, la gestione delle risorse naturali, mentre per gli Usa l’autore sottolinea in particolare “il crescente e preoccupante deterioramento della nostra capacità di raggiungere il compromesso politico” causa di “una polarizzazione, di una intolleranza e litigiosità della società americana” partita dalla classe politica per estendersi all’elettorato e in tutti gli ambiti della vita sociale.

L’analisi dei fattori di crisi si estende infine, nell’ultima parte del libro, ai possibili scenari futuri e ai fattori che “minacciano le popolazioni della terra e i nostri standard di vita in generale…e rischiano di minacciare a livello globale la sopravvivenza stessa della civiltà.” Diamond ritiene di identificare questi fattori di potenziale crisi nell’impiego di armi nucleari, nei cambiamenti climatici, nell’esaurimento delle risorse del pianeta e nelle disuguaglianze negli standard di vita.

Diamond ha scritto questo libro nel 2019 a breve distanza dallo scoppio della drammatica crisi pandemica che ha colpito non le singole nazioni ma l’intero pianeta. Ci potremmo chiedere se questo modello di interpretazione della storia, alla luce del concetto di crisi, ci potrà essere utile anche per il superamento di questa crisi pandemica. La risposta ci viene dallo stesso autore in una serie di articoli pubblicati negli ultimi mesi sulla stampa internazionale e italiana. I fattori di potenziale crisi nel prossimo futuro, dianzi esposti, e cioè armi nucleari, clima, risorse del pianeta e disuguaglianze, sono ben più importanti che la pandemia: il Covid-19 non è che un piccolo cruccio momentaneo, ben più importanti saranno le conseguenze di un fattore di crisi come ad esempio il cambiamento climatico. Il saldo delle vittime umane provocate dal clima che cambia è già più pesante rispetto al saldo attuale delle vittime del Covid-19 e non basterà un vaccino per risolvere la crisi o meglio le crisi che il clima è in grado di produrre. Perché l’allarme su questo aspetto non è almeno pari a quello generato dal virus? Le pagine finali del libro, sempre sul filo della comparazione storica e dei possibili scenari futuri del mondo, pongono al lettore un interrogativo se cioè “le nazioni hanno sempre bisogno di una crisi per sentirsi motivate ad agire o sanno anche agire in modo preventivo”. Gli esempi proposti da Diamond in questo libro non risolvono la questione, nel senso che talvolta le nazioni hanno avuto la necessità di attraversare una crisi prima di adottare cambiamenti, talvolta invece hanno prevenuto la crisi adottando scelte che hanno permesso di evitarla. D’altronde è ciò che accade ai singoli individui che di fronte ad una possibile crisi nella loro esistenza talvolta giocano d’anticipo, talvolta riescono a reagire solo quando la crisi ci ha già travolti come ricorda un aforisma di Samuel Johnson:  “Credetemi, signore, quando un uomo sa che nel giro di due settimane sarà impiccato, la sua mente si concentra in modo meraviglioso”.

Giuseppe Di Tonto


DIAMOND, Jared. Crisi. Come rinascono le nazioni. Torino: Einaudi, 2019. 450p. Resenha de: DI TONTO, Giuseppe. Il Bollettino di Clio, n.14, p.153-156, dic., 2020.  Acessar publicação original

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¡Nunca más esclavos! Una historia comparada de los esclavos que se liberaron en las Américas | Aline Helg

Basado principalmente en bibliografía especializada producida en inglés, francés y español durante los últimos treinta años, este libro de la historiadora Aline Helg estudia la capacidad de acción política de quienes sufrieron la esclavitud en las Américas. Para ello, analiza los esfuerzos de los esclavos para alcanzar la libertad. La obra explora el periodo previo a la consolidación de las doctrinas y políticas abolicionistas del siglo XIX, llevando a los lectores por un recorrido de más de tres siglos entre 1492 y 1838. Si bien las sociedades esclavistas mejor conocidas (Cuba, Brasil, el Sur de Estados Unidos y Haití) cumplen papel protagónico, Helg entra también en detalle sobre las menos estudiadas (incluye a Colombia, Guadalupe, Barbados y Demerara). Se trata, por lo tanto, de una síntesis histórica comparada sobre hombres y mujeres cautivos que “por la fuerza, el sacrificio, la astucia, la paciencia o el azar, consiguieron obtener su libertad” (p. 10). Leia Mais

The Plantation Machine: Atlantic Capitalism in French Saint-Domingue and British Jamaica | Trevor Burnard e John Garrigus

The Plantation Machine: Atlantic Capitalism in French Saint-Domingue and British Jamaica expõe, por meio de uma história comparada, as similaridades entre São Domingos e Jamaica. A obra, escrita por Trevor Burnard e John Garrigus, – ambos especialistas em Jamaica e São Domingos, respectivamente – mostra como as possessões caribenhas se assemelhavam em sua configuração social e econômica, mesmo que administradas por uma França absolutista e por uma Inglaterra parlamentarista. Escrita a quatro mãos, o livro é o que se tem de mais atual na bibliografia recente sobre as histórias dessas duas colônias e tem aquele ar clássico de uma produção acadêmica que marcará época na bibliografia atual e futura sobre o sistema mercantilista atlântico.

O recorte cronológico escolhido pelos autores cobre o período de 1740 a 1788, momento de acelerado crescimento da produção açucareira nessas duas colônias. Os autores também identificam Jamaica e São Domingos como integrantes de suma importância para suas metrópoles na integração econômica global e sua inserção no funcionamento do Capitalismo Atlântico do século XVIII. Leia Mais

Caribbean Revolutions. Cold war armed movements.

MAY, Rachel; SCHNEIDER, Alejandro; GONZALEZ, Roberto. Caribbean Revolutions. Cold war armed movements. Cambridge University Press, 2018. 165P. Resenha de: GIRALDO, Fernando. Memorias – Revista Digital de Historia y Arqueología desde el Caribe, Barranquilla, n.39, set./dez., 2019.

Este libro se propone brindar elementos de análisis para una mejor comprensión del origen y la evolución de los movimientos armados en El Salvador, Guatemala, Colombia, Nicaragua y Puerto Rico durante los años de la llamada Guerra Fría, desde una perspectiva comparada. A fin de cumplir este propósito se analiza el carácter jerárquico de sus estructuras, sus alianzas, patrones de movilización y bases ideológicas, continuando el análisis de trabajos clásicos como el de Timothy Wickham: Crowley Guerrillas and Revolutions, publicado en 1991.

Según los autores, la ocupación norteamericana tanto en México, Cuba y Nicaragua, contribuyó a que sus procesos revolucionarios fueran a su vez de liberación nacional, en los cuales hasta las élites tuvieron interés y participación en su lucha contra Gobiernos militares que les habían cerrado espacios de gobernabilidad. También la capacidad de convocatoria de los movimientos guerrilleros, por ejemplo en Cuba y Nicaragua, hizo posible la vinculación de fuerzas obreras, campesinas, estudiantiles e incluso religiosas. A ello habrá que agregar que la comunidad internacional fue solidaria con las luchas contra estas dictaduras y en casi todo el continente se celebró luego el advenimiento de la democracia a estos países.

May, Schneider y González sostienen que tanto en México como en Cuba y Nicaragua se registraron intervenciones militares y despojos territoriales de los Estados Unidos. Recordemos, en el caso de México, la pérdida de Texas, Nuevo México y California (en 1847); la intervención en Nicaragua del filibustero William Walker y el precio que tuvo que pagar Cuba por la injerencia de los Estados Unidos en su independencia de España.

Se aborda la excepcionalidad del respaldo ciudadano en Colombia al M-19 -en contraste a otros grupos armados como las FARC o el ELN- porque fue una guerrilla muy pluralista e incluyente que no aparecía como un movimiento dogmático y, por lo tanto, las clases medias, la juventud, la intelectualidad simpatizaban con sus luchas y sus operaciones muy mediáticas. Ello explica el hecho de que luego de su desmovilización (ocurrida el 9 de marzo de 1990) recibió un amplio apoyo ciudadano representado en varias votaciones para cargos de elección popular.

Hubiera sido interesante en el libro que se incluyeran las perspectivas actuales de esas guerrillas, sobre todo en aquellos países donde hoy son partido de gobierno como en El Salvador o Nicaragua, pero quizá esto rebasa el periodo de estudio.

Resulta de mucha vigencia la lectura de esta obra dado que existe un gran desconocimiento de la naturaleza, características y particularidades de la historia política más reciente de América Latina y el Caribe, máxime por parte del púbico angloparlante. También cabe destacar que el caso de la guerrilla puertorriqueña ha sido poco estudiado por parte de la literatura más clásica sobre estos temas, lo cual sin duda es un aporte de este libro.

Resulta interesante el trabajo colaborativo de académicos de la Universidad del Sur de la Florida (USF), la Universidad Nacional de La Plata y la Universidad del Norte, autores de esta publicación.

Fernando Giraldo – Ph. D., profesor titular, Departamento de Ciencia Política y Relaciones Internacionales, Universidad del Norte.

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African Thought in Comparative Perspective – MAZRUI (HU)

MAZRUI, Ali. African Thought in Comparative Perspective. Cambridge, Cambridge Scholars Publishing, 2013. 369 p. OLIVEIRA, Silvia. Pensamento africano em perspectiva comparada. História Unisinos, 23(3):475-477, Setembro/Dezembro 2019.

Assente no profissionalismo e na crítica científica, a presente obra traz a público, num único volume, uma coletânea de artigos publicados por Ali Mazrui ao longo da sua carreira, onde apresenta não só os resultados das suas pesquisas enquanto historiador, pesquisador, professor, analista e cientista político, mas igualmente as suas ideias e convicções enquanto cidadão africano, como o mesmo faz questão de se identificar. Apesar de ser pouco abordado no espaço lusófono, a sua experiência, o seu intelecto, o seu carisma, a sua defesa do pan-africanismo e a sua dedicação à causa africana fazem dele um “dos mais prolíficos escritores africanos do nosso tempo” (p. xi), assim como uma referência na produção de conhecimento sobre África, nas suas múltiplas dimensões, com destaque para a pesquisa sobre o Islão e os estudos pós-coloniais.

African Thought é um livro realista e, ao mesmo tempo, apaixonante na medida em que, ao lermos, vemos o cenário de África ser descortinado, ampliando, desse modo, a compreensão do leitor em relação ao continente e aos africanos, de um modo geral, mostrando igualmente que, ao contrário da “irrelevância histórica para a qual foi relegado” (Mazrui, 2013, p. 10), este é detentor de um “repertório intelectual riquíssimo” (Mazrui, 2013, p. XII) que precisa de ser explorado, compreendido, explicado e valorizado. A riqueza das temáticas abordadas e analisadas, que vão desde o “legado dos movimentos de libertação, a convergência e a divergência africana, o pensamento islâmico e ocidental, ideologias nacionalistas, o papel da religião na política africana e o impacto da filosofia clássica grega na contemporaneidade” (Mazrui, 2013, p. XI), visa precisamente cumprir estes pressupostos. Dada a complexidade do objeto de estudo, os editores organizaram este volume em cinco secções autónomas, cada uma delas dividida em capítulos.

A primeira secção – Africanidade comparada: identidade e intelecto – apresenta as teorias e os preconceitos “meio-diabólicos” (Mazrui, 2013, p. 4) que alimentaram, durante séculos, a exploração e a colonização do continente e dos africanos, caracterizados como “crianças imaturas” (Mazrui, 2013, p. 5), “pré-históricos” (Mazrui, 2013, p. 8), “cultural e geneticamente retardados” (Mazrui, 2013, p. 10), posicionados como os menos civilizados na escala evolutiva estabelecida pelo próprio ocidente, catalogações que serviram de pretexto e justificativa para o tráfico de escravos e alimentaram ideias e teorias como o darwinismo social e as conhecidas teorias da modernização e da dependência. Segue-se uma abordagem sobre a legitimação e reconhecimento da filosofia africana enquanto fonte de sabedoria, sendo identificadas três escolas filosóficas, nomeadamente a) escola cultural, também conhecida como etnofilosofia, que assenta na tradição oral e é classificada pelo autor como uma escola de massas, abrangendo os períodos pré-colonial, colonial e pós-colonial; b) ideológica, que reúne as ideias dos ativistas políticos e seus líderes, abrangendo sobretudo o período colonial e pós-colonial, cuja caraterística principal passa pela utilização das línguas ocidentais, sendo por isso considerada mais elitista; c) crítica ou racionalista, composta essencialmente pelos filósofos académicos, enquadrados nas universidades.

Posteriormente, Mazrui identifica as cinco maiores tradições do pensamento político em África, nomeadamente, a) conservadora, ou solidariedade tribal, assente na continuidade (da tradição) em detrimento da mudança. Esta engloba três subtradições: the elder tradition (o respeito pelos mais velhos), the warrior tradition (a tradição dos guerreiros) e the sage tradition (a sabedoria); b) nacionalista, que surge parcialmente como resposta à arrogância da colonização branca, podendo assumir diferentes dimensões, nomeadamente, nacionalismo linguístico, religioso, rácico, pan-africanismo, etnicidade (unidade tribal), nacionalismo civilizacional; c) liberal-capitalista, com ênfase no individualismo económico, na iniciativa privada, assim como na liberdade civil; d) socialista, e) internacional ou não alinhamento. O autor salienta ainda o papel e a importância da memória coletiva identificando, para o efeito, quatro funções da mesma, nomeadamente: preservação, seleção, eliminação e invenção, bem como a questão dos arquivos africanos que assentam sobretudo na tradição oral.

Ao alertar para a necessidade de compreensão e distinção entre relativismo histórico (diferença entre épocas históricas) e relativismo cultural (diferença em termos de valores entre sociedades) no início da segunda secção, o autor introduz a temática sobre a presença do Islão no mundo e em África, constituindo este, a par da africanidade e da influência ocidental, uma das suas heranças, denominada pelo autor de triple heritage (tripla herança). Posteriormente, Mazrui apresenta a sua teoria sobre a existência de cinco níveis de pan-africanismo: 1) Subsariano, que congrega a união dos povos negros ao sul do Sara; 2) Trans-Subsariano, a unidade do continente como um todo, tanto ao norte como ao sul do Sara; 3) Transatlântico, que engloba igualmente a sua diáspora pelo mundo; 4) Hemisfério Ocidental, união dos povos descendentes de africanos e que se encontram no ocidente; 5) Global, a conexão de todos os negros e africanos pelo mundo. É feita ainda referência à Negritude como movimento cultural, no qual o autor distingue duas categorias, nomeadamente: a literária, que inclui não só a literatura criativa, mas igualmente aspetos da esfera política e social, e a antropológica que corresponde a um estudo romantizado de uma comunidade tribal africana por um etnógrafo africano.

É a partir da filosofia e da construção do conhecimento que Mazrui reflete sobre a influência que a filosofia ocidental exerce(u) sobre os africanos, sobretudo sobre os nacionalistas. Composta por seis capítulos, a terceira secção é dedicada à construção do nacionalismo africano e às suas diferentes manifestações. O autor defende que a herança greco-romana foi utilizada pelo ocidente com propósitos sombrios, servindo como justificação para a colonização, sendo o exemplo belga na República Democrática do Congo (RDC) o mais pragmático de todos. Assim sendo, o autor defende que a Negritude não é mais do que “a resposta do homem negro à mística greco-romana” (Mazrui, 2013,p. 146). Mas é igualmente essa mesma filosofia que influencia o pensamento africano, em particular os nacionalistas, tornando-se eles próprios, de certa maneira, filósofos, ao beberem e defenderem, posteriormente, as teorias de Hobbes, Rousseau e Lénin, entre outros autores, que estarão na base da luta pela igualdade e libertação do continente, constituindo por isso três formas de resistência, nomeadamente, 1) tradição guerreira: assente na cultura indígena; 2) resistência passiva: técnica utilizada por Gandhi; 3) revolução marxista, tendo como exemplo os casos das ex-colónias portuguesas, nomeadamente, Angola, Guiné-Bissau e Moçambique.

No entanto, a luta não se circunscreveu às fronteiras do continente, sendo que a diáspora também arregaçou as mangas e deu o seu contributo; exemplos dessa luta são Frederick Douglas e Du Bois. Outros aspetos igualmente importantes para a compreensão da dinâmica política contemporânea do continente prendem-se com a questão do religioso, da tradição, da cultura e, consequentemente, da ética, na análise dessas temáticas. E o autor chama a atenção para a sua importância na quarta secção, a mais curta de todas as secções. De uma forma bastante simples, porém, completa, são-nos apresentadas as características do religioso em África, nomeadamente, a) étnicas, b) não expansionistas, c) universalistas, d) ausência das sagradas escrituras, tendo como base a tradição oral, e) língua nacional, f) não separação dos assuntos terrenos e espirituais, ou seja, não se assentam na fé. Outras peculiaridades culturais que fazem do continente aquilo que ele é, como o casamento, os casamentos inter-raciais, a poligamia, entre outras, são igualmente analisadas por Mazrui, que alerta para a exercem no quotidiano dos africanos ainda na contemporaneidade e pelo fato de nos ajudarem a perceber a atual situação do continente, funcionando igualmente como pressupostos de análise do pós-colonial.

Nos seis capítulos que compõem os Ensaios Conclusivos, o autor traz a debate temáticas mais contemporâneas, que têm levado a uma continuidade da ideia periférica que se construiu e se continua a construir sobre o continente, nomeadamente, pós-colonialismo, multiculturalismo, modernidade, democracia, globalização, entre outras. Ao alertar para a necessidade de pensarmos e debatermos o pós-colonial ou o que “Said chamou de orientalismo e Mudimbe chamou otherness” (Mazrui, 2013, p. 287), Mazrui relembra a tripla herança africana e aponta para os diferentes instrumentos de que o ocidente tem feito uso para manipular o discurso que vai contra a visão do mundo implantada pelo próprio ocidente, monopolizando e perpetuando, deste modo, os seus próprios paradigmas em relação ao “Outro” (Mazrui, 2013, p. 288), numa tentativa de continuar a dominar, mostrando a sua supremacia, da qual a globalização se apresenta como o exemplo mais flagrante.

Apesar da obra estar disponível apenas em língua inglesa, o que constitui uma condicionante para os não falantes dessa língua, não podemos deixar de realçar que, pela riqueza de informações e pela crítica científica que serve de base para a sua análise, estamos em presença de material de consulta obrigatória para qualquer ramo do saber, não só direcionado para a área dos estudos sobre África, mas igualmente sobre a temática da produção do conhecimento sobre o pós-colonial, numa perspetiva macro. Com efeito, uma das suas inovações é precisamente a transdisciplinaridade do autor na análise dos diferentes temas com destaque para a sistematização teórica do pensamento político africano, a sociedade africana, filosofia, multiculturalismo, globalização, bem como a visão global que emprega nessa análise, levantando mais questões do que dando respostas às interrogações iniciais. Por outro lado, a sua riqueza bibliográfica dá-nos igualmente pistas para futuras leituras e pesquisas sobre as diferentes temáticas, alimentando desse modo o debate científico e abrindo caminhos futuros de pesquisa.

Pela sua importância, não podemos igualmente deixar de referir aspetos que a podem fragilizar, como o fato do autor não aprofundar o debate sobre a responsabilidade das elites africanas pela atual situação em que se encontra o continente, as falhas no processo de construção da democracia, assim como em relação à realidade que enfrentam os africanos na contemporaneidade, os desafios e expectativas em relação ao futuro. Talvez seja esse o propósito, ou seja, despertar em cada um dos leitores outras interrogações que conduzam à produção de mais conhecimento sobre o continente, desmistificando, deste modo, a ideia preconcebida e obscura que se foi construindo ao longo dos séculos.

Notas

2 A partir dessa parte da resenha, os trechos em itálico são grifos presentes no livro.

Silvia Oliveira – Universidade Estadual Paulista (UNESP), campus de Assis, Avenida Dom Antonio, 2100 – Parque Universitário, 19.806-900 Assis, São Paulo, Brasil. Bolsista da Fundação de Amparo à Pesquisa do Estado de São Paulo (FAPESP). E-mail: slviadeoliveira9@gmail.com.

Um papel para a história: O problema da historicidade da ciência – CONDÉ (PH)

CONDÉ, Mauro Lúcio Leitão. Um papel para a história: O problema da historicidade da ciência. Curitiba: ED. UFPR, 2017. 171 pg. Resenha de: SILVA, Luiz Cambraia Karat Gouvêa da. Internalismo versus externalismo em história da ciência: uma proposta de integração. Projeto História, São Paulo, v.62, Mai-Ago, pp. 388-395, 2018.

Mais do que uma análise histórica sobre uma das maiores controvérsias existentes na História da Ciência, entre as escolas internalista e externalista de teoria científica, o livro Um papel para a história: o problema da historicidade da ciência, do Professor Titular de História da Ciência na UFMG Mauro Lúcio Leitão Condé, desenvolve a ideia de superação da dicotomia entre essas duas perspectivas metodológicas. O objetivo da obra é construir a categoria epistemológica “historicidade da ciência”, uma proposta que promoveria a articulação entre os elementos sociais com as dimensões empíricas do real.

O livro é resultado do minicurso ministrado em setembro de 2013, por Condé, na Escola Paranaense de História e Filosofia da Ciência – ligada ao Departamento de Filosofia da UFPR. Observada a trajetória acadêmica do autor, podemos concluir que esse estudo apresenta uma síntese de investigações que Condé vem desenvolvendo há quase três décadas. Em Um papel para a história: o problema da historicidade da ciência o autor faz uso tanto de autores com os quais trabalha desde o início da carreira, como Wittgenstein e Thomas Kuhn, quanto de pensadores que começou a discutir com mais frequência nos últimos tempos, como Alexandre Koyré, Ludwik Fleck e Edgar Zilsel.

Como o problema da historicidade da ciência é de natureza epistemológica, esse estudo deve ser visto em um contexto disciplinar mais amplo. Para além das fronteiras da História da Ciência, o livro se alinha com outras áreas que investigam os pressupostos metateóricos que fundamentam a produção do conhecimento científico, tais como a Sociologia, a Filosofia e a Antropologia. Embora o texto atinja uma notória profundidade teórica, é desenvolvido em uma linguagem simples e inteligível, sendo sua leitura indicada tanto aos iniciantes interessados em compreender a dicotomia externalismo versus internalismo, quanto aos iniciados que buscam aprofundar-se na temática.

Para operacionalizar sua análise, ou seja, para inter-relacionar as duas perspectivas metodológicas, Condé se utiliza do método comparativo. Em um primeiro momento, o autor elege representantes de cada uma dessas linhas teóricas – Koyré e Zilsel – e lança luz sobre seus principais pontos de divergência. Constatada a querela, Condé passa a analisar como a proposta externalista ganhou, a partir de Kuhn, proporções inimagináveis, ofuscando, inclusive, o que há de meritório na análise internalista. Por fim, o autor, resgatando ideias de Fleck e fazendo uso da filosofia da linguagem de Wittgenstein, procura desenvolver uma proposta de integração na qual tanto o internalismo como o externalismo são utilizados na confecção de uma epistemologia que analisa as influências socioculturais do cientista sem negligenciar o papel da natureza, a historicidade da ciência.

O livro se divide em prefácio, introdução, quatro capítulos e uma conclusão. O prefácio, escrito pelo professor da UFPR Eduardo Salles de O. Barra, busca introduzir o conceito de historicidade da ciência. Para Barra, o esforço de Condé se dá em compreender como o conhecimento científico é produzido por um profissional que está inserido em um determinado contexto. O que Condé, aos olhos de Barra, quer dizer é que o cientista não se encontra em uma ilha isolada quando pratica seus experimentos. Na realidade, existe um conjunto de valores sociais, de pressupostos, de imaginários, que, mesmo não intencionalmente, condicionam o cientista em suas atividades. A “esterilização” laboratorial não levaria em conta que o próprio cientista, na prática da ciência, já estaria partindo de pressupostos, tradições, consensos acadêmicos, refutando, assim, a possibilidade de se atingir um conhecimento pretensamente positivo.

Mas essa forma de analisar a ciência como uma prática social observando seus condicionantes externos – ou seja, a visão externalista – teria se radicalizado em estudos do final do século XX, valorizando em demasia a abordagem sociológica da ciência e atingindo nuances próprias ao relativismo (p. 16). Estudos sobre a teoria científica desenvolvidos pelo Programa Forte da escola de Edimburgo acabariam por retirar a importância da natureza na prática científica, dando, assim, excessivo valor às dimensões sociais presentes no “fazer ciência”. Para Barra, o grande  mérito do livro de Condé está, justamente, em propor uma epistemologia ligada aos estudos sobre a teoria da ciência que, como veremos, pense a atividade científica como um produto da interação linguística entre o aspecto social, próprio do contexto do cientista, que não negligencia o papel do dado empírico proveniente da investigação do mundo natural.

Na Introdução, denominada A ciência tem uma história, Condé anuncia uma de suas teses centrais: a de que, para além da conclusão óbvia de que as ciências têm uma história, a forma como essas histórias são construídas também influenciam o próprio processo de produção científica. Isto é, constatada que a visão dos homens é condicionada historicamente, essa premissa é estendida aos cientistas e às atividades laboratoriais: “Todo conhecimento da natureza é tecido a partir de sua historicidade social e linguística” (p. 28). Mais do que história, as ciências possuem historicidade.

O Capítulo 1, intitulado O filósofo e as máquinas: Koyré, Zilsel e o debate internalismo versus externalismo, tem como objetivo mostrar que as origens desse debate remontam à controvérsia sobre as origens da ciência moderna. Os internalistas, representados na figura de Alexandre Koyré, defendem que a Revolução Científica aconteceu por conta de uma mudança na “atitude metafísica” (p. 32), uma alteração de pensamento no plano teórico, que desbancou a escolástica medieval e instaurou um novo cenário intelectual que possibilitou o desenvolvimento da ciência moderna e, consequentemente, das novas tecnologias. Do lado oposto, os externalistas, representados por Edgar Zilsel, advogam que a Revolução Científica foi protagonizada pelas mudanças oriundas da união do saber prático dos artesãos-engenheiros (o “saber-fazer”) com a racionalidade e o saber teórico da tradição filosófica (o “saber-pensar”), gerando o método experimental que caracterizou a ciência moderna. A emergência do capitalismo e a valorização da tecnologia e da mercadoria teriam influenciado esse processo. Assim, enquanto Koyré e os internalistas entendem a Revolução Científica como uma mudança de “atitude metafísica”, Zilsel e os externalistas a compreendem como uma consequência do novo contexto social e econômico que caracterizou a Modernidade.

Condé argumenta que, embora Koyré e Zilsel tenham lançado duas importantes perspectivas metodológicas para os historiadores da ciência, seus modelos continham imprecisões. O internalismo koyreniano, amplamente baseado no realismo matemático de perfil platônico e cartesiano, desconsiderava a influência do contexto na atividade dos cientistas. Já o externalismo, na forma como apresentada por Zilsel, além de não produzir o conceito de historicidade, já que não desenvolveu a ideia de que a história de uma ciência afeta o seu resultado, dava excessiva importância à tese de que a ciência moderna surgiu da união do “saber-fazer” com o “saber-pensar”. Este argumento foi questionado pelos internalistas que observaram que os antigos romanos também contavam com essas duas práticas em sua sociedade e não produziram a ciência moderna. Assim, mais do que desenvolvimento técnico, os internalistas defendiam que as mudanças trazidas pela Revolução Científica se davam na “atitude metafísica”.

No Capítulo 2, O elo perdido: Fleck e a emergência da historicidade da ciência, Condé mostra como a ideia de historicidade da ciência, amplamente divulgada por Kuhn na década de 1960, já existia desde a década de 1930, desenvolvida pelo médico e filósofo Ludwik Fleck. Este pensador teria sido o primeiro a refletir sobre as conexões que se estabelecem entre a ciência e a sociedade. Segundo Condé, Fleck inaugura uma nova epistemologia para se pensar a prática científica na qual a ciência não pode ser vista separada de seu contexto histórico e social. O conhecimento científico não seria apenas fruto do “estilo de pensamento” de um determinado coletivo de cientistas, mas de toda a sociedade na qual o praticante da ciência está inserido. A partir dessa constatação, Condé conclui que não existe conhecimento fora do social e, consequentemente, fora do tempo. Essa seria a noção de historicidade da ciência que Fleck chamaria, na década de 1930, de “ciência das ciências”. Essas ideias entrariam em conflito com o objetivismo característico do neopositivismo do Círculo de Viena, vertente epistemológica hegemônica da época, o que acabou por relegar Fleck ao ostracismo.

No Capítulo 3, “Um papel para a História”: historicidade versus relativismo em Thomas Kuhn, Condé analisa Kuhn em dois momentos. No primeiro, quando, na década de 1960, publica A Estrutura das Revoluções Científicas, afirmando a importância do contexto histórico no “fazer científico” – premissa que foi de encontro às pretensões de objetividade do “racionalismo crítico” de Popper. E, em um segundo momento, a partir da década de 1970, quando alguns de seus seguidores conduziram o estudo da dimensão social da prática científica às últimas consequências, o que acabou por ocasionar o surgimento de grupos de pesquisas que desabilitavam qualquer pretensão objetiva de investigação da natureza – o Programa Forte de David Bloor seria um exemplo. Estes grupos, chamados socioconstrutivistas, foram considerados por Kuhn como relativistas. Segundo Condé, o autor da A Estrutura das Revoluções Científicas passaria o resto da carreira tentando desenvolver uma teoria que conciliasse a dimensão social com a natural. Entretanto, teria morrido antes de terminar esse projeto. Assim, a “tensão essencial” para Kuhn seria o paradoxo insolúvel no qual “sociedade” e “natureza” são, supostamente, inconciliáveis. Mas Kuhn teria deixado algumas pistas que apontavam para uma possibilidade de inter-relação linguística entre esses dois mundos. Abandonando a noção dos paradigmas, Kuhn passaria a estudar o diálogo entre os diferentes grupos científicos a partir da teoria da linguagem e da tradução dos seus respectivos “campos léxicos”.

Entretanto, segundo Condé, a teoria da linguagem científica desenvolvida por Kuhn defendia a “coisa em si” kantiana, o que o teria impedido de levar a análise linguística às últimas consequências. E é a partir desse horizonte que Condé, no Capítulo 4, Wittgenstein e a gramática da ciência: linguagem e práticas sociais no conhecimento científico, utiliza a filosofia da linguagem desenvolvida por Wittgenstein para estudar uma possibilidade de congregar os três conceitos: a sociedade, a linguagem e a natureza. A partir da ideia de “gramática da ciência” o autor propõe que a “historicidade do conhecimento” é feita pela linguagem, a partir da “tessitura”, ou entrelaçamento, dos aspectos sociais e dos dados empíricos obtidos do mundo natural.

Condé nega qualquer tipo de essência transcendental na linguagem, assumindo, por meio de Wittgenstein, que seu uso nos diferentes contextos é regido por regras – as “gramáticas” –, e que essas categorias de linguagem estão em permanente construção, sendo, portanto, produto da “práxis social”. O que Condé está defendendo é que a “coisa em si” kantiana é questionável nessa abordagem linguística e que a própria cultura científica estabelece, em um movimento permanente, as regras que normatizam as práticas científicas. Diferente do relativismo socioconstrutivista do Programa Forte, Condé admite que essa construção linguística da prática científica é feita, também, em diálogo com a natureza, compreendida como “objetos, fatos, ações” (p. 150). Assim, o autor argumenta que a epistemologia sugerida pela historicidade da ciência reconhece na linguagem a possibilidade de articulação da dimensão social com a natural e empírica do trabalho científico.

Na Conclusão do livro, Condé, além de desenvolver uma síntese das discussões dos capítulos anteriores, afirma que a historicidade da ciência pode ser um horizonte epistemológico produtivo para os analistas interessados em compreender a prática científica como um fenômeno de linguagem que congrega tanto a dimensão social quanto a natural.

O livro Um papel para a história: o problema da historicidade da ciência, mais do que apresentar de forma relevante uma possibilidade de superação do problema internalismo versus externalismo, fornece, com agudeza, novas diretrizes epistemológicas para o estudioso da teoria da ciência interessado em refletir sobre as historicidades possíveis na relação entre o “sujeito” e o “objeto” a partir de uma perspectiva linguística.

Luiz Cambraia Karat Gouvêa da Silva – Bacharel em História pela Universidade de São Paulo, é aluno do Programa de Pós-graduação em História da UNESP/Assis. Tem experiência na área de História da Ciência. Número ORCID: 0000-0001-8697-2799. E-mail: luiz.cambraia.silva@usp.br.

Historia comparada de las literaturas argentina y brasileña. Tomo I: De la colonia a la organización nacional (1808-1845) – CROCE (A-EN)

CROCE, Marcela (Dir.). Historia comparada de las literaturas argentina y brasileña. Tomo I: De la colonia a la organización nacional (1808-1845). Villa María: Eduvin, 2016. Resenha de: COUTINHO, Eduardo. Alea, Rio de Janeiro, v.19 n.1, jan./apr., 2017.

Embora as relações entre o Brasil e os países hispano-americanos estejam constituindo cada vez mais objeto de estudo, em especial nos planos econômico, social e político, essas relações ainda são muito tímidas no que diz respeito à esfera da cultura, e, mais particularmente, da produção literária. Sente-se falta de textos que abordem mais de perto a literatura brasileira e a dos diversos países hispano-americanos, focalizando, por uma perspectiva comparatista, suas semelhanças e diferenças, de modo a estabelecer-se um verdadeiro diálogo entre essas vozes. Têm surgido, nas últimas décadas, histórias literárias voltadas para a América Latina como um todo, que deixaram clara, pelo próprio uso do termo, sua preocupação em incluir o Brasil no conjunto – citem-se aqui as belíssimas séries Palavra, literatura e cultura (1993), organizada por Ana Pizarro, e Literary Cultures of Latin America: A Comparative History (2004), coordenada por Mario Valdés e Djelal Kadir. E lembre-se que, já na década de 1940 (mais precisamente em 1945), Heríquez Ureña expressou essa preocupação ao publicar a sua Corrientes literarias de América Latina, que incluía o Brasil. No entanto, o que prevalece em todas essas histórias é a noção mais ampla de “continente”, recorte adotado que não só justifica, como requer a referida inclusão.

É verdade que o conceito de “nação”, identificado a “estado-nação”, é hoje um conceito que não mais se sustenta do ponto de vista ontológico, como quiseram os adeptos do Iluminismo, mas que ainda tem uma existência sólida como construção discursiva e que se acha presente na maioria das instâncias da vida contemporânea, desde a configuração política dos países no contexto internacional, até os aspectos mais banais da vida cotidiana, como as competições desportivas e as festas que celebram aspectos que se dizem próprios da cultura de um povo. A nação política como construção calcada em interesses específicos do grupo que a constituiu continua atuando como referência nos discursos em voga nas mais variadas áreas do conhecimento, e o conceito segue desempenhando um papel crucial no panorama internacional. Na História, e mais especificamente na História Cultural e Literária, ele é muitas vezes complementado por outros conceitos, como o de “região cultural”, mas não é em momento algum abandonado. A “nação” permanece no contexto internacional como um conjunto que difere de outros por singularidades que, embora provisórias e plurais, atuam como marcas de diferenças. E são esses traços que, mesmo em sua variedade e provisoriedade, devem ser estudados ao abordar-se a produção de um país.

Historia comparada de las literaturas argentina y brasileña, que Marcela Croce organizou, e para a qual contribuiu também com a redação de diversos capítulos, sozinha ou em colaboração com outro estudioso da questão, é, nesse sentido, uma contribuição extraordinária e pioneira para o estudo da produção literária dos dois países. O Brasil e a Argentina são duas nações geograficamente vizinhas, que passaram por processos de colonização semelhantes, mas com diferenças também importantes, que obtiveram a independência política mais ou menos numa mesma época, mas continuaram dependentes do ponto de vista cultural e econômico, e que chegaram à modernidade com uma série de aspectos que as aproximam e, ao mesmo tempo, as distanciam. Essas semelhanças e diferenças em seu processo de constituição são o objeto de estudo dessa história literária que, entre seus muitos méritos, busca romper a barreira que infelizmente ainda perdura entre os dois países, e para a qual contribuiu inegavelmente a diferença idiomática, sobretudo quando comparamos com o que ocorreu entre os diversos países da América Hispânica.

Na estruturação do volume, que é, aliás, o primeiro de uma série de seis, a organizadora e seus colaboradores optaram por uma metodologia comparatista perfeitamente adequada ao diálogo que pretendiam estabelecer: a relação de semelhanças e diferenças entre as produções dos dois contextos. Foi feita uma seleção de textos literários que contribuíram para a formação de cada nação, e de pontos de encontros e desencontros na história cultural dos dois países, e construiu-se um contraponto rico e instigante, sempre baseado em fatores históricos concretos, que deu origem a uma discussão bastante frutífera entre vozes nem sempre pensadas pelo que tinham em comum, como é o caso de Hidalgo, Ascasubi e Hernández, de um lado, e de Fagundes Varela, de outro, ou de José Bonifácio de Andrada e Silva e Juan María Gutiérrez, os dois últimos lidos pelo autor do capítulo como intelectuais orgânicos na terminologia de Gramsci. Observe-se, contudo, que em todos esses casos foi levada em conta a relação entre os aspectos culturais e histórico-políticos, evitando-se sempre qualquer tipo de arbitrariedade nas aproximações estabelecidas.

O fato de tratar-se de uma história literária que tem como objeto dois países da América Latina já constitui por si só uma grande inovação, na medida em que se rompe com o modelo tradicional desses estudos, quase sempre voltados para a fórmula Europa/América do Norte x América Latina, em prol de um comparatismo intra-americano, mas o mais relevante, no caso, é o abandono da perspectiva hierarquizadora, presente, por exemplo, nos estudos de fontes e influências, e sua substituição por uma visão crítica apurada em que põe por terra qualquer sentido de superioridade ou inferioridade de um dos termos da comparação, adotando-se, em seu lugar, um tratamento em pé de igualdade. Não se trata, nas palavras da organizadora, de “avaliarem-se inovações nem de se estabelecerem prioridades no tempo, mas de se mostrarem as variantes que alguns modelos externos adquirem em cada país”. É assim que o Indianismo brasileiro de um Gonçalves Dias, que idealiza o índio, é confrontado com o Romantismo argentino, que o aborda como um sujeito sem identidade; ou o mito rural na poesia gauchesca, no qual o tipo regional adquire voz, que é estudado lado a lado à figura do negro no século XIX brasileiro, visto antes como objeto do que como sujeito.

Sem nenhuma pretensão de construir-se uma história literária de caráter totalizador, o recorte adotado pela organizadora toma como ponto de partida um momento que considera fundamental na história dos dois países – a recepção local da Revolução Francesa e suas consequências mais representativas, que têm como corolário a constituição das pátrias argentina e brasileira. A partir daí, são traçados paralelos que nem sempre correspondem a uma cronologia rígida e nem a uma equivalência exata no que concerne ao objeto – autores ou obras, por exemplo, são, por vezes, comparados a movimentos literários -, mas esse aspecto, longe de constituir problema, revela, ao contrário, a flexibilidade do método comparatista e a riqueza que este método permite na abordagem do fenômeno. Daí a forma de ensaio que a história literária apresenta, mas de um ensaio que não deixa jamais de lado a dimensão histórica, instituindo-se antes como um conjunto orgânico, uma produção sistemática cuja articulação fica assegurada, nas palavras da própria organizadora, “pela avaliação e relevância que os fatos adquirem nos textos e a maneira com que logram articular-se em uma construção discursiva”.

Eduardo F. Coutinho – Doutor pela Univ. Califórnia (Berkeley, EUA). É Professor Titular de Literatura Comparada da UFRJ e pesquisador I A do CNPq. Tem sido Professor Visitante em diversas universidades no Brasil e no exterior. É membro fundador e ex-presidente da ABRALIC, Vice-Presidente da AILC (Associação Internacional de Literatura Comparada) e consultor científico de diversas agências de fomento à Educação. Publicou grande número de ensaios em revistas e periódicos especializados do Brasil e do exterior e é autor e organizador de diversos livros, dentre os quais The Synthesis Novel in Latin América: a Study of J. G. Rosa’s Grande sertão: veredas (1991), Em busca da terceira margem: ensaios sobre o Grande sertão: veredas (1993), Literatura Comparada na América Latina: ensaios (2003), publicado também em espanhol (Colômbia, 2003), e Literatura Comparada: reflexões (2013). E-mail: eduardocoutinho17@gmail.com

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Volver del exilio: Historia comparada de las políticas de recepción en las posdictaduras de la Argentina y Uruguay (1983-1989) – LASTRA (RH-USP)

LASTRA, María Soledad. Volver del exilio. Historia comparada de las políticas de recepción en las posdictaduras de la Argentina y Uruguay (1983-1989). La Plata: Universidad de la Plata, Buenos Aires: Universidad Nacional de General Sarmiento, Posadas: Universidad Nacional de Misiones, 2016. Resenha de: BALBINO, Ana Carolina. Os retornos possíveis: história comparada das políticas de recepção ao exílio no pós-ditadura argentino e uruguaio. Revista de História (São Paulo) n.176 São Paulo  2017.

Após a parceria com Silvina Jensen na organização de Exilios: militancia y represión,1 a socióloga, doutora em História e pesquisadora do Conicet (Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas) María Soledad Lastra lançou, em 2016, o livro Volver del exílio. Nesta obra, a autora centra o debate nas políticas de recepção aos exilados na Argentina e Uruguai no momento da redemocratização em ambos os países, buscando compreender os sentidos e representações do exílio nos projetos democráticos de Alfonsín (Argentina) e Sanguinetti (Uruguai), além das respostas dos Estados e associações civis a essas imagens, que geraram diferentes políticas de recepção aos exilados no pós-ditadura.

Na primeira parte do livro, debate-se a conjuntura de transição democrática argentina e uruguaia. Trabalhando com a ideia de que a Argentina teve uma redemocratização por colapso, ou seja, na qual os militares não tiveram atuação, e o Uruguai uma transição pactuada, decorrente de uma associação entre militares e sociedade civil, a autora se dedica inicialmente aos perfis dos exilados em ambos os países, dando especial atenção à presença das esquerdas no desterro e mostrando que não houve, em nenhum dos casos, uma opção por retorno em massa. Em seguida, é discutido como as sociedades refletiram o tema do exílio no momento dos retornos. Aqui, Soledad Lastra chama a atenção para as enormes diferenças entre o processo argentino e o uruguaio, já que no primeiro caso se deu uma ênfase maior à imagem do exilado-subversivo, mantendo-se o discurso ditatorial de que aqueles que haviam saído do país era antigos guerrilheiros derrotados pela “guerra suja”.

Já na segunda parte, a autora foca seu olhar nas organizações civis que buscaram colaborar para a reinserção dos exilados nas suas respectivas sociedades. Assim, o leitor é informado sobre o surgimento e as primeiras formas de atuação das principais organizações de direitos humanos voltadas para a temática do exílio na Argentina e no Uruguai. Posteriormente, a autora foca as relações existentes entre as organizações argentinas e uruguaias, já que as primeiras passaram pelo processo de redemocratização e consequente recepção do exílio dois anos antes daquelas instaladas no país vizinho. Aqui o leitor encontra um dos pontos inovadores da obra, que permite, além da familiarização com as trajetórias das principais associações de direitos humanos que se dedicaram ao exílio – como Osea (Oficina de Solidaridad con Exilio Argentino) e a Caref (Comisión Argentina para los Refugiados) na Argentina e a CRU (Comisión para el Reencuentro de Uruguayos), SER (Servicio Ecuménico de Reintegración), Sersoc (Servicio de Rehabilitación Social) e SES (Servicio Ecomunénico Solidario) do Uruguai -, também com as relações mantidas com partidos políticos, demais associações de direitos humanos e com as igrejas. Ainda se pode compreender como, apesar de alguns pontos de preocupação comuns, as políticas de atuação nos dois países foram distintas. Enquanto na Argentina a Osea e a Caref se preocuparam em colocar o exilado no lugar de vítima da repressão, e não de algoz, no Uruguai, a preocupação maior foi em não criar uma hierarquização da dor.

Ao final dessa segunda parte, o leitor se depara com os principais conflitos enfrentados por essas organizações no momento de preparar a recepção, como a temática do “privilégio”, debatida em ambos os países, mas com ênfases diferentes. Enquanto na Argentina a ideia de evitar privilégios aos exilados passava necessariamente por comprovar que não se auxiliavam os “subversivos-guerrilheiros”, seja com ajuda financeira, moradia ou reinserção empregatícia, no Uruguai a questão era conceder ajuda indistintamente a exilados, libertados após anos de prisão e desempregados afetados pela crise econômica grave que se instalara no país nos anos militares.

Na última parte do livro, a pesquisadora preocupa-se com a atuação do Estado em relação às políticas de recepção do exílio e os problemas legais decorrentes desta. Esse ponto foi muito mais presente na Argentina – cuja ideia de justiça passava por não arquivar as causas judiciais abertas pelos militares contra os assim considerados “subversivos” e culpabilizar também a esquerda pela repressão perpetrada. A Lei de Anistia, ditada no Uruguai logo após a subida do presidente Sanguinetti ao poder, permitiu aos uruguaios um retorno mais tranquilo à pátria.

Por fim, a autora trabalha com as comissões oficiais criadas pelos Estados para promover o retorno de exilados. A Comisión Nacional para el Retorno de los Argentinos en el Exterior (Cnrae), criada por Alfonsín em 1984, teve pouca atuação efetiva na reincorporação dos desterrados, já que a grande questão a ser enfrentada naquele país era o desaparecimento. Promovendo uma hierarquização do sofrimento e difundindo a imagem do exilado-subversivo, o governo alfonsinista não deu prioridade ao retorno daqueles que viviam no exterior. Por outro lado, a Comisión Nacional de Repatriación, criada no Uruguai junto com a Lei de Anistia em 1985, apesar de não dispor de grandes recursos financeiros, trabalhou intensamente para que todos os uruguaios – exilados políticos e econômicos – encontrassem as condições mais propícias para o seu retorno à nação democrática.

Atuando em um tema candente da América Latina, Soledad Lastra inclui-se em uma série de estudos que buscam lançar luz ao exílio argentino trabalhando-o na chave comparativa e na relação com o restante da América Latina, como nos textos de Pablo Yankelevich, Ráfagas del exilio: argentinos em México,2 e de Silvina Jensen, Agendas para una historia comparada de los exilios masivos del siglo xx. Los casos de España y Argentina.3 Em Volver del exilio, a autora levanta importantes questões para a compreensão das redemocratizações do subcontinente, mostrando a necessidade de inserir as políticas de recepção ao exílio na ampla conjuntura do debate dos direitos humanos no pós-ditadura e da atuação dos Estados recém-instalados na promoção da justiça e na pacificação. Dessa forma, destaca que sua preocupação não é criar uma ideia maniqueísta de boas ou más políticas, mas inseri-las no contexto de revisão da repressão existente em cada um dos países.

Para a pesquisadora, o enfoque na história comparada evitaria o uso das “excepcionalidades nacionais” na compreensão das políticas de reinserção do exilado e das próprias redemocratizações (p. 29). No entanto, ressaltamos que as explicações dadas para as brutais diferenças entre as políticas de recepção argentinas e uruguaias, mesmo que inseridas no contexto de redemocratizações da América Latina, se encontram exatamente no contexto nacional em que essas se deram. Assim, é impossível entender a maior dificuldade de reinserção do exilado argentino se deixarmos de lado a opção do governo Alfonsín por acusar também a esquerda pela instalação da repressão. Por outro lado, se podemos questionar a impunidade dos militares uruguaios, foi a Lei de Anistia proposta pelo governo Sanguinetti que permitiu às organizações de direitos humanos promover o reingresso maciço dos desterrados naquele país.

A comparação também não pareceu capaz de elucidar as diferenças em relação às imagens do exílio com as quais as organizações tiveram de lidar, que dependeram muito mais do contexto de redemocratização de cada um dos países. Se essa metodologia traz um ganho significativo para o trabalho ao permitir a compreensão das relações mantidas entre as associações argentinas e uruguaias entre os anos de 1984 e 1986, não aclara por completo as dificuldades maiores encontradas no caso argentino pela Osea e pela Caref para reinserirem o exilado.

Com esse livro, Soledad Lastra levanta novos questionamentos sobre as políticas de reinserção dos desterrados, mostrando como a atuação do Estado foi decisiva na imagem criada sobre o desterro e afetou diretamente a atuação dos organismos sociais que buscaram promover o retorno na América Latina. Além disso, o livro ajuda a compreender melhor como a política de direitos humanos instalada no Cone Sul é muito complexa, não podendo ser trabalhada somente a partir do julgamento ou não dos militares que chefiaram as ditaduras. Dessa forma, Volver del exilio amplia o debate sobre as redemocratizações, e questiona alguns paradigmas da ideia de justiça que se instalaram nos pós-ditaduras na América Latina.

Referências

JENSEN, Silvina. Agendas para una historia comparada de los exilios masivos del siglo xx. Los casos de España y Argentina. Pacarina del Sur. Revista de Pensamiento Crítico Latinoamericano, dossiê 1, out.-dez. 2011. Disponível em: Disponível em: http://www. pacarinadelsur.com/ediciones/numero-9 . Acesso em: 12/09/2017. [ Links ]

JENSEN, Silvina & LASTRA, María Soledad (ed.). Exilios: militancia y represión: nuevas fuentes y nuevos abordajes de los destierros de la Argentina de los años setenta. Edulp: Editorial de la Universidad Nacional de La Plata, 2014. [ Links ]

LASTRA, María Soledad. Volver del exilio. Historia comparada de las políticas de recepción en las posdictaduras de la Argentina y Uruguay (1983-1989). La Plata: Universidad de la Plata; Buenos Aires: Universidad Nacional de General Sarmiento; Posadas: Universidad Nacional de Misiones, 2016, 301 p. Disponível em e-book em: Disponível em e-book em: http://www.memoria.fahce.unlp.edu.ar/library?a=d&c=libros&d=Jpm486 , acessado em 12/09/2017. [ Links ]

YANKELEVICH, Pablo. Ráfagas de un exilio: argentinos en México, 1974-1983. Cidade do México: Colegio De Mexico AC, 2009. [ Links ]

1JENSEN, Silvina & LASTRA, María Soledad (ed.). Exilios: militancia y represión: nuevas fuentes y nuevos abordajes de los destierros de la Argentina de los años setenta. Universidad Nacional de La Plata: Edulp, 2014.

2YANKELEVICH, Pablo. Ráfagas de un exilio: argentinos en México, 1974-1983. Cidade do México: Colegio de Mexico AC, 2009.

3JENSEN, Silvina. Agendas para una historia comparada de los exilios masivos del siglo xx. Los casos de España y Argentina. Pacarina del Sur. Revista de Pensamiento Crítico Latinoamericano, dossiê 1, out.-dez. 2011. Disponível em http://www.pacarinadelsur.com/ediciones/numero-9. Acesso em: 12/09/2017.

Ana Carolina Balbino – Doutoranda na área de Política, Cultura e Cidade, do Instituto de Filosofia e Ciências Humanas (IFCH) da Universidade Estadual de Campinas – Unicamp. Autora da dissertação de mestrado O exílio em manchete: O retrato dos exilados na imprensa argentina durante a redemocratização (1982-1984), defendida em 2015 no Programa de pós-graduação da mesma instituição. E-mail: carol.historia06@gmail.com.

Conceiving Freedom: Women of Color, Gender, and the Abolition of Slavery in Havana and Rio de Janeiro – COWLING (RBH)

COWLING, Camillia. Conceiving Freedom: Women of Color, Gender, and the Abolition of Slavery in Havana and Rio de Janeiro. Chapel Hill: The University of North Carolina Press, 2013. 344p. Resenha de: SANTOS, Ynaê Lopes dos. Revista Brasileira de História. São Paulo, v.36, no.72, MAI./AGO. 2016.

Ramona Oliva e Josepha Gonçalves de Moraes poderiam ter sido heroínas dos folhetins e romances que enchiam de angústia e compaixão a alma dos leitores do final do século XIX. Negras, cativas ou ex-escravas, essas mulheres foram em busca do aparato legal disponível em Havana e no Rio de Janeiro, respectivamente, e fizeram de sua condição e do afeto materno as principais armas na longa luta pela liberdade de seus filhos na década de 1880. Todavia, a saga dessas mulheres não era fruto da vertente novelesca do século XIX e tampouco foi fartamente estampada nos jornais da época. Para conhecer e nos contar essas histórias, Camillia Cowling fez uma intensa pesquisa em arquivos do Brasil, de Cuba, Espanha e Grã-Bretanha, tecendo com o cuidado que o tema demanda a trajetória de mulheres negras – libertas e escravas – que entre o fim da década de 1860 e a abolição da escravidão em Cuba (1886) e no Brasil (1888) utilizaram o aparato legal disponível nas duas maiores cidades escravistas das Américas para lutar pela liberdade de seus filhos e filhas.

A fim de dar corpo a uma história que muitas vezes é apresentada como estatística, a autora examinou uma série de documentos legais produzidos a partir da década de 1860 para compreender os caminhos traçados por algumas mulheres em busca da liberdade. Em pleno diálogo com as importantes bibliografias sobre gênero e escravidão produzidas nos últimos anos, Camillia Cowling nos brinda com um livro sobre mulheres negras, maternidade, escravidão e liberdade, demonstrando como as histórias de Ramona, Josepha e outras tantas libertas e escravas, longe de serem anedotas do sistema escravista, podem ser tomadas como portas de entrada para a compreensão mais fina da dinâmica da escravidão no Novo Mundo nas duas últimas localidades em que essa instituição perdurou.

A complexidade do tema abordado e o ineditismo das articulações entre história da escravidão nas Américas, abolicionismo, dinâmica urbana, agência de mulheres negras, maternidade e processos jurídicos se expressam na forma como a autora organizou sua obra.

Na primeira parte de seu livro, Camillia Cowling trabalhou com a relação entre escravidão e espaço urbano naquelas que foram as maiores cidades escravistas das Américas, Havana e Rio de Janeiro. Analisando as dinâmicas de funcionamento da escravidão urbana, a autora sublinhou que as cidades não devem ser tomadas como mero pano de fundo dos estudos sobre escravismo nas Américas, e assim construiu uma narrativa que corrobora boa parte do que a historiografia aponta: a força que a escravidão exerceu sobre o funcionamento dessas urbes. Tal força poderia agir tanto nas especificidades geradas em torno das atividades executadas pelos escravos urbanos – sobretudo no que tange à maior autonomia dos escravos de ganho -, como nos sentidos e usos que essas cidades passaram a ter para a população escrava e liberta, a qual muitas vezes fez do emaranhado espaço citadino esconderijos e refúgios de liberdade. O engajamento jurídico das mulheres escravas e libertas frente às políticas graduais de abolição de cada uma dessas cidades é, pois, apresentado como mais uma característica da complexa dinâmica que permeou a escravidão urbana no Rio de Janeiro e em Havana.

A escolha pelas duas cidades não foi aleatória, muito menos pautada apenas por índices demográficos. Ainda que a autora tenha anunciado trabalhar com base na metodologia da micro-história, a abordagem comparativa que estrutura sua análise se pauta no diálogo com perspectivas mais sistêmicas da escravidão das Américas, principalmente com as balizas que norteiam a tese da segunda escravidão (Tomich, 2011). Como vem sendo defendido por uma crescente vertente historiográfica, a paridade entre Havana e Rio de Janeiro – pressuposto fundamental da análise de Camillia Cowling – seria resultado de uma série de escolhas semelhantes feitas pelas elites de Cuba e do Brasil em prol da manutenção da escravidão desde o último quartel do século XVIII até meados do século XIX, mesmo em face do crescente movimento abolicionista. Tal política pró-escravista (que também foi levada a cabo pelos Estados Unidos) teria permitido que a escravidão moderna se adequasse à expansão capitalista, criando assim um chão comum na dinâmica da escravidão nessas duas localidades, inclusive no que concerne às possibilidades legais que os escravos acionaram para lutar pela liberdade – possibilidades essas que se ampliaram após a abolição da escravidão nos Estados Unidos. Não por acaso, as capitais de Cuba e do Brasil transformaram-se em espaços privilegiados para que mulheres negras, apropriando-se do próprio conceito de maternidade e ressignificando-o, utilizassem as leis abolicionistas reformistas, nomeadamente a Lei Moret de Cuba (1870) e a Lei do Ventre Livre do Brasil (1871), para resgatar seus filhos do cativeiro.

Os caminhos percorridos pelas mulheres escravas e libertas e as muitas maneiras por meio das quais elas conceberam a liberdade (de seus filhos e delas próprias) passam a ser examinados pormenorizadamente a partir da segunda parte do livro. A pretensa universalidade do direito sagrado da maternidade foi uma das ferramentas utilizadas nos discursos abolicionistas do Brasil e de Cuba, os quais apelavam para um sentimento de igualdade entre as mães, independentemente de sua cor ou condição jurídica. Como destaca a autora, a evocação do sentimento de emoção transformou-se numa estratégia importante do movimento abolicionista que, a um só tempo, pregava a sacralidade da maternidade e ajudava a forjar um novo código de conduta da elite masculina, que começava a enxergar a mulher escrava de outra forma.

Camillia Cowling demonstra que a sacralidade universal da maternidade foi apreendida de diferentes formas nas sociedades escravistas. Se por um lado, a partir da década de 1870, tal assertiva ganhou força quando a liberdade do ventre ganhou status de lei, por outro lado a pretensa igualdade que a maternidade parecia garantir para as mulheres muitas vezes parecia restringir-se ao campo jurídico, mais especificamente, à luta gradual pela liberdade. Revelando uma vez mais a complexidade dos temas abordados, Camillia Cowling destaca que esses mesmos abolicionistas muitas vezes descriam na feminilidade das mulheres negras (brutalizadas pela escravidão), colocando-se contrários às relações inter-raciais, embora defendessem a manutenção das famílias negras.

Todavia, nesse contexto, o ponto alto do livro reside justamente no exame das estratégias empregadas pelas mulheres negras para lutar, juridicamente, pela liberdade não só de seu ventre, mas de seus filhos. A compreensão que essas mulheres tinham das leis graduais de abolição; o entendimento também compartilhado por elas de que as cidades do Rio de Janeiro e de Havana não eram apenas espaços privilegiados para suas lutas, mas também uma parte importante para a definição do que a liberdade poderia significar; e as redes de solidariedade tecidas por essas mulheres, que muitas vezes extrapolavam os limites urbanos, são algumas das questões trabalhadas pela autora.

Os desdobramentos dessas questões são muitos, a maioria dos quais analisada por Camillia Cowling na última parte de seu livro. As concepções que as mulheres negras desenvolveram sobre liberdade e feminilidade com base na maternidade merecem especial atenção, pois elas permitem, em última instância, redimensionar os conceitos de escravidão e, sobretudo, de liberdade nos anos finais de vigência da instituição escravista das Américas e nos primeiros anos do Pós-abolição. Se é verdade que, assim como aconteceu como Josepha Gonçalves e Ramona Oliva, a luta jurídica pela liberdade de seus filhos não teve o desfecho desejado e eles continuaram na condição de cativeiro, os caminhos e lutas trilhados por elas não só criaram outras formas de resistência à escravidão – que por vezes, tiveram outros desfechos -, como ajudaram a pautar práticas de liberdade e de atuação política que ganhariam novos contornos na luta pela cidadania plena alguns anos depois.

O tratamento dado pela autora sobre a luta de mulheres/mães pela liberdade de seus filhos e a forma por meio da qual ela enquadra tais questões naquilo que se convém chamar de “contexto mais amplo” faz que Conceiving Freedom possa ser tomado como uma importante contribuição nos estudos da escravidão urbana, não só por sua perspectiva comparada, mas também por trabalhar num território de fronteira da historiografia clássica, demonstrando que os limites entre o mundo escravista e o mundo da cidadania não podem ser balizados apenas pela declaração formal da abolição da escravidão. A luta começou antes dessas datas oficiais e continuou nos anos seguintes, sobre isso não restam dúvidas. Todavia, o protagonismo desse movimento não se restringiu às ações dos homens que lutaram pela abolição. Ao invés de fechar uma temática, o trabalho de Cowling indica novos caminhos num campo que poderá trazer contribuições promissoras para os estudos da escravidão e da liberdade nas Américas.

Por fim, vale ressaltar que num momento político como o atual, em que tanto se fala, se discute e se experimenta o empoderamento de mulheres negras, o livro de Camillia Cowling é igualmente bem-vindo. Não só por iluminar trajetórias que foram silenciadas ou tratadas como simples anedotas (demonstrando que a luta não é de hoje), mas igualmente por permitir repensar os moldes e os modelos por meio dos quais as histórias e as memórias da escravidão e da luta pela liberdade são construídas.

Referências

TOMICH, Dale. Pelo prisma da escravidão: trabalho, capital e economia mundial. São Paulo: Edusp, 2011. [ Links ]

Ynaê Lopes dos Santos – Doutora em História Social pela Universidade de São Paulo (USP). Professora Adjunta de História da Escola Superior de Ciências Sociais CPDOC-FGV. Rio de Janeiro, RJ, Brasil. E-mail: ynae.santos@fgv.br.

Sociologia no Espelho. Ensaísticas, cientistas sociais e críticos literários no Brasil e na Argentina (1930-1970) – BLANCO; JACKSON (PH)

BLANCO, A.; JACKSON, L. C. Sociologia no Espelho. Ensaísticas, cientistas sociais e críticos literários no Brasil e na Argentina (1930-1970). São Paulo: Editora 34, 2014. Resenha de: TEDESCO, Alexandra Dias Ferraz. Historiadores e sociólogos no espelho. Projeto História, São Paulo, n. 54, pp. 322-330, Set.-Dez. 2015.

A obra de Luiz Carlos Jackson e Alejandro Blanco que comentaremos nesse espaço, Sociologia no Espelho – Ensaístas, cientistas sociais e críticos literários no Brasil e na Argentina (1930-1970), publicada em português pela Editora 34, em 2014, traz, em seu título, algumas das implicações e tensões que constituem o próprio cerne da hipótese do livro. A proposta chama atenção não apenas pelo recorte temporal (datas paradigmáticas nos dois países, que sugerem ainda um período de constantes choques políticos e tensões sociais) mas, principalmente, pela multiplicidade de agentes em análise e em interação, que abre caminho para a hipótese estruturadora da análise dos dois autores: a ideia de que as trajetórias intelectuais operam em relação dinâmica com o contexto de institucionalização das referidas áreas acadêmicas e, ainda, que se pautam – em maior ou menor grau – pelas vicissitudes dos processos sociais que se desenvolvem na esfera não-acadêmica. Assim, embora a proposta do livro aborde, com riqueza de detalhes, algumas oscilações epistemológicas importantes, as questões políticas e sociais não aparecem de forma sorrateira na análise, outrossim, constituem matéria de base para a compreensão da relação entre ensaístas, cientistas sociais e críticos literários nos dois contextos.

Seguindo a proposta dialética da obra, o lugar intelectual de que falam os autores é um dado importante para a compreensão mais ampla da proposta metodológica contida na obra. Alejandro Blanco, graduado em sociologia pela Universidade de Buenos Aires e doutor em História pela mesma universidade, atualmente pesquisador do CONICET, desenvolve uma série de pesquisas no âmbito da História Intelectual, notadamente sobre o processo de institucionalização da sociologia na Argentina.1 Luiz Carlos Jackson, por seu lado, professor de Sociologia da Universidade de São Paulo trabalhou, em sua tese de Livre Docência na mesma Universidade com a perspectiva da Sociologia Comparada.2 Essas breves considerações biográficas ajudam a contextualizar o esforço conjunto do qual resulta Sociologia no Espelho, na medida em que as problematizações buscadas na obra refletem uma importante flexibilidade disciplinar, fundamental, em nosso ponto de vista, para dar corpo a um projeto comparativo que trabalha na fronteira entre a sociologia da cultura, a análise das trajetórias e a história intelectual. É nesse amalgama, inclusive, que o livro ganha centralidade também nas discussões historiográficas, notadamente naquelas que pretendem abrir-se a diálogos transversais, abrindo mão de uma visão laudatória de suas fronteiras epistemológicas. O esforço por operar com um escopo metodológico tão amplo e diversificado dá a tônica, como veremos, da estruturação dos capítulos.

A obra, que conta com prefácio do professor Sergio Miceli, está dividida em três capítulos. São eles, A Batalha dos Gêneros, focado nas relações nem sempre amistosas entre a sociologia e as disciplinas já consolidadas nos campos intelectuais dos dois países – notadamente com o ensaio, Sociologias Comparadas, momento em que os autores aprofundam a reflexão teórica e descortinam as vinculações temáticas dessa sociologia que emerge, nos dois países, a partir das décadas de 1930 e 1940 e, por fim, Terrenos da Crítica, onde a análise se dirige para as relações desse processo de institucionalização da sociologia com o amadurecimento de uma crítica literária profissional nos dois países.

É importante destacar que, ademais da clareza da divisão dos capítulos, há fios condutores evidentes entre eles, quais sejam: a natureza dinâmica do método que evita comparações estanques, procurando lançar uma luz conjunta aos dois contextos, a relação entre o processo de institucionalização da sociologia com os processos político sociais mais amplos e, não menos importante, a articulação das hipóteses a partir da trajetória do que os autores denominam como os “quatro ases” desses processos: Gino Germani e Adolfo Prieto, no caso argentino, e Florestan Fernandes e Antonio Candido, no caso brasileiro. Detenhamo-nos agora, brevemente, aos desdobramentos da hipótese.

O primeiro capítulo parte da ideia de que os embates pelos quais a sociologia procurou se colocar no rol das instâncias de fala acadêmica autorizada foram, nos dois contextos, distintos, sobretudo no grau desses enfrentamentos. No caso argentino, a existência de uma ampla rede de financiamento privado de revistas e circuitos intelectuais operando à margem de uma Universidade que, embora mais antiga que as brasileiras, esteve permanentemente exposta às intervenções do campo político, contribuiu para uma relação de enfrentamento mais branda em relação às tradições consagradas da tradição intelectual argentina, notadamente o ensaio. Além disso, a composição social argentina das décadas de 1930 a 1950 – com a entrada maciça de imigrantes e o aumento de demandas de inserção da classe média – fomentou uma composição mais diversificada para o recrutamento dos universitários na década de 1950. Essa circunstância favoreceu, na análise dos autores, a emergência da sociologia como voz paralela no campo acadêmico, na medida em que a tônica dos ensaios que circulavam na Argentina nas décadas de 1930 e 1940 – e que eram dominados por autores amplamente lastreados por vinculações pessoais e familiares com o mercado privado de instâncias culturais tradicionais, como cafés e salões – não se propunha a reconstituir os nexos históricos e sociais da formação do país, estando muito mais vinculados à chamada “literatura de crise”.3 Comparativamente, o caso brasileiro apresenta um panorama distinto. Nesse caso, o processo de institucionalização dos estudos sociológicos é confrontado com um campo literário consolidado, desde meados do Segundo Império, em torno do romance. Nesse campo já bastante articulado, a relação estreita entre essa tradição romancista e os ensaístas dos “estudos sociais” brasileiros, como Gilberto Freyre e Sergio Buarque de Hollanda, promoveu uma configuração salutar: na medida em que as propostas sociológicas desenvolvidas na USP e na ELSP confrontaram-se em termos metodológicos de forma mais dura que em relação ao caso argentino, o fato de esses literatos pertencerem a uma larga tradição de vinculação burocrática e institucional, leva a uma flagrante continuidade nos temas, pelo menos até a década de 1950.4 Em suma, o problema da “formação da nação” marca essa confluência de temas, muito embora a “forma” literária fosse questionada pelo projeto empírico que se gestava nas instituições de sociologia de São Paulo.

No segundo capítulo, uma pergunta inicial aglutina e justifica as digressões teórico-metodológicas que se seguem. Precisamente, como explicar, apesar das diferenças sugeridas no capítulo anterior, o aparecimento de empreendimentos intelectuais tão bem sucedidos, como os de Gino Germani, no caso argentino, e de Florestan Fernandes, no caso brasileiro? A resposta passa por uma análise da questão estrutural das Universidades em que operam esses agentes. A partir de um histórico da formação das três instituições centrais da análise, quais sejam, a Faculdad de Filosofia y Letras da UBA (1896), a Faculdade de Filosofia e Ciências Humanas da USP (1934) e a Escola Livre de Sociologia e Política (1933), o cotejamento dos autores se direciona a pensar de que forma as condições institucionais desses três centros viabilizaram, oportunizaram ou dificultaram um projeto acadêmico bastante ambicioso que une dois “ases” desse processo: Gino Germani e Florestan Fernandes. Na análise comparada, chegam à conclusão de que enquanto Florestan operava a partir de uma tradição mais consolidada e de uma ampla rede de apoiadores (formada, o que não é destituído de importância, por sumidades como D. Pierson e R. Bastide), Germani não conta com essa retaguarda, tampouco com um capital cultural acadêmico comparável ao brasileiro. Sinteticamente, “o brasileiro caminhou da ciência à política, o argentino trilhou o caminho inverno” (161).

Essa condição é fundamental pois é a partir das respectivas tradições intelectuais e institucionais em que se inseriram que os sociólogos desenvolvem suas estratégias de legitimação no espaço público. As Universidades argentinas, como apontado anteriormente, sofreram com longas intervenções – especialmente, a Universidade de Buenos Aires. Posto isso, os espaços acadêmicos atuaram como peça fundamental no acumulo de capital cultural dos intelectuais argentinos, motivo pelo qual a relação do mundo intelectual com o mundo político é comparativamente mais permeada por tensões e oscilações. No caso brasileiro, onde o Estado foi o grande empregador dos “homens de letras” ao longo de toda a primeira metade do século XX, a estrutura universitária era substancialmente mais rígida, o que torna os empreendimentos da sociologia mais orgânicos institucionalmente e, ao mesmo tempo, mais heterônomos em relação à tradição intelectual já estabelecida.

Já postas, dessa forma, as vicissitudes do processo inicial de enfrentamento da sociologia e constituição como uma disciplina autônoma nos dois países, e já balizados seus principais articuladores teóricos em confluência com as questões institucionais, passa-se para o capítulo final, Terrenos da Crítica. Nesse momento da análise a sociologia desponta, enquanto disciplina institucionalizada e em vias de especialização, enquanto legitimadora de uma série de prestígios acadêmicos, relações fundadas tanto no projeto teóricoepistemológico desenvolvido nos dois contextos, quanto nas trajetórias de seus dois protagonistas, que dão uma medida da posição de destaque que a sociologia ocupou, nos dois países, em relação a outras disciplinas do campo acadêmico.

Embora a esta altura já esteja claro que os embates da sociologia para estabelecer-se enquanto disciplina autônoma foram gradualmente distintos nos dois países, a tensão que se observa entre essas perspectivas sociológicas ascendentes e o campo da crítica literária é um fator em comum em ambos os contextos. Em síntese, “nos dois casos e quase ao mesmo tempo a crítica literária aproximou-se da sociologia, esforçando-se por obter um estatuto mais científico do que detinha até, aproximadamente, a primeira metade do século XX” (pg.

167). Como explicar, no entanto, esse movimento compartilhado? Para encontrar essa resposta, Blanco e Jackson trazem mais dois “ases” para o desenvolvimento do argumento: o argentino Adolfo Prieto e o brasileiro Antonio Candido. A análise dessas trajetórias procura levar em conta as tradições intelectuais nas quais se plasmam e, especificamente, as formas de inscrição institucional da crítica literária nos dois países. Salientando a relação díspar dos dois autores em relação ao polo central, representado então pela sociologia, os autores historicizam essas trajetórias cuidadosamente, considerando aspectos às vezes tidos como marginais, como a repercussão das publicações periódicas na definição de um espaço de autonomia para a crítica literária. Ao fim e ao cabo, a posição marginal do crítico literário Adolfo Prieto – atuante em universidades marginais da Argentina – e a posição central de Candido – ligado originalmente ao grupo de Florestan Fernandes na USP – contribuem para entender as disputas epistemológicas travadas por eles dentro de um quadro mais amplo, constituído em função da estrutura dos campos intelectuais em que se inseriram.

Nesse sentido, para dimensionar o impacto da sociologia na Crítica Literária é fundamental ter em vista que o método empírico, repertório teórico e epistemológico que une os projetos de Germani e de Florestan, logrou tornar-se, nas décadas de 1950 e 1960, o próprio paradigma através do qual deveriam se legitimar as análises sobre a modernização nos dois países. Dessa forma, observar de que forma os críticos literários foram confrontados com esse critério de validação, e de que forma se apropriaram do mesmo, é, indiretamente, perscrutar a circulação acadêmica do projeto sociológico, considerando suas distinções mas entendendo-o, como está suposto na proposta da obra, sob o mesmo foco de luz comparativo.

Os capítulos, como pretendemos demonstrar, abordam as tradições intelectuais dos dois países, as vicissitudes das organizações acadêmicas do Brasil e da Argentina e, por fim, as trajetórias dos “quatro ases” a partir de uma perspectiva comparada. A defesa do método, contudo, não é apenas um artifício narrativo, mas constitui o centro da hipótese, e perpassa os capítulos de forma sincrônica, conferindo a eles uma perspectiva contingente, atenta aos perigos de naturalizar determinadas relações entre sujeitos e objetos de pesquisa.

Consideramos, nesse sentido, que a contribuição do livro passa pela consideração das estratégias dos discursos científicos, acadêmicos, intelectuais, enquanto constituintes das dinâmicas de prestígio que organizam as relações entre as disciplinas. Dessa forma, é nessa trincheira entre auto-referenciamento disciplinar e cooperação metodológica que o livro ganha relevância, também, para historiadores.

Entender a disputas entre sociólogos, ensaístas e críticos literários – admitindo, quando é o caso, suas continuidades – em termos de estratégia de legitimação específicas pode indicar, no campo da história, um caminho de auto-reflexidade importante: assim como os “ases” do baralho em que se movem os sujeitos da pesquisa oscilam nas posições dentro do campo, as fronteiras disciplinares não respondem, somente, à discordâncias epistemológicas: são organizadoras do campo e, como tal, exigem, permanentemente, a “vigilância epistemológica” sugerida por Pierre Bourdieu.5 Não se trata, dessa forma, de obscurecer especificidades, mas de abrir-se ao diálogo, de abrir-se a um esforço conjunto de entendimento do mundo intelectual.

Notas

1 Além de uma série de artigos sobre a recepção de autores como Weber e Simmel na Argentina, é possível consultar, também, Razón y Modernidad, publicado em 2006 pela Editora Siglo XXI.

2 No caso de Jackson é possível consultar, além de seus estudos sobre a chamada Escola Paulista de Sociologia, a obra Os Parceiros do rio Bonito e a Sociologia de Antônio Cândido, publicado pela Editora da UFMG em 2002.

3 Esse é um dado importante para compreender os embates dentro do campo intelectual argentino, na medida em que, nesse caso, dá-se uma separação entre o campo acadêmico universitário (mais diretamente influenciado pelas hecatombes políticas das décadas de 1930 e de 1940) e uma longa e consolidada tradição de circulação de ideias e intelectuais nos ambitos privados, restritos às sociabilidades criollas. Exemplo dessa condição é o próprio CLES (Colégio Livre de Estudos Superiores) que atua – nos momentos de intervenção peronista na Universidade – como alternativa aos intelectuais que tiveram suas cátedras caçadas durante o regime. A existência e a força dessas plataformas de consagração acadêmica extra-universitárias, portanto, contribui para que a sociologia que emerge dentro do mundo acadêmico, na década de 1950, não dispute a mesma posição no campo intelectual. É um contraste bastante marcado em relação ao caso brasileiro, onde a tradição literária esteve, desde sua origem, vinculada às instituições acadêmicas, tanto por seu público como pela trajetória de seus principais autores.

4 Os autores levam em conta, nessa análise comparativa, que enquanto Buenos Aires era o grande centro da vida intelectual argentina, centralizando a maior parte desses embates, o caso brasileiro apresenta um outro fator de complexidade: as cidades de São Paulo e Rio de Janeiro vivenciaram processos radicalmente distintos. Enquanto na primeira, pela questão da imigração e da relativa distância dos centros políticos de decisão, foi possível pensar a sociologia enquanto um projeto de cunho científico, no caso carioca a precoce criação de institutos ligados ao poder governamental tornou os embates mais imbuídos de conteúdo político. Essa relação é perene ao longo de todos os capítulos do livro, na medida em que se, em certos sentidos, Buenos Aires aparece em relação de similitude com o Rio de Janeiro – pela proximidade do poder e pelas redes de burocracia oficiais que se constituíam num fator dificultador da economia -, em termos de base de recrutamento e de projeto teórico e metodológico, a capital portenha possuía paralelos importantes com a cidade de São Paulo.

5 BOURDIEU, P. Meditações Pascalianas. Rio de Janeiro. Bertrand Brasil, 2001.

Alexandra Dias Ferraz Tedesco – Mestre em história pela UNESP, campus de Franca, e doutoranda do programa de Pós Graduação em História da UNICAMP, bolsista do CNPq.

Por uma teoria e uma história da escola primária no Brasil: investigações comparadas sobre a escola graduada (1870-1930) – SOUZA et al. (RBHE)

SOUZA, R. F.; SILVA, V. L. G.; SÁ, E. F. Por uma teoria e uma história da escola primária no Brasil: investigações comparadas sobre a escola graduada (1870-1930). Cuiabá: EDUFMT, 2013. Resenha de: SÁ, Jauri dos Santos. Revista Brasileira de História da Educação, Maringá, v. 14, n. 3 (36), p. 319-323, set,/dez. 2014.

Por uma teoria… reúne as reflexões de um grupo de pesquisadores de distintos estados brasileiros que se ocuparam da investigação em perspectiva comparada, com ênfase na escola graduada, no período compreendido entre 1870 e 1930. Às pesquisadoras Rosa Fátima de Souza, Vera Lucia Gaspar da Silva e Elizabeth Figueiredo de Sá coube a difícil tarefa de selecionar e organizar uma amostra desse material, síntese de parte da produção desenvolvida ao abrigo do projeto de pesquisa Por uma teoria e uma história da escola primária no Brasil: investigações comparadas sobre a escola graduada (1870-1930), coordenado por Rosa Fátima de Souza.

O projeto original envolveu 15 estados brasileiros, interligando 27 pesquisadores doutores, organizados em 17 Programas de Pós- Graduação em Educação. Com tamanha pluralidade de experiências, a produção foi organizada em quatro grupos temáticos, que, reunidos neste livro, sistematizam a produção dos GTs, refletindo sobre a difusão da escola nova, a cultura material escolar, as representações sociais sobre os grupos escolares ou a institucionalização da escola graduada nos vários estados do Brasil.

O primeiro texto, ‘A escola modelar da República e  escolarização da infância no Brasil: reflexões sobre uma investigação comparada em âmbito nacional’, de Rosa Fátima de Souza, nos oferece uma análise comparativa sobre o processo de institucionalização das escolas graduadas nos diferentes estados brasileiros participantes da investigação, expondo ao leitor o universo da pesquisa. Ao “[…] inquirir sobre as características fundamentais desse tipo de escola, o modo pelo qual ele foi apropriado e se consolidou no Brasil, as alterações sofridas ao longo do tempo e os fundamentos de sua legitimidade” (SOUZA, 2013, p. 24), a autora nos propõe uma reflexão acerca da compreensão dos problemas educacionais e das soluções consideradas para os mesmos.

O segundo artigo, intitulado ‘Os grupos escolares nas memórias e histórias locais: um estudo comparativo das marcas da escolarização primária’, de autoria de Antonio Carlos Ferreira Pinheiro, Antonio d Pádua Carvalho Lopes, Luciano Mendes de Faria Filho e Fernanda Mendes de Resende, discute a questão do ‘acervo’ histórico educacional, particularmente o mineiro, o piauiense e o paraibano, relacionando, comparativamente, a ‘cultura histórica’ numa perspectiva analítica em torno da ideia da ‘cultura educacional’. O artigo trata da fonte escrita a partir das obras de memória e de história dos municípios, forjadas por ‘historiadores de não ofício’, que, no entanto, “[…] por estarem mais próximos do seu lugar de origem exercem papel relevante junto a sua comunidade” (PINHEIRO et al, 2013, p. 96).

José Carlos de Souza Araujo, Rosa Fátima de Souza e Rubia-Mar Nunes Pinto são os autores do terceiro artigo do livro, ‘A escola primária e o ideário republicanista nas mensagens dos presidentes de estado: investigações comparativas (1893-1918)’, que propõe uma ampla análise a respeito da institucionalização dos grupos escolares no Brasil, examinando o discurso político de diferentes estados da federação em relação à instrução pública. Para tal empreendimento, orientam-se pelas Mensagens dos Presidentes dos Estados, questionando sobre a relevância dessa modalidade de escola, sobre as distintas realizações educacionais ou, ainda, se é possível afirmar a existência de um projeto republicano de educação popular no período. As fontes investigadas pelos autores apontam para um processo não uniforme de organização e instalação dos grupos escolares nos Estados, resultado das particularidades políticoeconômicas e culturais, específicas de cada um deles.

‘O Federalismo republicano e o financiamento da escola primária pública no Brasil’, que constitui o quarto artigo, de autoria de Jorge Nascimento e Lucia Maria Franca Rocha, investiga o financiamento da Educação nos Estados durante a Primeira República. Para isso, utiliza, como fonte, as Mensagens Presidenciais de 11 unidades da federação, centrando a comparação em cinco deles. A primeira constatação apontada foi a de que houve uma diversidade de modelos de escolas implantadas em um mesmo Estado, sendo o dos grupos escolares gestado em São Paulo a principal fonte de inspiração. A partir daí, problematizam a questão do financiamento das escolas públicas, o impacto desse tipo de gasto nos orçamentos estaduais e, sobretudo, nos discursos produzidos no âmbito político. De caráter exploratório, o estudo primeiramente compara números, observando-se, como traço comum, o discurso do crescimento dos gastos com a educação na Mensagens, ainda que nem sempre os dados apresentem proporção uniforme. Não obstante, incorpora também as iniciativas privadas e associativas que abordam o problema do financiamento da educação.

O quinto capítulo, ‘A expansão da escola primária graduada nos Estados na primeira república: a ação dos poderes públicos’, de Alessandra Frota Martinez de Schueler, Elizabeth Figueiredo de Sá e Maria do Amparo Borges Ferro, registra que, apesar da paulatina centralidade adquirida pela escola primária graduada nos distintos estados da federação nas primeiras décadas republicanas, não se observou sua diminuição nas mesmas proporções em relação à hegemonia da escola isolada ou singular.

Em ‘Institucionalização do modelo de escola graduada’, o sexto capítulo do livro, as autoras Elizabeth Miranda Lima e Maria Auxiliadora Barbosa Macedo apresentam uma primeira aproximação comparativa do percurso de institucionalização da escola graduada no Brasil, especialmente referente ao processo de circulação, recepção e apropriação do modelo pedagógico. Tendo como base as pesquisas realizadas nos estados do Mato Grosso, Rio de Janeiro, Acre e Goiás, as autoras identificaram diferentes modelos de oferta e organização da instrução pública, onde predominou “[…] a modalidade de Escola

Primária Elementar e Escola Primária Complementar, distribuídas em áreas rural e urbana” (LIMA; MACEDO, 2013, p. 182). Embora materializada em distintos formatos, foi na monumentalidade e no funcionamento didático-pedagógico dos grupos escolares que  modernidade educacional do período republicano era visível, ainda que a oferta do ensino primário permanecesse, quantitativamente, com as escolas isoladas.

Marta Maria de Araújo é a autora do sétimo artigo do livro, ‘A criança, educação de escola (São Paulo e Nordeste do Brasil, 1890- 1930)’, que examina a institucionalização da escola primária republicana, em São Paulo e nos Estados do Nordeste – Sergipe, Maranhão, Piauí, Rio Grande do Norte e Bahia. As fontes investigadas centram-se em decretos, leis, mensagens governamentais, regimentos, relatórios de diretor-geral da instrução pública etc. Os propósitos da autora são de recompor as modalidades de escolas postas e repostas no período, assim como cotejar as similaridades nas suas propriedades gerais e nas suas particularidades e variantes.

O oitavo capítulo, ‘Modernidade metodológica e pedagógica: apropriações do método de ensino intuitivo nas reformas da instruçã pública de Minas Gerais, Santa Catarina e São Paulo (1906-1920): ideias e práticas em movimento’, de Vera Teresa Valdemarin, Gladys Mary Ghizoni Teive e Juliana Cesário Hamdem, registra o movimento de irradiação das ideias pedagógicas difundidas no Brasil ao final do século XIX, tendo o método de ensino intuitivo como o “[…] elemento pedagógico imprescindível para estabelecer diferenciações entre o futuro desejado e a realidade a ser modificada” (VALDEMARIN; TEIVE; HAMDEM, 2013, p. 240). Adotando a lógica comparativa, as autoras analisam a circulação do método intuitivo nos Estados de Minas Gerais,

Santa Catarina e São Paulo, considerando as diferenças como elementos constitutivos. As análises demonstram que o método de ensino intuitivo estabeleceu lugares de irradiação de ideias e práticas, apoio interpretações comuns, contribuindo para pôr em circulação ideias de distintos autores.

Em ‘Cultura material escolar: fontes para a história da escola e da escolarização elementar (MA, SP, PR, SC e RS, 1870-1925)’, nono artigo do livro, os autores César Augusto de Castro, Diana Gonçalves Vidal, Eliane Peres, Gizele de Souza e Vera Lucia Gaspar da Silva examinam algumas fontes indicativas da materialidade da escola primária brasileira. Variando o período eleito para a pesquisa, entre a segunda metade do século XIX até o ano de 1925, os autores definiram cinco tipos de fontes: carta de professor, da escola; documentos administrativos; relatórios; jornais e legislação, documentos com potencial de revelar pistas de determinados objetos escolares.

Buscando favorecer “[…] o entendimento das possíveis táticas de apropriação diversificadas e até discordantes dos múltiplos dispositivos da cultura escolar” (CASTRO et al, 2013, p. 295), os autores desse último artigo tratam de identificar os modos de produção e disseminação de um modelo de escolarização no Brasil, a partir da comparação entre os distintos estados, retratando, por meio da materialidade escolar, os investimentos que mantinham e faziam funcionar as escolas públicas.

O leitor interessado em conhecer as diversas experiências concretizadas nas muitas realidades do país encontrará nessa obra uma rica coletânea de artigos. O livro assume, conforme as palavras das organizadoras1, “[…] o desafio da comparação […]” (SOUZA; SÁ, 2013, p. 15), oferecendo um bom panorama das pesquisas sobre a história da escola primária no Brasil, orientadas por quatro grupos temáticos: representações, práticas, apropriações e materialidades.

Notas

1 Rosa Fátima de Souza é professora da Universidade Estadual Paulista Júlio de Mesquita Filho, no Departamento de Ciências da Educação e Professora do Programa de Pós-Graduação em Educação Escolar da Faculdade de Ciências e Letras da UNESP/Campus de Araraquara. Vera Lucia Gaspar da Silva é professora do Centro de Ciências Humanas e da Educação (FAEd) e do Programa de Pós-Graduação em Educação da Universidade do Estado de Santa Catarina (UDESC). Coordenadora do Museu da Escola Catarinense entre 2004 e 2008. Elizabeth Figueiredo de Sá é coordenadora do grupo de Pesquisa História da Educação e Memória – GEM-IE-UFMT, pesquisadora na área da História da Educação no Núcleo Interdisciplinar de Estudos e Pesquisa em História da Educação (NIEPHE) da FEUSP. Atua como professora adjunta no Instituto de Educação e no Programa de Pós-Graduação da UFMT

Jauri dos Santos Sá – Arquiteto. Doutor em Arquitetura pela Universidade Politécnica da Catalunha, Barcelona/Espanha. Atualmente desenvolvendo estagio Pós-Doutoral no Programa de Pós-Graduação em Educação da Universidade do Vale do Rio dos Sinos – Unisinos. Participa do Observatório de Educação – projeto Núcleo em Rede na mesma instituição. Bolsista CNPq. E-mail: arqjauri@gmail.com

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Inconfidência no Império: Goa de 1787 e Rio de Janeiro de 1794 | Anita Correia Lima de Almeida

Publicado em 2011, Inconfidência no Império é fruto da tese de doutorado de Anita Correia Lima de Almeida defendida em 2001 na UFRJ. A obra é um exercício de história comparada que aborda duas Devassas ocorridas em duas colônias geograficamente distantes do Império Português: a prisão dos padres em Goa, no ano de 1787, e a devassa contra os membros da Sociedade Literária do Rio de Janeiro, em 1794. Sobre a primeira, existem pouquíssimos estudos publicados no Brasil, enquanto a respeito da Devassa contra os letrados cariocas há uma quantidade considerável de estudos publicados ao longo das últimas décadas.

A divisão do livro em três partes é embasada na noção do século XVIII “de que a máquina política deveria amparar-se nos prêmios e nos castigos” (p.22), sendo a primeira “Os Castigos” (capítulos 1 e 2), a segunda “Os Prêmios” (capítulos 3 a 7) e a terceira, “O louco desejo da liberdade” (capítulos 8, 9 e conclusão). Na introdução da obra, a autora denota que o estudo não seguirá um aporte historiográfico tradicional sobre o tema das “Inconfidências”, distanciando-se da categoria de “Revolução Atlântica”, de Jacques Godechot e buscando a semelhança de ambos os eventos “pelo fato de tanto os letrados naturais de Goa como os fluminenses terem sido alvos da mesma política pombalina que se espraiou de Lisboa para todo o Império na segunda metade do século XVIII” (p.19-20). Parte a autora, portanto, da “relação entre os letrados do ultramar e o pombalismo”. (p.20) A escolha em trabalhar esses dois episódios se deveu não só à interação entre os letrados e a coroa, mas ao fato de que entre os acusados em ambas as Devassas não estão arrolados homens de grandes posses ou endividados com a coroa portuguesa (caso, por exemplo da Inconfidência Mineira). Aqui, no tocante à Devassa do Rio de Janeiro, a autora segue em grande parte o caminho interpretativo de No rascunho da nação: Inconfidência no Rio de Janeiro (1992), de Afonso Carlos Marques dos Santos, realizando boas considerações acerca do quadro, redigido por A. Santos, de composição social dos acusados e testemunhas no processo, e conclui que “a maior parte deles é constituída, certamente, por homens em cujas vidas o estudo formal ocupara um papel importante. (…) E mesmo quando os acusados são oriundos de extratos menos favorecidos, a possibilidade de participar dos ‘conventículos’ está dada pela instrução que possuíam.” (p.67)

Ponto fulcral para o trabalho é a desilusão que os letrados residentes em Goa e na América Portuguesa tiveram com a política imperial e que, no primeiro caso, resultou em um plano de sublevação e, no segundo, em conversas sobre temas proibidos. Ademais, a escolha do uso do vocábulo Inconfidência se deve ao sentido de traição que esta palavra acarreta, “a traição contida na atitude de homens que – aliciados – deveriam ter sido fiéis até o fim, e não o foram”. (p.23)

Outro aspecto relevante está na percepção do caráter exemplar que assumiu a Revolução Americana de 1776 para os letrados luso americanos, o que A. Almeida evidencia ao analisar o episódio das cartas assinadas “por um brasileiro” (p.67), com o pseudônimo de Vendek, a Thomas Jefferson. Na continuação deste excerto, a autora afirma existir um grande descontentamento entre os nascidos na América Portuguesa (aos quais insistentemente utiliza a denominação de “brasileiros”), sendo “os homens de letras” (p.68) responsáveis por liderar a fila de descontentes com o Império.

Cabe atenção também à relevância que a autora dá a uma suposta dicotomia entre reinóis e nascidos na colônia, tendo por base argumentativa a interpretação de Charles Boxer de que “preconceitos raciais” explicariam a grande diferença no número de condenados à morte na Inconfidência de Goa, quinze, e na Inconfidência Mineira, um. Para ratificar essa observação, a autora considera que a conjuntura política teria se modificado nos dois anos que separam ambos os movimentos, considerando que “as notícias da Revolução Francesa chegaram a Lisboa junto com as notícias do frustrado levante em Minas” (p.70). Assim, a maior radicalização na conjuntura europeia teria levado a um “processo de acomodamento” e um “estreitar dos compromissos entre os colonos e a Coroa” (p.70) que ajudariam a explicar a punição menos severa aos inconfidentes de Minas. Tal explicação parece contestável se levarmos em conta a severidade com a qual foi levada a perquirição sobre o suposto plano de levante no qual estavam envolvidos os presos da Devassa de 1794. Foram mais de dois anos de cárcere para esses acusados, sendo que a situação só foi resolvida devido à pressão dos réus junto ao Ministro do Ultramar, D. Rodrigo de Souza Coutinho, que ordenou ao Vice-Rei Conde de Resende decidir-se entre soltá-los ou enviá-los a Portugal. Portanto, percebe-se aqui que a busca por enquadrar as “Inconfidências” dentro de um processo maior, europeu, e de um modelo historiográfico que procurou enquadrar esses movimentos como “reflexos” da Revolução Francesa e de suas ideias, em primeiro lugar e, em menor escala, da influência da Revolução Americana. Tal perspectiva acaba por reduzir as especificidades do pensamento dos envolvidos nas devassas pesquisadas. Poderia ser proveitosa a inclusão, no livro, de mais trabalhos de István Jancsó, sobretudo seu capítulo na História da Vida Privada no Brasil, bem como da tese de Gustavo Tuna sobre o episódio de 1794, defendida na USP em 2009.

Uma arguta observação feita pela autora sobre os documentos de ambas as Devassas, Goa e Rio de Janeiro, e que tem por base dois artigos de David Higgs, é a coexistência de certas críticas à religião e à monarquia de longa data (por exemplo ao refutarem a veracidade da Sagrada Escritura), com críticas relacionadas a conjuntura das Devassas, como no deboche ao reinado de D. João V e ao fanatismo do príncipe D. João VI.

Na segunda parte do livro, No capítulo “O alvará pombalino contra a discriminação dos naturais de Goa”, a autora se vale do argumento novamente de Charles Boxer sobre a “aproximação entre os letrados de várias regiões do ultramar, alvos dos mesmos projetos pedagógicos” e da “política de não discriminação dos naturais” (p.92) para realizar a comparação entre os nascidos na América e os nascidos em Goa (inclusive apontando semelhanças entre a legislação do norte da América Portuguesa com a aplicada em Goa). Inicia o capítulo com apontamentos de Matias Aires sobre a necessidade de se valorizar uma “nobreza de espírito” (letrada) em contraposição à “nobreza de sangue” (p.75) e à tentativa de Pombal levar em conta essa diferenciação, inclusive pelo fato do ministro ser um “novo rico” (p.76). A autora associa essa problemática à discriminação que setores mais conservadores, sobretudo os padres responsáveis pelo ensino, tinham perante os nascidos em Goa e no Rio de Janeiro, pois para a autora ambos “foram alvos de políticas que conservavam algo em comum” (p.92). Políticas estas que, segundo Almeida, buscavam tornar “os naturais habilitados para todas as honras, dignidades, empregos e postos” (p.84). Essa valorização está explicita na análise que a autora faz da Instrução Quatro de 1774 na qual a decadência de Portugal só seria revertida se os portugueses conseguissem “atrair e aliciar a afeição dos naturais” (p.89). Uma dificuldade enfrentada por estas medidas era a concepção por parte de certos atores políticos do período de uma suposta superioridade na cultura portuguesa e europeia em relação às indígenas, bem como a intolerância com os costumes destes demonstrada na atividade de órgãos como o Tribunal da Inquisição de Goa e da parte dos jesuítas, que em seus aldeamentos tutelavam a população local e atrasariam a incorporação desses grupos como súditos do Império. A autora cita o caso dos brâmanes, que na sociedade de castas eram associados a postos de maior prestígio, ligados à religião e à educação, enquanto na “sociedade indo-portuguesa” (p.91) perderam postos na hierarquia social.

No capítulo “O Projeto de reedificação da cidade de Goa”, é feita uma análise dos projetos urbanísticos empreendidos pela coroa portuguesa desde D. João V, e aprimorados por Pombal. O texto trata da reconstrução de Lisboa após o terremoto, momento em que se traça um projeto sistemático que, segundo A. Almeida, seria a expressão de uma “nova mentalidade urbana” (p.96). Na América Portuguesa, existiria um planejamento urbanístico (em cidades do Norte da colônia como Belém, Macapá e Mazagão) associado, segundo a historiadora, a um “‘projeto civilizacional’, criado a partir da necessidade de mediar os conflitos entre colonos e índios” (p.97). Nessa interpretação, salta aos olhos o bom uso de bibliografia de pesquisadores da arquitetura colonial, como Roberta Marx Delson e sua proposta de planificação das cidades coloniais brasileiras; ao aproveitar esse argumento para tratar do caso de Goa, A. Almeida faz um interessante aporte sobre a situação insalubre da “Goa Velha”, atingida por constantes epidemias de cólera, tifo e malária. Aborda o projeto pombalino de reedificação da vila, decretado em 1774, ponto a ponto, bem como a atuação do governador D. Pedro José da Câmara. O projeto não avançou, e para a autora é justamente a expectativa imbuída neste plano que importa: “o que terá significado para esses letrados naturais as tentativas pombalinas de reforma da Índia Portuguesa (…) numa espécie de utopia regressiva e ao mesmo tempo voltada para o novo e, por outro lado, na possibilidade de absorção dos naturais, através do fim da discriminação, que se espraiava o projeto civilizacional pombalino para o oriente português” (p.105).

Ao abordar a Reforma dos Estudos Menores, reforma esta atrelada à reformulação dos currículos da Universidade de Coimbra em 1772, é feito um esboço sobre o cenário existente antes da implementação das Aulas Régias, bem como do pensamento educacional português de meados do século XVIII (principalmente de Ribeiro Sanches e Verney) e a vontade política de Pombal e seus ministros em reduzir o controle jesuítico perante a educação, sobretudo no ambiente colonial, procurando modernizar o sistema e acabar com os métodos empregados pelos religiosos.

A criação das Aulas Régias de Latim, Grego, Retórica e Filosofia Racional e Moral em 1772 propiciou, segundo a autora, a profissionalização do magistério e retirou o vínculo dos professores da esfera eclesiástica, ao mesmo tempo em que valorizou os mestres outorgando-os títulos de nobreza. Entretanto, na prática, muitos problemas surgiram, como a falta de pagamento dos professores régios e a disputa por alunos com os padres.

A figura do padre Caetano Vitorino e suas requisições na Corte pela ordenação de goeses a cargos eclesiásticos e administrativos tem aspecto central para construir a justificativa da autora em comparar os anseios dos letrados da América Portuguesa e de Goa. A autora compara o padre Vitorino a Silva Alvarenga no tocante à confiança de ambos nos “novos tempos” (p.155) trazidos pelo governo de Pombal, e na possibilidade de obterem reconhecimento social por seus serviços prestados à coroa.

No capítulo “a Sociedade Literária, Silva Alvarenga e a Arte Poética”, há o aprofundamento na questão das Academias e de como estas se tornavam espaço de desenvolvimento de estudos sobre a viabilidade econômica de plantas e outros produtos coloniais. No caso do Rio de Janeiro, é abordada a Academia Científica de 1772, fundada com apoio do Vice-Rei Marques de Lavradio com o intuito de aprimorar a produção e utilização de produtos coloniais, como o linho do cânhamo ou a guaxima, além de investirem na descoberta de plantas de uso comercial e/ou medicinal. Assim, esta associação, estava inexoravelmente ligada ao projeto pombalino, assim como a Sociedade Literária esteve, e a atividade do seu membro e professor régio, João Manso Pereira, mineralogista que pesquisou diversos assuntos, comprova. É bastante contundente a observação de como os textos dos agremiados debatiam renomados autores europeus como Buffon, refutando inclusive argumentos deste a respeito da “formação do universo” (p.172).

A autora correlaciona o fato de Manuel Inácio da Silva Alvarenga pertencer a academia à sua preocupação em justificar a utilidade didática de sua poesia, concatenando o “discurso literário” a uma “obrigação cívica” (p.181). Para A. Almeida, esse tipo de preocupação expressaria a “função” do letrado de ser uma espécie de ponte entre a “civilização europeia e sua terra natal” (p.183). É a partir desse excerto que a autora desemboca em um dos principais argumentos de sua tese, de que a frustração dos letrados com o insucesso de seus planos em ascenderem dentro da burocracia imperial, atrelados a um objetivo maior da Coroa Portuguesa, seriam a base, ou justificativa, para o movimento revoltoso de Goa e os acalorados debates sobre temas escusos que levou a prisão dos letrados no Rio de Janeiro. Assim, o fracasso das aulas régias, a não equiparação prática entre reinóis e nascidos em Goa, a insatisfação com o governo do Conde de Resende seriam parte dos “planos abandonados pelo meio, de promessas que o futuro não cumpriu, na qual, acredita-se, encontram-se as raízes do descontentamento dos homens de letras do ultramar” (p.194).

No último capítulo da obra intitulado “O precipício”, a autora considera que o aprendizado da Retórica teria uma “função heurística, de descoberta” (p.204). Ou seja, foi o principal instrumento disponível para os letrados no ambiente colonial poderem questionar as atitudes da metrópole. Assim, aponta-se uma contradição da política pombalina que, segundo a autora, Antônio Nunes Ribeiro Sanches já havia demonstrado em seus escritos a respeito das aulas régias nas colônias, sendo que estas “tinham ajudado a criar entre os súditos naturais o desejo de adquirirem honras (…) e, facilitado certo aprendizado político” (p.204). Portanto, para a autora, “como se quer sugerir, a transformação dos letrados reformistas em inconfidentes tenha sido auxiliada pelo próprio pombalismo, que ofereceu alguns caminhos, como o da retórica” (p.204). Influenciados pela conjuntura internacional, os letrados ressignificavam as obras de Mably e Reynal a partir de sua insatisfação e de seus desejos em se rebelarem contra a metrópole, assim como os revolucionários das Treze Colônias fizeram. A autora reafirma, ao fim do capítulo, a sua proposição de que foi do desejo frustrado em se tornarem vassalos úteis do Império Português que esses letrados “abraçaram ideias – que lhes eram então oferecidas com fartura – contrárias à autoridade da metrópole e, por fim, ao próprio estatuto colonial”.

Ao analisar minuciosamente duas Devassas ocorridas em colônias espacialmente distantes e, em um plano maior, as políticas do Império Português na segunda metade do século XVIII o livro traz as semelhanças que a trajetória dos padres inconfidentes de Goa e os letrados devassados do Rio de Janeiro tinham dentro do projeto pombalino, e as suas decepções ao perceberem o insucesso deste. Inconfidência no Império é uma obra que alia a exaustiva pesquisa documental a uma leitura fluida e agradável, e é de suma importância para os estudiosos da história do Império Português em fins do século XVIII, no ministério de Pombal e no impacto de suas políticas pombalinas no ultramar e aos que buscam compreender a conjuntura das colônias neste fin-de-siècle politicamente agitado.

Lucas Gallo Otto – Graduando no departamento de História da Universidade de São Paulo (FFLCH/USP – São Paulo/ Brasil) e bolsista de Iniciação Científica da Fundação de Amparo a Pesquisa do Estado de São Paulo (FAPESP). E-mail: lucasotto@msn.com


ALMEIDA, Anita Correia Lima de. Inconfidência no Império: Goa de 1787 e Rio de Janeiro de 1794. Rio de Janeiro: 7 letras, 2011. Resenha de: OTTO, Lucas Gallo. Frustração, retórica e sublevação: uma leitura sobre as “Inconfidências” de Goa (1787) e do Rio de Janeiro (1794). Almanack, Guarulhos, n.8, p. 157-161, jul./dez., 2014.

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Escravidão, mestiçagens, ambientes, paisagens e espaços – PAIVA et al (S-RH)

PAIVA, Eduardo França; IVO, Isnara Pereira; AMANTINO, Márcia (Orgs.). Escravidão, mestiçagens, ambientes, paisagens e espaços. Belo Horizonte: PPGH-UFMG; São Paulo: Annablume, 2011, 284 p. Resenha de: SILVA, Kalina Vanderlei. Um manifesto sobre os usos dos conceitos na História. sÆculum REVISTA DE HISTÓRIA, João Pessoa, [27] jul./dez. 2012.

Dentro do atual cenário acadêmico brasileiro, e de suas rigorosas exigências em torno da produção científica – exigências muitas vezes mais quantitativas que qualitativas –, os grupos de pesquisa vêm agindo como verdadeiros palcos para o desenvolvimento do debate científico e da pesquisa sistemática, chamando a atenção tanto das instituições de investigação quanto das agências de fomento. No entanto, especificamente no campo historiográfico, nem todos conseguem de fato realizar um trabalho efetivo de diálogo entre diferentes instituições e ao mesmo tempo apresentar os resultados para o público mais amplo de pesquisadores.

Nesse sentido, o Grupo de Estudos Escravidão e Mestiçagens tem se destacado positivamente por conseguir ultrapassar as exigências básicas postas a seus congêneres ao reunir regularmente pesquisadores de várias regiões brasileiras. Seus integrantes compartilham um interesse temático que gira em torno da diversidade de situações coloniais – sempre observadas em suas especificidades, mas jamais desligadas das múltiplas conexões externas às Américas – e de uma preocupação teórico-metodológica com os conceitos empregados na construção do saber historiográfico.

Apesar de sediado no Programa de Pós-Graduação em História da Universidade Federal de Minas Gerais, o grupo – cujos primórdios datam de uma primeira reunião realizada no âmbito do XXIII Simpósio Nacional de História2 – não apenas congrega historiadores para discutir conceitos teóricos e metodologias de investigação, mas também vem produzindo obras de qualidade, como o recente Escravidão, mestiçagens, ambientes, paisagens e espaços.

Privilegiando uma metodologia comparativa, embasada sempre em detalhada pesquisa documental cujos objetos são colocados em espaços coloniais específicos e bem definidos, os autores discutem as possibilidades conceituais no estudo da escravidão e das mestiçagens coloniais, inquietando-se acerca de quais conceitos e categorias podem ser empregados – e de que forma podem ser empregados – a fim de maximizar a compreensão o mais aproximada possível das realidades coloniais, de seus múltiplos personagens e de suas tão distintas identidades.

Terceiro livro da série, ‘… Paisagens e Espaços’ traz questionamentos que aprofundam e espelham outros já visíveis nas duas obras anteriores: no primeiro livro, ‘Escravidão, mestiçagem e histórias comparadas’, a reflexão principal girava em torno da utilização da metodologia comparativa em estudos sobre os dois grandes conceitos do grupo3; no segundo livro, por sua vez, ‘Escravidão, mestiçagens, populações e identidades coloniais’, a preocupação basilar eram as identidades4.

Por outro lado, tanto a metodologia comparativa quanto os estudos identitários podem ser percebidos também em ‘Escravidão, Mestiçagens, Ambientes, Paisagens e Espaços’, o que dá aos três livros uma coerência interna e os apresenta como obras conectadas, realmente integrantes de uma série.

Assim é que, dando continuidade a essas discussões, os organizadores defendem na apresentação de sua terceira obra, além do cuidado com os conceitos relacionados ao mundo colonial – seu tema mais recorrente –, também a necessidade de focar outros espaços que não os urbanos, já que esses são em geral pensados de forma privilegiada pela historiografia como cenários para os jogos políticos coloniais. E para levar essa proposição a cabo, Eduardo França Paiva, Isnara Pereira Ivo e Márcia Amantino – historiadores em atividade respectivamente em Minas Gerais, na Bahia e no Rio de Janeiro – dividem sua obra em duas partes: a primeira, mais extensa, abrangendo o período colonial e a segunda se debruçando sobre o século XIX. Nesta última, o recorte espaço-temporal privilegiado se distancia do cenário favorito do grupo, a sociedade colonial americana. Apesar disso, os artigos mantêm a conexão temática e teórica ao enfocar aspectos das relações socioculturais estabelecidas por escravos, forros e livres do Império brasileiro a partir de premissas discutidas para os espaços coloniais.

Os capítulos de ‘…Paisagens e Espaços’ seguem uma perceptível divisão temática: o olhar sobre as paisagens urbanas perpassa principalmente os artigos de José Newton Menezes, de Carla Mary de Oliveira, de Maciel Carneiro Silva e de Luiz Gustavo Cota, enquanto o mundo para além das ruas escravistas é estudado por Isnara Pereira Ivo, que se debruça sobre o sertão, e Márcia Amantino, que focaliza as fazendas jesuítas. Por sua vez, a preocupação com os atores sociais dentro desses espaços preenche as páginas de Maria Lemke, Marcelo Rocha e Renato Rangel, que se preocupam com aspectos particulares das vidas de personagens mestiços, usando diferentes conceitos para abordá-los: pardos, mulatos, mamelucos. Já Eliane Garcindo e Eduardo Paiva, por seu turno, propõem reflexões conceituais mais amplas sobre as identidades mestiças, enquanto João Azevedo Fernandes traça uma revisão historiográfica, ou como ele denomina uma ‘arqueologia cultural’, dos mamelucos em autores clássicos tais como Freyre e Darcy Ribeiro.

De forma geral, percebe-se uma coerência teórica na abordagem das mestiçagens pelos múltiplos autores que seguem, basicamente, a definição de mestiçagem estabelecida por França Paiva na apresentação da obra: nela, Paiva expressa a fé de ofício do grupo, propondo a compreensão das mestiçagens enquanto mesclas bioculturais processadas nas dimensões complexas e dinâmicas dos espaços coloniais ibero-americanos5. Por outro lado, as espacialidades – um dos focos temáticos principais do livro – são abordadas com diferentes ênfases ao longo do texto.

O tratamento conceitual mais aprofundado dedicado a estas está no texto de José Newton Coelho Menezes. Em seu artigo ‘Escalas espaço-temporais e História Cultural: reflexão de um historiador sobre o espaço como categoria de análise’, ele se debruça sobre o uso historiográfico de conceitos de espacialidade, estabelecendo definições que pensam o lugar enquanto produto da ação humana, e a paisagem enquanto espaço percebido pelos sentidos. Tomando as Minas setecentistas como recorte, Menezes defende uma abordagem que busque compreender a relação entre identidades e espacialidades sempre considerando as características históricas da construção do lugar estudado. Esse seria o caso do estudo dos limites entre o urbano e o rural que o autor utiliza como exemplo: partindo de uma análise que considera as características urbanas comuns dentro do Império português, ele descreve uma complexa malha de lugares na capitania das minas, buscando pensar dentro dela o lugar dos escravos. Em cima dessa base empírica, ele passa a enfocar a historicidade dos conceitos de espaço, ou seja, como esses conceitos são não apenas construídos mas também mutáveis ao longo do tempo: conceitos tais como lugar – o lugar de determinados personagens na paisagem. Propõe assim que os lugares dos escravos na sociedade colonial, por exemplo, sejam buscados através dos sentidos que possuíam então.

Essa preocupação com a construção e a mutação dos significados dos termos, expressões e conceitos coloniais – uma inquietação que aponta para a preocupação mais profunda com a reconstrução exata das formas de pensar e socializar-se no mundo colonial – perpassa todos os textos do livro. Chamada de “polissemia dos termos colonial”, ela aponta para a busca pelas identidades como objetivo principal da maioria dos autores de ‘… Paisagens e Espaços’. Caso de Marcelo Rocha que em seu artigo ‘Vidas mescladas: mulatos livres e hierarquias na Nova Espanha (1590- 1740)’ reflete, baseado em ampla documentação hispânica, sobre as identidades mulatas no México colonial. Identidades não apenas mutáveis, mas também muito dependentes da relação que os grupos sociais que as construíram mantinham com o sistema de castas vigente no Império espanhol. Para Rocha, inclusive, essas identidades dependiam da capacidade dos atores de “instrumentalizar condições de assimilação aos distintos contextos a partir das relações grupais ou interpessoais”6. O que significa, de fato, que as identidades mestiças nada tinham de estáveis nem de fixas, mudando conforme os personagens se adaptavam a novos cenários, geográficos ou sociais.

Importante ressaltar que ‘… Paisagens e Espaços’ se apresenta como um verdadeiro panorama da diversidade dos espaços coloniais no mundo iberoamericano: seus autores, se em sua maior parte continuam a privilegiar os espaços urbanos, por outro lado privilegiam diferentes espaços urbanos: das vilas mineiras setecentistas às capitanias do norte do Estado do Brasil. E fora dos espaços urbanos a heterogeneidade também prevalece: dos sertões baianos às fazendas jesuítas, do mundo andino à Nova Espanha.

Ainda em torno dos espaços urbanos coloniais, Carla Mary S. Oliveira se apropria de uma abordagem cara ao grupo Escravidão e Mestiçagem ao analisar a produção artística barroca de Minas Gerais e das Capitanias do Norte do Estado do Brasil de forma comparada. Com um olhar treinado pela História da Arte, a autora enfoca trajetórias de vida de artesãos mestiços em um texto cujo repertório documental está fundado sobre os forros de igrejas e os óleos sobre madeiras que constituem o patrimônio visual dos templos das irmandades/ ordens religiosas em Minas Gerais, Recife, Salvador e João Pessoa. Esmiuçando os elementos pictóricos dessas fontes, ela busca compreender as representações artísticas que os artesãos, eles mesmo mestiços, construíam sobre as mestiçagens no mundo colonial.

Sem desconsiderar as rígidas imposições de regras artísticas que a Igreja tridentina trazia para o mundo colonial, a autora reflete sobre as “estratégias de apropriação e ressignificação que se cristalizaram na arte religiosa colonial dos séculos XVII e XVIII no Brasil, estratégias essas que historiadores como Gruzinski chamam de hibiridização”7. E se em seu texto a influência de Serge Gruzinski é mais direta, essa influência paira, por outro lado, em muito da produção dos pesquisadores do grupo Escravidão e Mestiçagem.

Se no capítulo de Oliveira as identidades são buscadas dentro de cenários urbanos coloniais, no trabalho de Isnara Ivo essas identidades são perseguidas nos sertões. Os personagens de Ivo são os chamados ‘homens de caminho’, comerciantes de diferentes etnicidades que percorriam, constantemente, os interiores coloniais da América portuguesa. Trabalhando sobre registros fiscais, a autora procura desenhar um retrato desses personagens, ousando analisar as descrições físicas trazidas pelos documentos. Assim, as descrições setecentistas de barbas, cabelo e cor dos olhos, tornam-se, em sua abordagem, elementos para reflexão não apenas sobre o imaginário e as identidades coloniais, mas também sobre as próprias conceituações generalistas usadas pela historiografia em torno do difícil personagem do mestiço. Tudo isso, todavia, sem fugir do recorte teórico dedicado às espacialidades.

No entanto, se as espacialidades compõem a temática central da obra, em associação com os conceitos de escravidão e de mestiçagem, isso não significa que todos os autores prefiram focá-las de forma central em seu trabalho. Assim é que alguns capítulos, como o de Maria Lemke sobre Goiás e o de Rangel Cerceau sobre Minas Gerais, cuidam menos de especificar as espacialidades, apesar de perceptivelmente focarem urbes coloniais, e mais de analisar identidades e formas de sociabilidades. Por um lado, Lemke se utiliza de uma metodologia cada vez mais atual na historiografia para melhor compreender os contextos e estruturas sociais: o estudo de trajetórias de vida; uma metodologia devedora de Ginzburg, apesar de não creditada a ele no texto. A partir dessa abordagem ela segue alguns ortodoxa’ de alguns governadores régios, ampliaram seus espaços de ação em Vila Boa, Capitania de Goiás. Assim é que através da descrição da correspondência administrativa, a autora descortina um cenário de conflitos políticos que envolviam ‘homens bons’ e representantes régios, mas também pardos ascendidos a posições oficiais.

Já o tema de Cerceau são as famílias. De fato, são “as mesclas envolvendo as uniões familiares constituídas por indivíduos desiguais social e culturamente”8. Assim como Lemke, ele também realiza estudos de caso sobre trajetórias de personagens específicos: no seu caso, as mulheres forras. Com relação à metodologia, sua abordagem dá uma atenção especial às conceituações setecentistas que poderiam influenciar as representações identitárias desses personagens. Assim é que ele analisa as definições de dicionaristas, pintores e cronistas para tentar se aproximar das imagens vigentes, nos setecentos, sobre os crioulos9.

Todas essas considerações conceituais em torno das mestiçagens e espacialidades, associadas ao contexto escravista americano ficam, de fato, bem exemplificadas no texto de Eliane Garcindo de Sá. Em seu artigo, intitulado ‘Identidade, espacialidade e territorialidade: reflexões sobre a presença africana no universo colonial’, Sá se debruça sobre crônicas andinas para questionar as espacialidades em sua relação com as representações construídas sobre as identidades coloniais. Seguindo uma das mais fortes premissas do grupo – a de buscar as interpretações próprias aos muito diversificados grupos mestiços sem concessões às leituras eurocêntricas e teleológicas impostas pela historiografia –, a autora lê as crônicas indígenas andinas em busca de suas versões próprias acerca da presença dos estrangeiros – fossem espanhóis fossem africanos – nos espaços incaicos. E nessa trilha ela identifica em algumas dessas crônicas um “libelo contra a mestiçagem”10. Além disso, a autora percebe a noção de território como um fator fundamental nas definições identitárias estabelecidas dentro dos domínios da Monarquia Católica, contexto no qual seus personagens se inseriam: para ela, os autores indígenas, eles próprios mestiços como Poma de Ayala, definiam africanos, espanhóis e descendentes de ambos como estrangeiros a partir de uma consideração geográfica, associando sempre as identidades desses personagens a seus territórios de origem. O que tornava esses autores – mestiços que nem sempre se autoidentificavam como tal, lembremos – opositores do próprio processo de mestiçagem. Esta mestiçagem, por sua vez, sempre entendida em suas páginas como a permanência de atores sociais estrangeiros, de fora daquelas espacialidades específicas.

Entre os textos que pensam as espacialidades não urbanas está, por sua vez, o capítulo de Márcia Amantino sobre as fazendas jesuíticas. Compondo um detalhado estudo de caso focado em uma fazenda específica – a fazenda de São Cristóvão no Rio de Janeiro setecentista – a autora apresenta dados de extrema relevância para a história da escravidão, bem característicos de uma tradicional História Social: dados populacionais, principalmente. Uma abordagem compartilhada também por Carlos Engelman, que discorre sobre as identidades crioulas no Vale do Paraíba também a partir de densos dados seriais.

Mas Engelman, por sua vez, vem se somar já à segunda parte de ‘…Paisagens e Espaços.’ E se esta é consideravelmente mais curta e menos coesa que a primeira, apesar disso ela traz interessantes contribuições para a discussão temática geral da obra: além de Engelman também Maciel Silva, que compara as ruas de Salvador e Recife a partir do personagem das domésticas, dialoga ativamente com as principais questões do grupo, desde a metodologia comparativa até os problemas identitários. Entre os dois estão os textos de Luiz Gustavo Cota – mais culturalista, centrado em festividades abolicionistas estudadas a partir de uma abordagem que mistura discursos, memória e a própria espacialidade urbana para compreender a difusão e as leituras da ideia de liberdade – e de João Azevedo Fernandes com sua crítica historiográfica que pinça a imagem do mameluco desde Varnhagen até Darcy Ribeiro.

Assim, em seu conjunto todos os textos de Escravidão, Mestiçagens, Ambientes, Paisagens e Espaços se inserem na discussão inicialmente proposta em sua apresentação, apesar de que as diretrizes teóricas esboçadas a princípio não chegam a engessar os resultados de seus diferentes autores. Tal mescla de coerência conceitual e flexibilidade metodológica torna a obra extremamente enriquecedora tanto para os estudiosos das temáticas canônicas do grupo quanto para a historiografia sociocultural que se debruça sobre o mundo colonial americano. Mas, além disso, esse terceiro volume do grupo Escravidão e Mestiçagens funciona também como exemplo do que uma obra historiográfica coletiva deveria ser: pela miríade de diferentes fragmentos desse mundo colonial que apresenta; pela coerência teórica que embasa tantos autores de diferentes contextos; pela seriedade e pertinência do trabalho com as fontes históricas.

Notas

2 Cf. Anais do XXIII Simpósio Nacional de História – História: Guerra e Paz. Londrina: ANPUH; Editorial Mídia, 2005.

3 Cf. PAIVA, Eduardo França & IVO, Isnara Pereira (orgs.). Escravidão, mestiçagem e histórias comparadas. São Paulo: Annablume; Belo Horizonte: PPGH-UFMG; Vitória da Conquista: Ed.UESB, 2008.

4 Cf. PAIVA, Eduardo França; IVO, Isnara Pereira & MARTINS, Ilton Cesar (orgs.). Escravidão, mestiçagens, populações e identidades coloniais. São Paulo: Annablume; Belo Horizonte: PPGHUFMG; Vitória da Conquista: Ed. UESB, 2010.

5 PAIVA Eduardo França; Ivo, Isnara Pereira & AMANTINO, Márcia. “Apresentação” In: PAIVA, Eduardo França; IVO, Isnara Pereira & AMANTINO, Márcia (orgs.). Escravidão, mestiçagens, ambientes, paisagens e espaços. São Paulo: Annablume, 2011, p. 07-09.

6 ROCHA, Marcelo. “Vidas mescladas: mulatos livres e hierarquias na Nova Espanha (1590-1740)”. In: PAIVA, IVO & AMANTINO, Escravidão, mestiçagens, ambientes…, p. 94.

OLIVEIRA, Carla Mary S. “Arte colonial e mestiçagens no Brasil setecentista: irmandades, artífices, anonimato e modelos europeus nas Capitanias de Minas e do Norte do Estado do Brasil”. In: PAIVA, IVO & AMANTINO, Escravidão, mestiçagens, ambientes…, p. 97.

8 CERCEAU NETO, Rangel. “Famílias mestiças e as representações identitárias: entre as maneiras de viver e as formas de pensar em Minas Gerais, no século XVIII”. In: PAIVA, IVO & AMANTINO, Escravidão, mestiçagens, ambientes…, p. 165.

9 CERCEAU NETO, “Famílias mestiças…”, p. 165.

10 SÁ, Eliane Garcindo de. “Identidade, espacialidade e territorialidade: reflexões sobre a presença africana no universo colonial”. In: PAIVA, IVO & AMANTINO, Escravidão, mestiçagens, ambientes…, p. 39.

Kalina Vanderlei Silva – Doutora em História pela Universidade Federal de Pernambuco. Docente da Faculdade de Formação de Professores de Nazaré da Mata, Universidade de Pernambuco. E-mail: <kalinavan@ uol.com.br>.

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Sexo e Violência – Realidades antigas e questões contemporâneas – GRILLO et al (RMA)

GRILLO, José Geraldo C.; GARRAFFONI, Renata S.; FUNARI, Pedro Paulo A. (Orgs.). Sexo e Violência – Realidades antigas e questões contemporâneas. São Paulo: Annablume, 2011. 284p. Resenha de: POZZER, Katia Maria Paim. Revista Mundo Antigo, v.I, jun., 2012.

Este livro é o resultado de encontros. Encontro entre jovens pesquisadores e experimentados estudiosos, encontro entre o mundo antigo e o mundo contemporâneo. Todos dispostos a refletir sobre dois assuntos que são, ao mesmo tempo, absolutamente atuais e muito antigos: sexo e violência. Para tratar destes temas os organizadores da obra optaram por uma perspectiva multidisciplinar, onde a história, a antropologia, a psicologia, a arqueologia, a filosofia, a educação física, entre  outras, são chamadas a colaborar neste debate. Além disso, o livro apresenta recortes cronológicos que retomam as práticas e as percepções dos homens e mulheres de outros tempos acerca da sexualidade e da violência.

O livro abre com um polêmico texto de Ian Buruma, jornalista e professor de direitos humanos em Nova York, originalmente publicado no Corriere della Sera, na Itália. Ele propõe uma discussão sobre a relação entre a sexualidade e o fascismo na Europa dos anos 40 e, a sexualidade a intolerância na Europa dos dias de hoje. Leia Mais

Teoria da História – 4 volumes | José D’Assunção Barros

BARROS, José D’Assunção. Teoria da História – 4 volumes. Petrópolis: Editora Vozes, 2011.319 p.; 246 p.; 328 p.; 447 p. Resenha de RIBEIRO, Monike. Revista do Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro, Rio de Janeiro, a. 172 (451) p.361-365, abr./jun. 2011.

Teoria da História, em quatro volumes, é o título da coleção que aca­ba de ser publicada por José D’Assunção Barros, autor que já é conhecido na área de Teoria e Metodologia da História por alguns artigos e, sobretu­do, por dois livros anteriormente publicados pela Editora Vozes: O Campo da História (7ª edição) e O Projeto de Pesquisa em História (7ª edição).

Assim como os livros anteriores, a nova coleção de livros pretende responder a demandas importantes do ensino de graduação e pós-gradua­ção, no que concerne à área de Teoria e Metodologia da História. Trata-se de oferecer ao público, e particularmente ao leitor especializado ao qual se dirige, textos que primem por uma linguagem clara e acessível, mas sem sacrificar a complexidade exigida pelos objetos da historiografia. A obra se organiza em quatro volumes. Pode-se dizer que os três primeiros volumes apresentam conteúdos já clássicos de Teoria da História – tais como a discussão dos conceitos pertinentes à área ou à apresentação dos grandes paradigmas historiográficos – enquanto o último volume surpre­ende pela proposta de uma nova abordagem, ainda experimental, que traz a novidade de buscar enxergar a complexidade da historiografia através de uma imaginação musical.

O primeiro volume da coleção – intitulado Teoria da História: Prin­cípios e Conceitos Fundamentais – parte da ideia de que a Teoria da His­tória e a Metodologia da História são as duas dimensões fundamentais para a formação do Historiador, bem como para a sustentação de qualquer pesquisa histórica dentro dos quadros atuais de exigências deste âmbi­to profissional e do campo disciplinar da historiografia. Neste sentido, o contraste entre Teoria e Metodologia, buscando esclarecer o que pertence a um âmbito e a outro, é um dos pontos importantes do volume, que busca também discutir o que é Teoria da História, em que aspectos as ‘teorias da história’ se diferenciam das ‘filosofias da história’, e de que elementos se constitui a ‘matriz disciplinar da História’ nos dias de hoje. Conceitos como o de ‘paradigma’, ‘escola histórica’, ‘campo histórico’ são discu­tidos em profundidade, preparando o estudo que se desdobra nos demais volumes da coleção. Ao mesmo tempo, o autor discorre sobre algumas questões fundamentais para se pensar a Teoria da História, nos dias de hoje. Quais são limites entre a ‘liberdade teórica’ e as imposições da ‘co­erência teórica’, nos atuais quadros do desenvolvimento historiográfico? Como se pode aplicar o princípio da historicidade à própria Teoria da História? Será a História uma Ciência, e exclusivamente uma Ciência, ou o conhecimento historiográfico também deve ser pensado nos termos de uma dimensão estética, discursiva, ou mesmo artística? Os volumes II e III da coleção avançam para a discussão de questões mais específicas, algumas das quais envolvendo também a própria histó­ria da historiografia. Quais os grandes paradigmas historiográficos que, ontem e hoje, se colocam à disposição dos historiadores? Quais as ca­racterísticas essenciais do Positivismo, do Historicismo, do Materialismo Histórico, dos modelos historiográficos relativistas? Uma classificação das produções historiográficas em termos de paradigmas será suficiente para compreender em toda a complexidade um pensamento historiográ­fico? Estas são algumas das questões que o autor percorre nestes dois volumes.

Trazer uma discussão atualizada acerca dos paradigmas Positivista e Historicista é a proposta do volume II – Teoria da História – os pri­meiros paradigmas: Positivismo e Historicismo. Trata-se não apenas de examinar estes paradigmas do ponto de vista de uma história da historio­ grafia, como também de dar a perceber quais podem ser as contribuições desses paradigmas para a historiografia contemporânea. Para além desta discussão historiográfica, que estabelece um contraste entre os paradig­mas Positivista e Historicista, a grande questão que atravessa o volume é a da relação entre Objetividade e Subjetividade na construção do conheci­mento histórico, de modo que também são examinadas algumas correntes relativistas da historiografia que aprofundam a reflexão sobre a relati­vidade historiográfica encaminhada por alguns setores do Historicismo. Além disso, o volume se abre com uma discussão sobre a refundação da História como conhecimento científico, na passagem do século XVIII ao século XIX, e, para tal, o autor optou por desenvolver também uma di­gressão inicial sobre os modos como se pensava a História antes de que a historiografia ocidental passasse a se revestir de uma intenção bastante clara de cientificidade.

O terceiro volume – Paradigmas Revolucionários – dedica-se a dis­correr sobre os outros dois paradigmas que surgem ainda no século XIX. Em um primeiro capítulo o autor apresenta o Materialismo Histórico, dis­cutindo nas suas várias nuanças, e através de diversos autores, questões como a dialética, o conceito de modo de produção, os posicionamentos diante da noção de determinismo histórico, as definições de ‘classe so­cial’ e sua articulação com a ‘luta de classes’. Trata-se de mostrar como o Materialismo Histórico se desenvolveu em múltiplas direções, desde o século XIX, e sobretudo no decorrer do século XX. A segunda parte do volume aborda o que o autor denominou “Paradigma da Descontinuida­de”, partindo das críticas de Nietzsche às noções de progresso e finalis­mo, e chegando às propostas de Michel Foucault.

Se os três primeiros volumes da coleção Teoria da História oferecem um conteúdo já tradicional no estudo da Teoria e Metodologia da História, já o quarto volume da série – que foi chamado de Acordes Historiográfi­cos: uma nova proposta para a Teoria da História – é francamente inova­dor. A experiência proposta por José D’Assunção Barros é a de entender a complexidade da historiografia e da teoria da história a partir de uma imaginação musical, trabalhando mais especificamente com a metáfora do “Acorde Teórico”. Partindo desta nova proposta de análise que é a de conceber a complexidade de um pensamento autoral através da metáfo­ra do acorde, o livro examina, sucessivamente, o pensamento de alguns historiadores e filósofos da história, tais como: Walter Benjamin, Ranke, Droysen, Max Weber, Paul Ricoeur, Koselleck e Karl Marx. A proposta de operacionalização do conceito de “acorde teórico” (que, segundo o au­tor, pode ser utilizado também para a análise de pensamentos filosóficos, sociológicos, antropológicos, ou autorais de modo geral) ou de “acorde historiográfico” (mais especificamente referente aos pensamentos sobre a História) é introduzida por um capítulo no qual é discutida a abordagem, e que precede as diversas análises específicas que são desenvolvidas com esta nova perspectiva.

Conforme ressalta Barros, um acorde, na Música, é um som formado por diversos outros sons (as notas musicais), que, interagindo mutuamen­te, terminam por produzir um novo resultado sonoro. A ideia básica do livro de José D’Assunção Barros é comparar a complexidade autoral de historiadores e filósofos da história a acordes musicais complexos. Um autor, mesmo que apresente uma base de pensamento bem identificada com um dos paradigmas tradicionais ou com as diversas correntes do pensamento historiográfico, pode apresentar em sua identidade teórica di­versas outras influências autorais (que o autor chama de ‘notas de influên­cia’), ou características diversas que se tornam tão importantes para a sua singularidade teórica como o pertencimento a determinado paradigma. Assim, na identidade teórica de um pensador como Karl Marx existiriam muitas notas para além daquelas que poderiam ser caracterizadas como inerentes ao paradigma do Materialismo Histórico – que ele mesmo, aliás, ajudou a fundar com Engels. Isso ajudaria a perceber o que, no pensamen­to de Marx, é desdobramento de sua inserção no campo paradigmático do Materialismo Histórico, e o que seria já específico de Marx. A utilização da metáfora do acorde para compreender pensamentos autorais também possibilita entender pensamentos autorais em movimento, através das di­versas obras ou fases de um mesmo autor.

A inovação teórica proposta por José D’Assunção Barros neste últi­mo volume de sua série – certamente produto da dupla formação do autor, que além de historiador é também músico – deve ser saudada como uma tentativa de enxergar os tradicionais objetos da historiografia de uma nova maneira, de modo a resolver impasses que aparecem quando simplesmen­te nos limitamos a situar um autor dentro deste ou daquele paradigma. A coleção, a entender pela apresentação do próprio autor, ainda não está concluída. No prefácio da série, registra-se o plano de completar a cole­ção com mais dois volumes, discutindo a historiografia contemporânea, inclusive a mais recente, através dos conceitos de “escolas históricas” e “campos históricos”. O sexto volume, conforme a planificação do autor, retornará ao âmbito dos conceitos operacionais para a historiografia, dis­cutindo temas como o Tempo, o Espaço, a Memória, bem como o uso de hipóteses na História-Problema.

Monike Garcia Ribeiro – Doutoranda e bolstista (CAPES) do Programa de Pós-graduação em História Com­parada da Universidade Federal do Rio de Janeiro.

Pueblos Nómades en un Estado Colonial – NACUZZI et al (C-RAC)

NACUZZI, Lidia R.; LUCAIOLI, Carina P.; NESIS, Florencia S. Pueblos Nómades en un Estado Colonial. Chaco, Pampa, Patagonia, Siglo XVIII. Buenos Aires: Editorial Antropofagia, 2008. 112p. Resenha de: ZAPATA, Horacio Miguel Hernán. Chungara – Revista de Antropología Chilena, Arica, v.42 n.2, p.535-538, dic. 2010.

En 1924 iniciaba su recorrido esa obra que Marc Bloch tituló Los reyes taumaturgos, texto que invitaba a recorrer la historia de las creencias colectivas del milagro real y que instaba a adoptar una novel modalidad para elaborar y resignificar los problemas históricos al sostener que no habría conocimiento verdadero si no se tenía una escala de comparación. A través de sus páginas, este insigne historiador proponía comparar sociedades cercanas en el tiempo y en el espacio que se influían mutuamente, es decir, sociedades sujetas por su proximidad a la acción de los mismos grandes fenómenos y a la presencia de rasgos originarios comunes. Esta perspectiva de análisis trae aparejadas varias consecuencias importantes, tales como percibir las influencias mutuas que permiten avanzar más allá de una explicación estrictamente atada a los fenómenos internos de los distintos problemas, encontrar vínculos antiguos y perdurables entre las sociedades y proveer numerosas líneas posibles para nuevas investigaciones. Es evidente que la perspectiva comparada es una de las grandes promesas incumplidas de la historiografía occidental durante el siglo XX, y eso se debe, justamente, a las dificultades que implica su ejercicio, en especial en el caso de las investigaciones regionales. El libro Pueblos Nómades en un Estado Colonial. Chaco, Pampa, Patagonia, siglo XVIII, elaborado por Lidia R. Nacuzzi, Carina P. Lucaioli y Florencia S. Nesis recupera -por así decirlo- la tradición historiográfica iniciada por Bloch pero desde la clave de la etnohistoria. Él mismo explora las posibilidades de una reflexión comparativa que ponga en diálogo diversos estudios realizados en los últimos años sobre los grupos indígenas nómades que, hacia la segunda mitad del siglo XVIII, habitaban la Pampa, el norte de la Patagonia y el Chaco austral, en la región que en 1776 conformó el Virreinato del Río de la Plata, ocupada también por poblaciones sedentarias. En este último término, las autoras incluyen a aquellos grupos que lo eran siguiendo sus tradiciones ancestrales, otros que habían sido reducidos en pueblos bajo la tutela de misioneros jesuítas y los propios hispanocriollos que se establecían en ciudades y fortines.

La delimitación de estas áreas en el escenario de una macrorregión y la elección del tipo de sociedades obedecen a dos razones. En primer lugar, dar prioridad a un conjunto de temáticas que han sido objeto de las propias inquietudes y, por ende, de las trayectorias de especialización investigativa de las autoras. Los recortes temáticos y los escenarios abordados se vinculan a los propios antecedentes de las mismas, suficientemente trabajados, argumentados y documentados en libros, artículos, capítulos, ponencias y comunicaciones. En efecto, el libro da muestras de una fructífera convivencia de la reciente producción de dos jóvenes investigadoras con la reconocida trayectoria interpretativa de una experimentada académica, así como de la significación que los estudios etnohistóricos encierran para la comprensión de un mundo indígena complejo, heterogéneo, dinámico y contrastante. De la misma manera, el ejercicio de síntesis se ve beneficiado con la utilización crítica y la discusión explícita de ciertas obras publicadas en los últimos años, referidas al área rioplatense o al sur sudamericano, que han contribuido, en igual sentido que estas investigadoras, a la comprensión de algunos de los fenómenos que ocurrieron en la vida social, política, económica y simbólica de las sociedades indígenas latinoamericanas del siglo XVIII. A partir de estos esfuerzos mancomunados, se observa una obra madura, rica en aristas y que puede continuar creciendo y afianzándose a partir de nuevas preguntas y síntesis. En segundo lugar, el recorte temático obedece a la contemplación de un proceso sociohistórico común que opera como contexto de problematización: en aquella coyuntura de estructuración del nuevo Virreinato y como resultado del contacto con los europeos en la larga duración, esas poblaciones originarias nómadas habían experimentado transformaciones radicales en sus formas habituales de intercambio, movilidad, adquisición de recursos económicos y explotación de los productos naturales autóctonos. A ello se sumaban las mutaciones percibidas en sus configuraciones sociopolíticas y sus nuevas estrategias de relación con los hispanocriollos que, si bien comenzaban a andar en este momento, ratificarían su tendencia y consolidarían su carácter unas décadas más tarde.

El volumen, dividido en una introducción, ocho capítulos y un apartado con bibliografía especializada, procura discutir las ideas de la semejanza cultural entre los grupos indígenas que habitaban estas regiones hasta la llegada de los europeos y de la univocidad de las estrategias en relación con los agentes colonizadores. El libro se sumerge de lleno en estas cuestiones asumiendo uno de los principales riesgos que ello implica: la abundancia de preconceptos y de apriori. De este modo, su segundo objetivo es mucho más ambicioso: repasar algunas de acciones y las actitudes, tanto de las poblaciones originarias como de sus colonizadores, con el ánimo de compararlas y explicar de una manera diferente, pero sobre todo más compleja, diversos temas y problemas que por muy conocidos -o tal vez sólo por muy mencionados- parecen no requerir un análisis crítico. En lo que al basamento de fuentes de primera y segunda mano se refiere, no es para nada ocioso insistir aquí en que las autoras se apartan de cualquier enfoque histórico positivista que ampare una lectura con pobreza de rigor. Todos los documentos que se citan, que por cierto son muy profusos y diversos en orígenes (relatos, cartas, informes, descripciones elaborados por los funcionarios, sacerdotes y viajeros, u otro tipo de personajes), más allá de estar viciados de antemano por la intencionalidad de los mismos, son leídos y enmarcados con mucha atención y cuidado. De esta forma, la interpretación acerca de la documentación logra ir más allá del polvoriento mundo de los papeles, indefectiblemente mediado por lenguajes, formas narrativas y códigos de inteligibilidad de la sociedad hispanocriolla, para ir al encuentro de las propias voces y acciones de los indígenas en proposiciones referidas a sus prácticas y experiencias. El primer capítulo, “Algunos conceptos instrumentales para el estudio de los pueblos nómades”, como bien indica su título, ahonda en aquellos aspectos clave del marco teórico y conceptual, repasando las categorías que se han empleado y que continúan manejándose todavía hoy para describir y analizar el proceso de conocimiento de los grupos indígenas americanos nómades por la sociedad europea. Deconstruyendo los prejuicios, sentidos comunes y problemas en los cuales se incurría por la mirada etnocéntrica y evolutiva de los primeros observadores, historiadores y etnógrafos que analizaron los pueblos nómades, las autoras son conscientes que algunos de tales conceptos son útiles como instrumento de análisis. Se presentan de este modo algunas formulaciones en torno a categorías de frontera, etnogénesis, middle ground, mestizajes, tribu, cacicazgos y jefaturas, al mismo tiempo que las desbroza críticamente para poder plantear un nuevo diálogo con los registros empíricos, complejizar las múltiples estrategias sociales, políticas y económicas que se pusieron en acción y, en definitiva, modificar la idea generalizada de un contacto cultural basado sólo en la violencia entre las sociedades aborígenes y los hispanocriollos.

El segundo capítulo enseña un minucioso examen del “espacio geográfico y político” en el cual habitan los grupos analizados, detallando las características fundamentales desde el punto de vista espacial y ambiental de las áreas pampeano-patagónica y chaqueña. También se explaya en las formas de equipamiento político, administrativo y social que tienen lugar en tales territorios a partir de la instalación del sistema colonial. El mapa en esta sección permite una rápida visualización de los establecimientos españoles en dichos espacios (ciudades, fuertes y reducciones) al mismo tiempo que traza cartográficamente los resultados, avances y retrocesos territoriales efectivos de la política llevada a cabo por la Corona hispánica para poblar, dominar y evangelizar a los indígenas. En efecto, en todas estas regiones no colonizadas se ensayaron alternativamente los mismos tipos de dispositivos de control: los fuertes y las reducciones se ubicaban dentro de un proyecto más global que tenía por objetivos avanzar sobre los territorios indígenas, sentar precedentes del dominio español en determinados lugares y mediar los conflictos entre hispanocriollos y poblaciones nativas. Uno y otro asentamiento pusieron a la vista otros dos caracteres que los asemejaban en función estratégica y en su dinámica: ambos escenarios constituyeron verdaderos enclaves fronterizos antes que una efectiva presencia política del dominio colonial, mientras que la fundación y permanencia de los enclaves en el tiempo, ya fueran reducciones o fuertes, fue posible en la medida que allí se dio una confluencia de intereses de los grupos indígenas y de las autoridades coloniales implicadas. Las autoras, no obstante, son prudentes al destacar que la conformación geopolítica propia de estos espacios no colonizados y los grupos involucrados imprimieron perfiles especiales a cada uno de los movimientos hispanocriollos. Así lo demuestra, a guisa de ejemplo, el proceso de evangelización: mientras que en el Chaco la política reduccional estableció espacios de interacción más visibles y duraderos donde la existencia de centros urbanos cercanos habría posibilitado el acceso a nuevos recursos, la facilidad de entablar diálogos y canalizar ciertas necesidades a partir de una relación asidua, constante y directa con los funcionarios eclesiásticos y gubernamentales, en la zona de Pampa-Patagonia, simultáneamente, el territorio controlado por los pueblos nómades era mucho más vasto y no existía el tipo de poblamiento colonial que hubiera representado barreras políticas o geográficas que los contuviera, por lo que la política reduccional fracasó o no tuvo el éxito esperado. En este último caso, las reducciones no fueron por así decirlo la “punta de lanza” de la conquista, por lo cual españoles y criollos se valieron de los fuertes para ocupar estas fronteras. Los fuertes se volvieron rápidamente arenas donde operaron novedosos y complejos vínculos sociales, políticos, comerciales y culturales con los aborígenes de la zona.

En el tercer capítulo, “Los grupos indígenas”, las autoras presentan un recorrido por las diferentes menciones y descripciones que han realizado, desde el siglo XVIII, misioneros, funcionarios coloniales, viajeros y primeros etnógrafos sobre aquellos grupos que habitaron las regiones. De esta manera, se aprecia tanto la exagerada, aunque siempre constante, diversidad de criterios para su caracterización como las múltiples nomenclaturas que recibieron estas poblaciones, recapituladas de manera clara y precisa al final de la sección a partir de dos cuadros de síntesis. Ello permite mostrar cómo, tanto para la región pampeano-patagónica como para la chaqueña, los estudios etnográficos que se realizaron hasta la década de 1980 identificaron a numerosos conjuntos, aunque muchas veces se trató de una precisión meramente nominal, a la vez que reconocieron la biparticipación clasificatoria que señala a las mismas sociedades como nómades por un lado (como los tehuelches, abipones, tobas mocovíes) y, por el otro, a comunidades más sedentarias con prácticas agrícolas (como los mapuches, lides vuelas). Este aspecto lleva a las autoras a plantear otros dos paralelismos en las investigaciones realizadas sobre las zonas propuestas. En primer lugar que, en el devenir de los estudios etnográficos hacia los estudios históricos o etnohistóricos, en ambas regiones se pasó de la mencionada enumeración de una gran cantidad de nombres étnicos -aunque con escasas diferencias formales entre unos y otros a la hora de describir a los grupos- a evitar mencionar esas subdivisiones en trabajos más recientes que se ocupaban de aspectos económicos, políticos, ceremoniales o sociales, donde la adscripción étnica parece no pesar tanto. En segundo lugar, que en esos mismos estudios de etnografía clásica anteriores a 1980, hubo una tendencia -en principio solamente para la región patagónica, pero que luego se reproduce con fuerza en el caso chaqueño- a considerar datos que brindaban fuentes de diversos periodos y lugares como válidos para describir a las poblaciones étnicas de cualquier momento del período de contacto y de cualquier lugar de los extensos paisajes considerados.El capítulo cuarto se detiene en los territorios y los movimientos de estos grupos indígenas. Las autoras no se limitan por supuesto a mostrarnos estos movimientos, de por sí interesantes, sino a tratar de explicar sus causas, estructuras, condiciones y sus efectos sobre la economía de los mercados coloniales. Muchos lectores se sorprenderán -como quien reseña y gusta observar las dinámicas sociales cartografiadas en algún formato- del hecho de que no encontraremos mapas, planos o intentos de croquis en este capítulo que sitúen tales movimientos. Pero la exposición amena y sencilla permite bosquejar históricamente la ubicación y diferenciación de cada uno de los grupos como así también los ciclos que les permitían explotar diferentes recursos desplazándose por diversos territorios a lo largo de todo el año o reuniéndose en espacios acordados previamente para intercambiar bienes, dedicarse a ciertas actividades económicas y atender ciertas cuestiones políticas y sociales, como las alianzas o los matrimonios. Las autoras, siempre atentas a las peculiaridades de las sociedades trabajadas, discuten en su análisis algunas de las teorías comúnmente aceptadas en los trabajos de este tipo. Así, por ejemplo, las nociones acerca de que los pueblos nómades del Chaco y la Patagonia eran exclusivamente cazadores o cazadores-recolectores o viceversa y que, por ende, la actividad predominante era la caza de grandes presas (siendo la recolección una mera actividad adicional irrelevante), que sus movimientos estaban condicionados por el medio ambiente, que limitaban sus prácticas económicas a la subsistencia, que eran “salvajes por no practicar la agricultura ni formar pueblos o que no programaban sus movimientos ni su vida cotidiana”.

A su turno, el quinto capítulo considera la “adopción del ganado” y las “nuevas estrategias económicas”, repasando los contextos económicos de los grupos que recibieron o adoptaron el caballo y los debates asociados a la crítica de la noción de complejo ecuestre o “horse complex”. Aquí las autoras recuperan la noción de complementariedad para entender las relaciones económicas y enmarcan la incorporación del caballo, luego de una completa muestra de los diferentes usos y de las consecuencias (sociales, ceremoniales, políticas y económicas) que ocasionó su adopción, en un proceso histórico que involucró no sólo la anexión de otros bienes que aparecieron por el contacto con los europeos, sino también, y desde otra dirección, cambios importantes en las relaciones interétnicas, las configuraciones identitarias y las estrategias políticas, tema que será abordado en el siguiente capítulo. En efecto, el último capítulo estudia, en su primera sección, las dinámicas operadas en las formas de autoridad política que existían entre las poblaciones indígenas de Chaco, Pampa y Patagonia. A los fines de dar cuenta de la complejidad de los liderazgos y de las múltiples instancias en la que era necesaria su agencia y se daba cita su rol mediador, las autoras distinguen los diversos rasgos que tuvo la figura del cacique en cada uno de las etnias, teniendo en cuenta distintas variables, como, por ejemplo, la participación de tales personajes en la conformación de las reducciones en el área del Chaco, la existencia de cacicazgos duales en el área patagónica o su vinculaciones de diversa índole con los fuertes de la región.

La sensibilidad comprensiva de las autoras a los problemas peculiares de las regiones y de los grupos que estudian se refleja en la otra sección del capítulo seis: las interacciones étnicas. En el cuadro de relaciones interétnicas complejas, la guerra y la diplomacia conformaron algunas de las tantas siluetas significativas de esas relaciones, resultado de los roces que la mayor proximidad generaba y de la creciente competencia por los recursos. Ante dicha situación, las autoridades procedieron de diferentes formas: trataron de obtener la amistad de algunos caciques con regalos y dádivas para oponerlos a los más agresivos, aprovechando para ello las rivalidades intertribales; intentaron instaurar misiones, tarea que estuvo a cargo de religiosos y que tuvieron corta existencia; buscaron fortalecer la frontera creando una organización militar basada en un sistema de fuertes, fortines y guardias y en un cuerpo de militares permanente. Guerra, alianza y reducción, entonces, fueron tres modalidades de vinculación interétnica que los diferentes actores de la sociedad hispanocriolla estimaron debían ir de la mano en tanto dispositivos centrales y concomitantes de la estrategia de sujeción sobre la población autóctona. Pero más allá los reveses de estas políticas, las etnohistoriadoras encuentran que tanto en la reducción (como manera de sujeción pacífica), en los tratados (como acuerdos de sosiego coyuntural) e inclusive en la guerra (como punición a los excesos), los caciques fueron siempre los interlocutores buscados por los agentes coloniales ya que, a cambio de la obtención de bienes y de exigir ciertos servicios y prerrogativas, facilitaban el acceso a los grupos, el conocimiento de sus políticas, las negociaciones económicas, la devolución de cautivos y los acuerdos de paz. Por supuesto, estas condiciones dependieron tanto de las aptitudes y estrategias grupales de los pueblos no sometidos aún al control del estado colonial como de las necesidades de la población blanca, ambos resortes emplazados en ámbitos regionales y locales que le otorgaban su impronta específica.La manera magistral con que se abordan las problemáticas muestra al enfoque comparativo como una excelente herramienta para poner a prueba la comodidad y la pertinencia de muchos de los supuestos que parecían demostrados para estos grupos, para desbrozar las similitudes y diferencias de las dinámicas sociohis-tóricas que involucraron a los mismos, para producir nuevas respuestas a problemas ya planteados y nuevos interrogantes que permitieron revisar los siguientes tópicos: la identificación de grupos étnicos y sus nombres-rótulos, los prejuicios en torno al nomadismo y su verdadera dimensión (en regiones ora poco exploradas por los hispanocriollos, ora en donde se habían establecido un número considerable de reducciones), las nociones de territorialidad de los grupos, la existencia de cacicazgos duales, las pautas económicas de estos cazadores-recolectores, el rol de los caciques en las relaciones interétnicas, el papel de los bienes europeos en su economía, los procesos de especialización para responder a la demanda de los mercados coloniales y la complementariedad -principalmente en los aspectos económicos, pero también de otros tipos- entre grupos nómades y grupos sedentarios.

Sin duda, como todo intento de síntesis, éste ofrecerá en el futuro algunos caminos novedosos e hipótesis a confirmar o a rectificar que estimularán nuevas investigaciones. Pero además, redundará en una experiencia más que significativa para el lector, ya que obtendrá una imagen más nítida de cómo los pueblos aborígenes del norte de la Patagonia y la Pampa como los del Chaco austral, aun reducidos, desarrollaron una manera de vivir en esa condición que se adaptaba a sus pautas anteriores -sobre todo en cuanto a movimientos- y les permitía flexibilizar la inmovilidad que hubiera supuesto la vida en un pueblo de reducción y de cómo aquellas sociedades que no ingresaron en este tipo de situaciones y permanecieron autónomas fueron protagonistas muy activas de los contactos interétnicos, desarrollando espacios de acción y comunicación con los europeos, entrecruzando sus prácticas socioculturales e improvisando formas originales de actuar e intervenir en diversas esferas de la vida social y política, lo que los transformó en agentes no secundarios en la historia de dichas interacciones sociales. En el esfuerzo de dejar atrás viejas concepciones, de no crear nuevos mitos y de confrontar las agencias indígenas en la realidad rioplatense, Pueblos Nómades en un Estado Colonial… constituye un excelente comienzo. Y eso es ya decir mucho.

Horacio Miguel Hernán Zapata – Escuela de Historia-Centro Interdisciplinario de Estudios Sociales (CIESo), Facultad de Humanidades y Artes, Universidad Nacional de Rosario, Rosario, Argentina. E-mail: horazapatajotinsky@hotmail.com

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Poder e Trabalho – Experiências em História Comparada | Fábio de Souza Lessa

Em Poder e Trabalho, livro organizado pelo Prof. Dr. Fábio de Souza Lessa do Departamento de História da Universidade Federal do Rio de Janeiro (UFRJ), encontramos uma síntese das amplas possibilidades apresentadas aos estudos históricos pelo método comparativo: a análise de diversos acontecimentos e fenômenos históricos a partir da “perspectiva construtiva”, baseada na apresentação de um conjunto de problemas em comum.

Poder e Trabalho traz o que há de mais significativo no método comparativo: a possibilidade de termos uma temática eleita e esta ser desenvolvida, através do comparativismo, em diversos períodos históricos. A partir dos eixos Poder e Trabalho, professores, mestres e mestrandos do Programa de Pós-Graduação em História Comparada (PPGHC) da UFRJ, elaboram reflexões acerca da temática central do livro, mas em períodos e espaços distintos, como África Antiga, Brasil Contemporâneo, Grécia antiga, Península Ibérica Medieval, dentre outros. Leia Mais

História Comparada das Mulheres – COVA (LH)

COVA, Anne (Dir.). História Comparada das Mulheres. Lisboa: Livros Horizonte, 2008. Resenha de: BALTAZAR, Isabel. Ler História, n.57, p. 159-161, 2009.

1 A História das Mulheres tem merecido a atenção dos historiadores, conscientes do muito trabalho a realizar. Muitos centros de investigação, no estrangeiro, um pouco por todo o mundo, como também em Portugal, dedicam-se a esta área, preenchendo lacunas na história que o tempo veio mostrar essenciais para mostrar a verdadeira identidade humana, composta de homens e de mulheres. Num verdadeiro impulso investigativo, as mulheres, que já eram protagonistas da História, ganharam, agora, maior visibilidade. Como escreveu Gisela Bock «Uma história que ignora metade da humanidade, não é sequer meia história, pois sem as mulheres a história não faria justiça tão-pouco aos homens» (p.8).

2 Para divulgar esta história muito contribuem, também, as editoras que permitem veicular o resultado das investigações académicas, muitas vezes, pouco divulgadas. É, por isso, de elogiar, no caso concreto, os Livros Horizonte, que tiveram a ousadia de correr contra uma cultura de massas, proporcionando livros de inquestionável qualidade. Trata-se da colecção A Mulher e a Sociedade, que acaba de publicar a História Comparada das Mulheres, na sequência de outros interessantes e apelativos títulos como, por exemplo, Nem Gatas Borralheiras, nem Bonecas de Luxo. As mulheres portuguesas sob o olhar da História (séculos XIX-XX), da autoria de Irene Vaquinhas, o primeiro da colecção, e outra “Cabelos à Joãozinho”. A Garçonne em Portugal nos anos Vinte, de Gabriela Mota Marques, o que antecede este agora apresentado.

3 Esta obra, tradução em português de um livro publicado originalmente em inglês nos Estados Unidos, sob a direcção de Anne Cova com o título Comparative Women’s History: New Approaches, editado por Columbia University Press (2006), mereceu a actualização bibliográfica na edição portuguesa. Curiosamente, a História Comparada das Mulheres: Novas Abordagens é o resultado de um workshop realizado na Universidade Aberta intitulado «Como escrever uma História Comparada das Mulheres?», com o propósito de «estimular o debate e dar um novo ímpeto à História das Mulheres» (p.11).

4 Anne Cova revela que «a ideia deste livro surgiu à medida que me envolvia num estudo comparado das federações feministas em França (Conseil national des femmes françaises), Itália (Consiglio nazionale delle donne italiane), e Portugal (Conselho nacional das mulheres portuguesas) durante a primeira metade do século XX» (p.11).

5 A introdução tem o sugestivo título «As promessas da História Comparada das Mulheres». Que promessas? Diz Anne Cova: «Este volume pretende abrir novas perspectivas sobre a escrita da História comparada das mulheres. Procura examinar as promessas que tal empreendimento encerra sob pontos de vista diferenciados, ao mesmo tempo que confronta as dificuldades que se lhe deparam. O ponto de partida e cerne deste livro é a questão: Como escrever uma História comparada das mulheres?» (p. 13). Estas linhas programáticas avisam o leitor do objectivo deste estudo: a necessidade de comparação na História das Mulheres.

6 Estamos perante uma história cruzada, uma história transnacional, perspectivas complementares na abordagem da História das Mulheres ou da História do Género, designações para o mesmo tipo de abordagem. Por outro lado, está, ainda, pressuposta a ideia de que a História das Mulheres «é essencial para uma correcta compreensão da História em geral» (p. 13). Por fim, a tentativa de empreender «novas abordagens», sugerindo a ideia que «a globalização exige o desenvolvimento de novas perspectivas na História comparada das mulheres, que permitam melhorar a nossa compreensão do passado, e reescrever uma História comparada que inclua as mulheres» (p.14). A este propósito refira-se a excelente e paradigmática obra sobre o assunto da autoria de Gisela Bock, Women in European History, ou a já clássica História das Mulheres no Ocidente, coordenada por Georges Duby e Michelle Perrot, que nortearam os paradigmas desta agora apresentada. Françoise Thébaud tem insistido na utilidade da perspectiva comparada ou «numa História que faça uma análise cruzada com práticas e debates estrangeiros; a História das mulheres como um fenómeno internacional, tem beneficiado tanto de trocas interculturais» (p.16).

7 Outros estudos comparativos são apresentados por Anne Cova sobre o estado da arte nesta temática, tanto na Europa como numa perspectiva mais global, tornando esta introdução verdadeiramente indispensável como ponto de partida para novas abordagens. Para além dos estudos sobre o assunto, não podemos deixar de elogiar a excelente teorização sobre a questão das fontes e os problemas inerentes a qualquer estudo comparado. Adverte a autora: «Como se faz comparação? Se qualquer projecto de pesquisa deve começar por justificar as delimitações geográfica e cronológicas, então este exercício pode ser mais complicado nos estudos comparados em virtude das dificuldades que a comparação levanta. É essencial estar muito atenta(o) à contextualização de qualquer fenómeno, quaisquer que sejam as sociedades que irão ser comparadas. Analisar as semelhanças e as diferenças é comum a todo o trabalho comparativo. Estabelecer as convergências, pontos comuns, e semelhanças que existem entre os casos sob comparação, ao mesmo tempo que se analisam diferenças, divergências, singularidades, e especificidades, leva-nos a dar mais importância a quê? Ou dito de outro modo, as diferenças são mais esclarecedoras do que as semelhanças, ou vice-versa?» (p.25).

8 O primeiro estudo, da autoria de Karen Offen, é sobre «Erupções e Fluxos: reflexões sobre a escrita de uma história comparada dos feminismos europeus, 1700-1950», mostrando a ausência do feminismo no estudo ou no ensino da História. Pretende a autora que esta situação seja alterada: «Esta História negligenciada ou esquecida – ou o que é pior, reprimida –, que a(o)s estudiosa (o)s feministas agora reclamam, é central para a nossa compreensão da história política e intelectual, assim como da história social, económica e cultural de praticamente todas as sociedades europeias» (p. 29). Porquê? A história dos feminismos vem preencher uma lacuna na História, dando visibilidade ao que existia na sociedade, sem passar à História o que, afinal, está na essência da sociedade. Trata-se de recuperar fontes primárias de documentação escrita, ou seja, de olhar de dentro para fora. Fazer a história dos feminismos é diferente de fazer a História das Mulheres ou das Organizações femininas; é tentar decifrar a face oculta dos factos, ler o que está implícito na História.

9 Bonnie S. Anderson conta-nos a história vivida na década de 1970 quando trabalhava numa História narrativa das mulheres na Europa. Era a história de mulheres que pretendiam uma igualdade cívica, política e social. Com a consciência da dificuldade em captar toda a realidade, a «História comparada vale bem o esforço. Sem ela, nunca descobriríamos as semelhanças e as diferenças que são essenciais para saber se iremos viver toda(o)s junta(o)s em harmonia e de forma produtiva neste próximo século» (p. 59).

10 Em «Erro de tradução? A História das Mulheres numa perspectiva transnacional e comparada», Ann Taylor Allen chama a atenção para o facto da história comparada estar, ainda, a dar os primeiros passos e para a sua real importância, também para a História do Género. Tanto para o investigador como para o professor de História global. Por último, Susan Pedersen explica as convergências e divergência da História comparada e a História das Mulheres. Um estudo que problematiza e faz pensar: «Haverá uma afinidade particular entre o método comparativo e a área da História das Mulheres? Acredito que sim e que essa relação tem a sua própria história» (p. 79). É necessário cruzar saberes e construir pontes para perceber melhor a realidade.

11 Eis uma verdadeira lição sobre o método de fazer História comparada, útil a qualquer aprendiz, mas que também faz pensar, pelos problemas que levanta, o especialista. Uma obra de referência.

Isabel Baltazar – FCSH – UNL

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História comparada do esporte | Victor Andrade de Melo

O livro História comparada do Esporte reúne um conjunto seleto de onze textos escritos por alunos e professores do Programa de Pós-Graduação em História Comparada do Instituto de Filosofia e Ciências da Universidade Federal do Rio de Janeiro (PPGHC/IFCS/UFRJ). Sob orientação e organização do Prof. Dr. Victor Andrade de Melo, que também escreve um dos textos, os autores fazem uso da História comparada para direcionar suas investigações e estabelecer considerações sobre o esporte em suas diferentes manifestações.

Pautados no sub-campo da história do esporte, os textos, além da diversificação no uso do método de História comparada, analisam temáticas e períodos históricos diferenciados. Divididos e organizados a partir de cinco áreas, os artigos publicados demonstram coerência entre si e proporcionam ao leitor uma compreensão facilitada acerca dos temas que abordam. A divisão proposta pelo organizador compreende, desde a caracterização das possibilidades e dos limites teórico-metodológicos da Historia comparada do esporte até o agrupamento dos textos a partir de temas como Futebol, História Antiga/História Contemporânea, Esporte, e Outras práticas corporais. Leia Mais

Brasil e Argentina: um ensaio de história comparada (1850-2002) | Boris Fausto e Fernando J. Devoto

Brasil e Argentina padecem de certa insuficiência de desenvolvimento econômico e social, sendo a maior parte dos problemas derivada de erros de gestão macroeconômica e de escolhas infelizes de suas elites políticas ao longo dos anos de formação das nações respectivas e dos momentos de ajuste aos desafios externos, no decorrer do século XX. Durante muito tempo, prevaleceu no Brasil a noção de que a Argentina era bem mais desenvolvida, graças a um maior componente “europeu” na sua formação étnica e aos maiores cuidados com a educação do seu povo. Depois, prevaleceu na Argentina a noção de que o Brasil foi mais bem sucedido na industrialização e no fortalecimento da base econômica, graças ao maior envolvimento de seu Estado na gestão macroeconômica, em lugar do liberalismo praticado naquelas margens da bacia do Prata. Hoje, se pretende avançar no desenvolvimento conjunto, mediante o Mercosul, mas as salvaguardas e os desvios ao livre comércio demonstram os limites da integração econômica.

Essas visões, parcialmente corretas, decorrem de uma complexa realidade, que é examinada, com lentes cuidadosamente focadas nas particularidades nacionais, por um historiador de cada um desses dois países, que colocam em perspectiva comparada, mas não necessariamente em paralelo, duas trajetórias comparáveis, na forma e no conteúdo. Eles se baseiam, neste empreendimento inédito na historiografia regional, em metodologia proposta há muitos anos pelo historiador francês Marc Bloch, que recomendava o estudo de sociedades próximas no espaço e no tempo, buscando não apenas as semelhanças, mas também as diferenças. Este “ensaio de história comparada” começa, justamente, por um excelente capítulo introdutório que discute as vantagens e modalidades do comparatismo em história. Leia Mais

A evolução da sociedade internacional: Uma análise histórica comparativa | Adan Watson

As relações internacionais no mundo contemporâneo têm gerado profundos desafios de compreensão tanto para os tomadores de decisão como para a comunidade acadêmica. Esses, por sua vez, têm adquirido uma fecunda preocupação com teorizações adequadas para a compreensão desse mundo complexo que se delineia no limiar do século XXI.

A tradução do clássico livro de Adam Watson, nesse sentido, tem um valor especialmente significante para a comunidade brasileira de relações internacionais. Isso porque ao possibilitar uma reflexão alternativa sobre o conceito-chave de sistema internacional, o livro também propõe profundas questões metodológicas. Leia Mais

Entre mitos, utopia e razão: os olhares franceses sobre o Brasil (século XVI-XVIII) – PALAZZO (VH)

PALAZZO, Carmen Lícia. Entre mitos, utopia e razão: os olhares franceses sobre o Brasil (século XVI-XVIII). Coleção Nova Vetera. Porto Alegre: EDIPUCRS, 2002. Resenha de: PIERONI, Geraldo. Varia História, Belo Horizonte, v.18, n.26, p. 153-155, jan., 2002.

André Thevet, Jean de Léry, Claude d’Abbeville, Yves d’Evreux… Voilà les français! Estes são apenas alguns dos Messieurs que atravessaram o mar oceano e, deslumbrados, desembarcaram na costa brasileira. O que procuravam nesta imensa Terra Brasilis estes nossos cultos viajantes? Talvez poderíamos arriscar uma resposta comum a todos eles: conhecer o Novo Mundo: exótico, diferente, antítese da Europa civilizada.

Relatar o que eles observaram não é o objetivo primeiro de Carmen Lícia Palazzo ao escrever Entre mitos, utopia e razão: os olhares franceses sobre o Brasil (séculos XVI a XVIII). Sua intenção vai muito além do evidente. A autora, historiadora experiente, doutora em História pela Universidade de Brasília, com muita competência e domínio da historiografia, apresenta ao leitor um excelente trabalho. Sua investigação é criteriosa acerca dos múltiplos e matizados olhares que os viajantes franceses lançaram sobre o Brasil, desconhecido em muitos aspectos, porém fascinantemente atraente.

Os documentos utilizados foram, sobretudo, os registros de viagens e obras eruditas de pensadores que debruçaram, embora muitas vezes sem o contato direto, sobre estas novas terras d’além mar.

Com relação à idéia sobre o Brasil, há interrupção ou prosseguimento nos olhares dos franceses? Problematizou a autora! Sua conclusão foi que estes viajantes e pensadores dos séculos XVI ao XVIII deixaram registrados inúmeros comentários e obras onde se pode perceber pontos de vista que foram se transformando. Este movimento de mudanças, no entanto, não se dá no ritmo dos cortes cronológicos tradicionais. Uma leitura cuidadosa dos escritos e, a título complementar, da iconografia de cada época, permitiu à historiadora detectar continuidades relevantes inseridas no universo mental dos viajantes – continuidades estas que se mantêm até quase o final do século XVII. Somente a partir do século XVIII, particularmente com o iluminista La Condamine, é que se pode verificar uma efetiva mudança nas visões francesas do Brasil.

Recorrendo aos recursos da história comparativa, a historiadora aborda e confronta dois momentos específicos: o das permanências (séculos XVI-XVIII) e o da ruptura capturada pelas visões da modernidade (século XVIII).

A exemplo de Jacques Le Goff, defensor, entre outros, de uma “longa Idade Média” que se prolonga até quase às portas da Revolução Industrial, a autora utiliza semelhantes conceitos fixando-os no contexto das grandes viagens e mentalidades culturais dos séculos XVI e XVII. A própria iconografia corroborou a idéia das permanências. Gravuras e telas da época evidenciaram elementos que remetiam ao imaginário medieval. As narrativas e ilustrações dos viajantes assimilaram abundantemente figuras extraordinárias, demônios e monstros. Seus discursos são destoantes das características culturais e políticas da Idade Moderna. Neles prevalecem os componentes ainda amarrados ao imaginário Medievo. O espaço dedicado aos mitos e utopias é enorme: o fantástico predomina. Só a partir do século XVIII, com a razão iluminista, é que se evidenciam as rupturas da assim chamada modernidade. Daí para frente ciência e razão são os principais instrumentos para a leitura do Outro – distante e diferente – para buscar entendê-lo e, sobretudo, explicá-lo. E como conclui a autora: “Com o abandono de mitos e maravilhas, é o espaço do sonho que se retrai”.

O trabalho de base contido no livro permite melhor compreender os mecanismos das transformações que se tornam visíveis somente se inseridas no tempo longo. Foi exatamente este recurso teórico que Carmen Lícia utilizou para confeccionar a textura do seu livro. No prudente labor de perceber as mutações na longa duração, como já referido acima, foram estudadas iconografias da época e escritos de pensadores, como o abade Raynal, Voltaire e Buffon. Neste conjunto de representações é possível desvelar perfis de comportamentos e imagens que, prolongando ou alterando-se gradativamente no tempo, resultam novas e movediças nuanças das representações do Brasil.

Entre mitos, utopia e razão: os olhares franceses sobre o Brasil (século XVI a XVIII) é uma obra profundamente instrutiva e sua cronologia é primorosa. Rupturas ou continuidades? Permanências medievais ou triunfo das Luzes? Neste caso a razão iluminista não foi mais aberta à alteridade do que o foram os viajantes anteriores que aceitaram o mítico e o maravilhoso como explicações para a diferença.

Geraldo Pieroni – Doutor em História pela Université Paris-Sorbonne (Paris IV). Professor na Universidade Tuiuti do Paraná (UTP). Autor, entre outros, dos livros: Os Excluídos do Reino, editora UnB, Brasília: 2000 e Vadios, Ciganos, Heréticos e Bruxas: os degredados no Brasil colônia. Editora Bertrand do Brasil, Rio de Janeiro: 2000.

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Abolitionism in the United States and Brazil. A Comparative Perspectiva – AZEVEDO (VH)

AZEVEDO, Célia Marinho. Abolitionism in the United States and Brazil. A Comparative Perspectiva. Nova Iorque e Londres: Garland Publishing, 1995. Resenha de: FUNARI, Pedro Paulo A. Varia História, Belo Horizonte, v.13, n.17, p. 279-282, mar., 1997.

A tese de doutoramento da Professora Célia Marinho Azevedo, apresentada à Columbia Universlty, nos Estados Unidos, acaba de ser publicada na coleção de “Estudos sobre Cultura e História Afro-Americana”, de Nova Iorque. Raras são as obras de brasileiros publicadas no exterior e, ainda mais excepcionais aquelas que não se refiram apenas ao Brasil, como é o caso deste estudo comparativo do abolicionismo nos dois países. Na verdade, a abolição tem sido considerada muito mais do ponto de vista econômico e político do que de uma perspectiva social e cultural e este trabalho, portanto, cobre também uma lacuna na historiografia sobre o tema 1_ O livro começa com um pequeno prefácio, seguido de uma introdução bibliográfica (lx-xxiv) e desenvolve-se por quatro capítulos principais, sobre “O abolicionismo nos dois países: uma visão geral” (págs. 3-20), “Visões do senhor de escravos” (págs_ 21-48), “Visões do escravo” (págs. 49-82), “Reflexões sobre o racismo e o destino no ex-escravo” (págs. 83-120), concluindo com um “Epílogo” (págs. 121 -126). Em cada tópico, as experiências do abolicionismo brasileiro e norte-americanos são analisadas, comparativamente e passo a passo. A erudição da autora pode ser avaliada pelas 36 páginas de notas e as 444 obras citadas, entre fontes primárias e secundárias. Sua leitura, contudo, nem por isso é difícil, mas, ao contrário, a suavidade do texto apresenta-se. ainda. tornada mais agradável pela beleza do estilo claro e pouco afeito ao jargão.

A bela comparação entre o abolicionista William Lloyd Garrison, nascido no norte dos Estado Unido e alheio, d todo, à prática da escravidão e Joaquim Nabuco, antigo senhor tornado opositor do sistema, permite observar a precisão estética da autora: “falando com este senhor, Garrison sentiu-se, provavelmente, um verdadeiro outsider, incapaz de compreender a consciência e o mundo do dono de escravos. Pelo contrário, para o futuro líder abolicionista brasileiro, Joaquim Nabuco, a escravidão tinha sempre sido uma realidade tão natural como o ar que respirava. A escravidão não era uma instituição esquisita que, às vezes, ouve-se falar ou encontra-se, face a face, apenas em circunstancias excepcionais. A escravidão era o seu mundo e moldava sua consciência tão profundamente quanto o fazia para o dono de escravos que Garrison havia encontrado na prisão de Baltimore” (págs. 16-17). Azevedo utiliza-se do conceito de “imaginário” para descrever a criação perene de figuras, formas e imagens que permite aos agentes históricos, neste caso abolicionistas. produzir sua ”realidade” e sua “racionalidade”. O livro pode ser lido como uma oposição constante entre duas culturas irredutíveis, cujas escravidões e abolicionismos guardam semelhanças externas, em parte derivadas da sua inserção em um contexto internacional comum, e profundas diferenças ideológicas.

Os diferentes caminhos dos dois países na sua emancipação política explicam, em grande parte, os divergentes abolicionismos. A Revolução Americana e a vitória do republicanismo construíram idéias sobre a identidade nacional. a igualdade política e social e a cidadania completamente diversas do compromisso pacífico entre a Coroa portuguesa e a nova nação brasileira. Seguindo as idéias desenvolvidas por David Brion Davis, sobre a liberdade interior e a virtude, Azevedo considera que o abolicionismo norte-americano foi o resultado de um pensamento inovador, derivado de uma nova ética de benevolência, cujo ideal de responsabilidade individual substituiu os antigos padrões. em de integração, da caridade da responsabilidade social de cunho medieval. Esta filosofia, surgida na Grã-Bretanha, no século XVII, confiava na capacidade humana de aprimoramento moral e opunha-se tanto à predestinação calvinista como ao apego ritualístico do catolicismo tradicional. A este ethos americano, opõe-se o caráter patriarcal da sociedade brasileira. Baseada na hierarquia e na proteção derivada das relações de compadrio, a sociedade católica brasileira, fundada no respeito à ordem vigente, que incluía a escravidão, só podia conceber o abolicionismo como … movimento dentro da Iei ! “Os abolicionistas brasileiros permaneceram, normalmente, determinados a combinar a abolição com o respeito das leis, o que, em um país escravista. eqüivalia a respeitar os interesses dos donos d escravos” (pág. 45). A guerra civil americana e seus mortos representam uma quebra com o antigo regime que, no Brasil, nunca houve. Como lembra Célia Marinho Azevedo, a passagem pacifica à emancipação, no Brasil, foi acompanhada pela reforma eleitoral de 1879 que reduziu os votantes de 1.114.066, em 1874, para apenas 145.296, em 1879 2.

O abolicionismo norte-americano fundava-se na igualdade entre os homens. entre os quais estavam os negros, o que opunha a escravidão, a um só tempo, ao cristianismo e à república. Os senhores, pecadores e infratores à constituição ipso facto, eram não apenas combatidos como a própria escravidão nos Estados Unidos era considerada a mais detestável, a menos mitigada. É neste contexto, argumenta a autora, que, naquele país, cria-se a noção de uma escravidão mais humana, porque fundada no Direto Romano, imperante alhures. O Brasil passa a ser, na verdade, o paradigma dos benefícios de uma escravidão regrada: “No Brasil. no momento (i.e. 1833) a nação com maior população escrava, é ainda melhor. Ali o senhor é obrigado, sob ameaça de pena severa, a dar a seu escravo uma licença escrita para procurar outro dono sempre que o escravo assim o pedir; encontrada a pessoa interessada na compra, o magistrado fixa o preço” (David Child}. Com o passar do tempo, o racismo norte-americano. denunciado por diversos abolicionistas, foi contrastado ao paraíso racial brasileiro, cuja fama internacional já era reconhecida em meados do século XIX. Como lembra a autora, é interessante notar que muitas dessas idéias abolicionistas sobre o inferno racial norte-americano e o paraíso racial brasileiro foram incorporadas pelos grandes estudiosos do nosso século, Gilberto Freyre e Frank Tannenbaum3.

Célia Marinho Azevedo toca, en passant, em um ponto que talvez mereça alguma reflexão: André Rebouças, de origem africana, teve carreira notável graças ao esforço, trabalho, disciplina e estudo. As disciplinas estudadas incluíam latim, francês, inglês e a tradução dos filósofos gregos e romanos. Ora, também nos Estados Unidos, escravos. fugitivos e forros privilegiavam. da mesma forma. o estudo do latim e do grego. como demonstrou Shelley P. Haley4 . No contexto norte-americano, o domínio dos clássicos era sinal de igualdade, quanto ao Brasil? Se aceitarmos a interpretação proposta pela autora, parece razoável supor que, ao contrário, o conhecimento erudito afastasse o indivíduo de ascendência africana dos escravos e libertos pobres e o identificasse como integrante da elite branca. Nesta direção caminha constatação de Célia Marinho Azevedo a respeito da imagem positiva da África nos círculos abolicionistas americanos, por oposição à terra de ignorantes na concepção brasileira predominante. Cleópatra era negra nos Estados Unidos. enquanto Rebouças era branco, no Brasil.

Espera-se que a obra seja, o mais breve possível, traduzida e publicada entre nós. Desta forma, também o público brasileiro mais amplo, e não apenas aquele mais diretamente dedicado ao estudo de temas afro-americanos, poderá ter acesso uma obra cuja repercussão acadêmica já começou nos principais centros internacionais de pesquisa.

Nota

1 Lacuna bem lembrada por Hebe Maria Matos de Castro em “Estudos Afro-Asiáticos”, número 28, 1996, pág 106.

2 De maneira independente, era o que também ressaltava Magnus Mômer em “Ibero-Americana. Nordic Journal of Latln American Sludies”, número 22, 1992, pág 20.

3 Esta oposição entre a tradição latina e anglo- saxônica foi ressaltada em diferentes historiografia latino-americanas . o caso cubano estudado por AIine Helg em “Politlcas sociais en Cuba después de la lndependencla: represión de la cultura negra y mito de la lgualdad racial”, America Negra, Bogotá, 11, 1996, páginas 63-79, apresenta paralelos interessante a respeito

4 Em ” Feminlest Theory and lhe Classlca”, organizado por N.S. Rablnowltz e A Richlin, 1993, págs 23-43.

Pedro Paulo A. Funari – Departamento de História, IFCH, IJNICAMP.

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