Crisi. Come rinascono le nazioni / Jared Diamond

DIAMONT Jared Crisi. Come rinascono le nazioni
Jared Diamond / Foto: Lavin Agency /

DIAMOND J Crisi Crisi. Come rinascono le nazioniJared Diamond, noto geografo, antropologo, ornitologo americano, meglio noto al pubblico italiano per il suo volume più famoso, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, pubblicato nel 1997, si è costruito con questo testo, a pieno diritto, anche la fama di storico e di divulgatore. In seguito adottando un metodo di analisi multidisciplinare, da lui stesso definito pensiero orizzontale, che dispone lo scienziato all’integrazione di ambiti apparentemente separati, si è applicato allo studio della questione ambientale con il volume Il collasso (2005).

Nell’ultimo suo lavoro, di cui diremo in questa recensione, l’autore spostando la sua attenzione sulla storia più recente, ha analizzato il concetto di crisi attraverso lo studio di sette casi, riguardanti la Finlandia nel periodo della guerra con l’Urss, il Giappone nel periodo Meiji, il Cile di Pinochet, l’Indonesia degli anni Sessanta, la Germania e l’Australia del secondo dopoguerra, gli Stati Uniti nel periodo storico attuale. Il volume intitolato Crisi. Come rinascono le nazioni è stato pubblicato nel 2019 dall’editore Einaudi.

Il termine crisi, utilizzato in molteplici accezioni e quindi applicabile in diversi ambiti, nella sua origine etimologica greca afferisce “all’area semantica di separare, decidere, distinguere. Quindi potremmo pensare alla crisi come a un momento di verità, un punto di svolta in cui la differenza fra la realtà che precede quel momento e la realtà che lo segue è molto più marcata che nella maggior parte degli altri momenti” (pag. XIX).

Questa è la definizione dalla quale prende spunto Diamond. Ma l’aspetto più originale di questo corposo lavoro risiede nella scelta dell’autore di adottare la prospettiva delle crisi individuali, che capitano ad ognuno di noi nel corso della vita, per applicarla alle crisi delle nazioni. E lo fa in modo coerentemente scientifico, accogliendo le tesi della cosiddetta terapia della crisi, una teoria ed una pratica terapeutica ideata dallo psichiatra Erich Lindemann che si sforzava di risolvere in tempi brevi le angosciose condizioni di crisi esistenziali dei propri pazienti.

Diamond, partendo da alcuni fattori che possono rivelarsi utili al superamento delle crisi individuali, costruisce a specchio un elenco di fattori che dovrebbero consentire di rispondere alle crisi collettive di livello nazionale e sovranazionale. Ma guardiamoli più da vicini questi fattori (a sinistra quelli che riguardano l’individuo, a destra quelli che riguardano invece le nazioni:

  1. Riconoscimento dello stato di crisi / consenso circa lo stato di crisi nazionale. / accettazione della responsabilità nazionale.
  2. Tracciare un confine / confini chiari per delineare i problemi nazionali da risolvere.
  3. Chiedere aiuto agli altri / richiesta di aiuto materiale ed economico ad altre nazioni.
  4. Gli altri come modello / le altre nazioni come modello per la risoluzione dei problemi.
  5. Forza dell’io / identità nazionale.
  6. Capacità autocritica / capacità di autovalutazione nazionale onesta.
  7. Esperienze di crisi pregresse / esperienza storica di crisi nazionali precedenti.
  8. Pazienza / presa in carico del fallimento nazionale.
  9. Flessibilità / flessibilità nazionale in situazioni specifiche.
  10. Valori fondanti / valori fondanti nazionali.
  11. Libertà dalle costrizioni / libertà da costrizioni geopolitiche.

Possono i fattori individuali adattati e applicati alla storia delle nazioni rivelarsi utili per la comprensione degli esiti delle crisi nazionali?  Come è facilmente comprensibile l’adattamento a specchio dei fattori di crisi dall’individuo alle nazioni non si rivela così automatico e tuttavia il tentativo portato avanti da Diamond è in grado di suscitare la curiosità dei lettori e non è privo di interesse per lo storico.

Per portare avanti le sue tesi l’autore prende in considerazione i sette casi di crisi che abbiamo anticipato in precedenza che hanno caratteristiche diverse e riguardano nazioni le cui storie sono molto differenti tra loro.

Non abbiamo modo in questa recensione di esaminarli tutti nel dettaglio, anche per non togliere al lettore il piacere di seguire Diamond nelle sue analisi. Ci soffermeremo quindi solo sull’esempio della storia del Giappone.

Fino al 1853 questo paese somigliava molto all’Europa medievale con una struttura gerarchica di tipo feudale, controllata al vertice dallo shogun, proprietario di larga parte delle terre e dai signori, i daimyo, soggetti a lui. L’imperatore, figura fantoccio, era sostanzialmente privo di potere reale. Rispetto agli stranieri il Giappone mantenne, fino alla metà dell’Ottocento contatti limitati e sufficientemente controllati dal governo. Questo equilibrio si ruppe con l’intervento militare degli Usa che cercavano di rompere l’isolamento degli shogun. Si apriva quella che può essere considerata una fase di crisi acuta per la nazione nipponica che durò circa quindici anni e si tradusse in un capovolgimento dei rapporti interni di potere, un cambiamento dei rapporti del Giappone con il mondo esterno e più in generale una trasformazione del paese. Fu ripristinato il potere reale dell’imperatore, fu avviata una politica di riforme di stampo occidentale e fu progressivamente attenuato l’isolazionismo commerciale del Giappone.

Al termine della sua narrazione degli eventi e dei processi che interessarono questa nazione dal periodo dello shogunato al periodo cosiddetto Meiji Diamond ci mostra anche quali, tra gli indicatori del suo modello, possono aiutarci a comprendere il comportamento adottato dalla nazione nipponica per uscire dalla crisi di quegli anni.

Il Giappone si distingue, più degli altri paesi presi in considerazione, per aver saputo prendere come modello le altre nazioni per la risoluzione dei problemi (Fattore n.5 dell’elenco). La Costituzione come l’organizzazione militare e il codice civile prendono infatti spunto dai modelli tedeschi, inglesi, americani. Riesce inoltre a mettere in atto una capacità di autovalutazione nazionale realistica e onesta (Fattore n.7 dell’elenco) riconoscendo che “i barbari erano molto più forti e che l’unico modo per rafforzarsi era proprio imparare da loro”. Dimostrò infine di essere in grado “di tracciare un confine e di adottare il cambiamento in modo selettivo (Fattore n.3). Molti furono infatti gli ambiti della società nipponica interessati dal rinnovamento, da quello economico a quello giuridico, militare, politico, sociale e tecnologico; ma il Periodo Meiji seppe anche conservare importanti prerogative del Giappone tradizionale, come l’etica confuciana, la venerazione nei confronti dell’imperatore, l’omogeneità etnica, la pietà filiale, lo scintoismo e il sistema di scrittura nazionale”.

Con lo stesso metodo di narrazione storica, di spiegazione e di interpretazione comparativa l’autore si avvicina alla storia degli altri paesi presi in considerazione. E non si può non osservare la sua abilità di scrittura, un piacevole e pacato tono espositivo, la tendenza a mescolare esperienze personali e private con argomentazioni di ordine generale che mantengono viva l’attenzione del lettore.

Ma non è solo sulla storia passata che Diamond mette alla prova il suo modello interpretativo. Nella terza parte del libro prende in considerazione le crisi in corso su scala nazionale del Giappone e degli Stati uniti e le sfide che il mondo nella sua dimensione globale dovrà affrontare per evitare nuove crisi.

Emergono così, in tutta la loro evidenza problemi ben noti nel presente e che riguardano per il Giappone il debito pubblico, il ruolo della donna in una società avanzata, il calo e l’invecchiamento demografico, il rapporto con la Cina e la Corea, la gestione delle risorse naturali, mentre per gli Usa l’autore sottolinea in particolare “il crescente e preoccupante deterioramento della nostra capacità di raggiungere il compromesso politico” causa di “una polarizzazione, di una intolleranza e litigiosità della società americana” partita dalla classe politica per estendersi all’elettorato e in tutti gli ambiti della vita sociale.

L’analisi dei fattori di crisi si estende infine, nell’ultima parte del libro, ai possibili scenari futuri e ai fattori che “minacciano le popolazioni della terra e i nostri standard di vita in generale…e rischiano di minacciare a livello globale la sopravvivenza stessa della civiltà.” Diamond ritiene di identificare questi fattori di potenziale crisi nell’impiego di armi nucleari, nei cambiamenti climatici, nell’esaurimento delle risorse del pianeta e nelle disuguaglianze negli standard di vita.

Diamond ha scritto questo libro nel 2019 a breve distanza dallo scoppio della drammatica crisi pandemica che ha colpito non le singole nazioni ma l’intero pianeta. Ci potremmo chiedere se questo modello di interpretazione della storia, alla luce del concetto di crisi, ci potrà essere utile anche per il superamento di questa crisi pandemica. La risposta ci viene dallo stesso autore in una serie di articoli pubblicati negli ultimi mesi sulla stampa internazionale e italiana. I fattori di potenziale crisi nel prossimo futuro, dianzi esposti, e cioè armi nucleari, clima, risorse del pianeta e disuguaglianze, sono ben più importanti che la pandemia: il Covid-19 non è che un piccolo cruccio momentaneo, ben più importanti saranno le conseguenze di un fattore di crisi come ad esempio il cambiamento climatico. Il saldo delle vittime umane provocate dal clima che cambia è già più pesante rispetto al saldo attuale delle vittime del Covid-19 e non basterà un vaccino per risolvere la crisi o meglio le crisi che il clima è in grado di produrre. Perché l’allarme su questo aspetto non è almeno pari a quello generato dal virus? Le pagine finali del libro, sempre sul filo della comparazione storica e dei possibili scenari futuri del mondo, pongono al lettore un interrogativo se cioè “le nazioni hanno sempre bisogno di una crisi per sentirsi motivate ad agire o sanno anche agire in modo preventivo”. Gli esempi proposti da Diamond in questo libro non risolvono la questione, nel senso che talvolta le nazioni hanno avuto la necessità di attraversare una crisi prima di adottare cambiamenti, talvolta invece hanno prevenuto la crisi adottando scelte che hanno permesso di evitarla. D’altronde è ciò che accade ai singoli individui che di fronte ad una possibile crisi nella loro esistenza talvolta giocano d’anticipo, talvolta riescono a reagire solo quando la crisi ci ha già travolti come ricorda un aforisma di Samuel Johnson:  “Credetemi, signore, quando un uomo sa che nel giro di due settimane sarà impiccato, la sua mente si concentra in modo meraviglioso”.

Giuseppe Di Tonto


DIAMOND, Jared. Crisi. Come rinascono le nazioni. Torino: Einaudi, 2019. 450p. Resenha de: DI TONTO, Giuseppe. Il Bollettino di Clio, n.14, p.153-156, dic., 2020.  Acessar publicação original

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Desaparecer de si: Uma tentação contemporânea | David Le Breton

A obra analisada é: “Desaparecer de si: Uma tentação contemporânea” sendo ela constituída por 223 páginas, e encontra-se dividida em 6 capítulos. David Le Breton é um professor de sociologia na Universidade de Strasbourg II e membro do laboratório “Culturas e sociedades na Europa”, do Instituto Universitário da França e do Instituto de Estudos Avançados da Universidade de Strasbourg. É um dos autores contemporâneos mais conhecidos por sua série de obras publicadas na França, como também por sua especialização em representações do corpo humano. Seu trabalho é sempre constituído por uma busca pessoal com raízes na adolescência, portanto, o autor tem grande influência nos estudos sobre o corpo e corporeidade (SOUZA, 2009).

Acredita-se que a obra de Le Breton a qual é tratada na presente discussão pode ser pensada na questão do indivíduo como um ser sem perspectiva e, portanto, fora dos movimentos de vínculos sociais. Isto é, o autor oferece uma compreensão do por que necessitamos do “desaparecer de si” temporariamente, para assim surgir a vontade de continuar viver, assim como desenvolvemos uma “paixão pela ausência”. Portanto, ao longo dessa resenha é perceptível uma referência as diversas formas do desaparecimento de si, perante a falta de desejos e da perca de perspectiva, isto é, as tentativas de fuga da realidade. Leia Mais

O circuito dos afetos: corpos políticos, desamparo e o fim do indivíduo – SAFATLE (RFMC)

SAFATLE, Vladimir. O circuito dos afetos: corpos políticos, desamparo e o fim do indivíduo. São Paulo: CosacNaify,2015. Resenha de: PINTO, Thiago Ferrare. Revista de Filosofia Moderna e Contemporânea, Brasília, v.5, p. 381-387, n.2, dez, 2017.

Em seu Circuito dos afetos, Vladimir Safatle se propõe a elaborar uma teoria política que pense os “caminhos da afirmação do desemparo” (SAFATLE, 2015, p. 72) e a “insegurança ontológica” que ele produz (SAFATLE, 2015, p. 73). A referência ao caminho implica a relação do desamparo com a história enquanto espaço de conflito em torno de pretensões opostas de validade moral. Mas há mais: a referência ao caminho de afirmação do desamparo envolve também a compreensão da história enquanto espaço de disputa em torno dos padrões a partir dos quais discursamos quando da tentativa de tornar produtivos os conflitos entre pretensões opostas de validade. Aqui está o sentido da insegurança ontológica que o desamparo produz: sua afirmação implica um desafio à suposição das teorias críticas hegemônicas segundo a qual a estrutura deliberativa do Estado democrático de direito espelharia a formadas demandas históricas por realização da liberdade. A insegurança, portanto, vem do reconhecimento da possibilidade de que a realidade histórica e sua materialidade surpreendam as formas hegemônicas de mediação da liberdade.

Segundo o autor, a teoria crítica contemporânea tende a reconhecer a produtividade dos conflitos entre pretensões materiais opostas que convivem no interior de uma comunidade política. Assim, demandas por reconhecimento ganham espaço na arena pública enquanto conflitos materiais voltados à efetivação dos princípios constitucionais que seriam objeto de consenso sobre o modo de resolução desses conflitos. A política caminharia sem pôr em xeque a forma de resolução dos conflitos, uma vez que se definiria pelo desdobramento daqueles conflitos passíveis de tematização nos marcos pré-estabelecidos para a vivência da liberdade. De modo geral, as abordagens críticas reconhecem a produtividade dos antagonismos materiais, embora ao preço da ocultação da possibilidade dos antagonismos formais (SAFATLE, 2015, p. 27).

Desenvolvendo esse ponto, Safatle define política a partir de uma crítica à teoria discursiva do Estado democrático de direito de Jürgen Habermas e à idealidade da razão como horizonte formal do discurso sobre a realização da liberdade. Nos marcos da teoria habermasiana – que nesse ponto influenciou personalidades como Axel Honneth e Nancy Fraser -, pode-se dizer que há devir, há história a ser ressignificada: a dor dos ofendidos nos impele à revisão das estruturas de nossa forma de vida (HABERMAS, 2007, p. 66). O problema é que a história só é revelada naquelas dimensões que podem ser expressas nos marcos racionais – marcos da razoabilidade, diria John Rawls (2006, p. 32-33) – do horizonte consensual que define o corpo político:

[…] argumentar a partir da razão significa introduzir a política em um campo tendencial de concórdia, afastar-se da instabilidade das paixões para aproximar-se da perenidade de determinações normativas encarnadas na estabilidade de instituições capazes de garantir a procura comum pelo melhor argumento a partir de ideias claras e distintas (SAFATLE, 2015, p. 149)

O que daí se segue é uma tentativa de ressignificar o conceito de política. Nos marcos da teoria discursiva do Estado democrático de Direito, política é a efetivação de demandas por liberdade no interior das estruturas normativas do projeto constitucional. Política é, portanto, a atividade de constante revisão dos nossos padrões de coordenação de ação a partir das estruturas que delimitam o que pode vir à luz enquanto demanda por reconhecimento. A abordagem de Safatle se sustenta na tese segundo a qual a teoria discursiva do Estado democrático de direito anula a política à medida que retira dela sua espontaneidade e sua possibilidade de fazer da contingência o impulso para a reinvenção das estruturas fundantes de uma comunidade.

A compreensão da função do direito na constituição do espaço público é fundamental no caminho argumentativo do autor. O direito não só reproduz determinada percepção daquilo que a crítica social pode ser, mas também a constitui, à medida que estrutura os espaços sociais de crítica e delimita formalmente o politicamente possível. O ponto do autor se comunica com a abordagem de Butler naquilo que diz respeito à estruturação jurídica do regime de gênero nas democracias ocidentais contemporâneas (BUTLER, 2017, p. 23). A orientar o autor e a autora, encontra-se a ideia segundo a qual a estrutura jurídica de uma sociedade institui um regime de validade que tem a pretensão de sustentar juízos sobre o real. Nesses termos, a vida política que caminha sem a tematização de antagonismos formais produz a já referida segurança ontológica, no sentido de que as possibilidades de recuperação histórica de narrativas sobre a liberdade – narrativas silenciadas pelo teor universalizante da forma de vida hegemônica – se encontram pré-determinadas e, portanto, delimitadas em seu potencial transformador. O diagnóstico de Safatle tem o seguinte teor: “[…] a estrutura do direito determina as formas possíveis que a vida pode assumir, os arranjos que as singularidades podem criar. Elas fazem das formas de vida aquilo que previamente tem o molde da previsão legal” (SAFATLE, 2015, p. 360).

A estrutura jurídica constitui, portanto, o padrão hegemônico de realização da liberdade. A gramática constitucional estabelece critérios de dizibilidade, formas que são condições de possibilidade para o falar sobre política e emancipação. É assim que a pretensão de reconstruir a história de determinada comunidade política se perde na delimitação prévia daquilo que pode ser uma pauta a ser debatida no espaço público estruturado constitucionalmente.

A ideia central aqui é a desincronização. A partir dela se percebe a anulação da materialidade da vida política como um desdobramento da suposição da existência de um modelo único de realização da liberdade: a liberdade realizada no espaço institucional do Estado democrático de direito. Nos marcos da teoria discursiva de Habermas, a materialidade que dá ensejo aos processos de aprendizado social é demarcada e limitada em seu potencial produtivo: a contradição que o sofrimento instaura não põe em xeque os pressupostos do discurso prático, as bases do Estado constitucional. Nesse sentido, a descentralização das perspectivas hegemônicas é sempre parcial, no sentido de que nunca dará conta daquelas vivências cuja concretude não se deixa traduzir nos pressupostos comunicativos embutidos nos processos constitucionais de crítica social.

A teoria crítica hegemônica – a teoria discursiva do Estado democrático de direito, em especial–naturaliza os marcos da crítica, determinando abstratamente os sentidos possíveis da liberdade. Safatle assim resume o argumento em torno dos desdobramentos deletérios da sincronização da história enquanto dimensão necessária dessas perspectivas teóricas:

Através da história, ser e tempo se reconciliariam no interior de uma memória social que deveria ser assumida reflexivamente por todo sujeito em suas ações. Memória que seria a essência orgânica do corpo político, condição para que ele existisse nas ações de cada indivíduo, como se tal corpo fosse sobretudo um modo de apropriação do tempo, de construção de relações de remissão no interior de um campo temporal contínuo, capaz de colocar momentos dispersos em sincronia a partir das pressões do presente (SAFATLE, 2015, p. 137)

Ainda a respeito da dimensão jurídica da sincronização, o autor se debruça sobre a ideia de cidadania. A defesa da cidadania nos marcos de uma democracia deliberativa envolveria a pressuposição do caráter jurídico das condições de formação da subjetividade, o que implica uma limitação do sentido da política a partir de sua submissão aos princípios constitucionais que fazem a mediação da crítica social. A potência transformadora da política– sua capacidade para produzir antagonismos formais a partir da experiência do desamparo – é domesticada pela obrigatoriedade de uma forma para o exercício da autoconsciência. Ainda que não se resuma ao voto – como parece ser o caso nos modelos liberais de democracia -, a cidadania advogada pela teoria discursiva do Estado democrático de direito compreende a formação da memória e da identidade de uma comunidade como um exercício discursivo que se realiza nos limites da gramática constitucional. A dimensão política da vida social, portanto, está colonizada pela rigidez de princípios jurídicos, de onde se segue que o desamparo não encontra rotas de fuga por meio das quais possa afirmar-se.

Resumiremos o argumento. A teoria discursiva do Estado democrático de Direito encontra sua materialidade no fato de que “a objetividade da exigência de um novo espírito vem da dor dos ofendidos” (HABERMAS, 2007, p. 52). O problema, porém, é que a pressão do presente impele a construção da memória social a partir da sincronização da história. Ou seja, a tematização da dor só se dá à medida do possível, sendo o possível o espaço pré-determinado pelas estruturas do Estado constitucional(SAFATLE, 2015, p. 137). Toda dor é concebida como indício de antagonismo material, nunca como a materialidade fundante de um antagonismo formal. Em última instância, não se põe em xeque “o horizonte formal consensual de legitimidade dos enunciados” (SAFATLE, 2015, p. 149), de modo que a vida política se resumiria ao debate sobre as discordâncias que se travam num espaço delimitado de antemão.

Seria o caso de dizer, portanto, que Habermas ainda opera nos quadros naturalizantes do liberalismo político de Rawls. Embora tenha afastado a ideia do fato do pluralismo razoável através da historicização da formação das diferenças, Habermas supõe o caráter universal do projeto constitucional enquanto instância mediadora da liberdade. Nesses moldes, o universal não é mediado pelos momentos particulares de sua crítica; o universal, portanto, permanece intocável. Precisamente neste ponto a teoria discursiva do Estado democrático de Direito não sustenta a sua pretensão de materialidade: o atrito produtor de antagonismos formais – na terminologia de Safatle, a capacidade do desamparo de pôr em xeque a universalidade das estruturas que medeiam a liberdade jurídica – é ocultado pelo não reconhecimento da legitimidade de demandas que não se deixem traduzir na gramática uniformizante do direito constitucional.

A gramática constitucional ampara as demandas por justiça, uma vez que demarca os limites daquilo que é antecipado como politicamente possível. Pensar a política a partir do desamparo envolve a centralização daquelas demandas que colocam em xeque os limites do possível, ou seja, demandas que questionam a rigidez das estruturas que, à medida que delimitam o espaço formal da crítica social, acabam por dizer o que a crítica pode ser: “[…] estar desamparado é estar sem ajuda, sem recursos diante de um acontecimento que não é a atualização de meus possíveis”(SAFATLE, 2015, p. 71). A produção política de antagonismos formais é o caminho de afirmação do desamparo no sentido de tornar politicamente possível aquilo que até então não o era.

A força política do desamparo reside no desejo de transformação da base supostamente consensual por meio da qual uma comunidade dialoga racionalmente sobre a sua história. A abstração do consenso racional é revelada pela materialidade do desamparo, pela asseveração da necessidade de se dar voz àqueles e àquelas que não encontram voz nos marcos pré-estabelecidos pelo Estado democrático de direito para a crítica social:

[…] a política pode ser pensada enquanto prática que permite ao desamparo aparecer como fundamento de produtividade de novas formais sociais, na medida em que impede sua conversão em medo social e que nos abre para acontecimentos que não sabemos ainda como experimentar (SAFATLE, 2015, p. 67)

A teoria crítica do autor tem como objetivo, portanto, a desconstrução do modelo de realização da liberdade pressuposto pela teoria discursiva. A pretensão de materialidade é levada aqui às últimas consequências, o que implica dizer que os antagonismos políticos transcendem a divergências entre orientações axiológicas, as divergências entre concepções de bem igualmente razoáveis. Os antagonismos políticos põem em xeque, portanto, o próprio consenso constitucional. A materialidade da história vivida de modo não sincrônico produz atrito com as estruturas formais do Estado constitucional – os procedimentos constitucionais formalmente instituídos são insuficientes enquanto meio de trazer à luz experiências contra- hegemônicas de liberdade. Daí se segue o desafio em torno da revisão das pretensões de universalidade da gramática moral da comunidade e o reconhecimento da impossibilidade de antecipação das estruturas a partir das quais a crítica será exercida, a história será reconstruída e a memória/identidade de uma comunidade será ressignificada.

Referências

BUTLER, Judith. Problemas de gênero: feminismo e subversão da identidade. Trad. Renato Aguiar. São Paulo: Civilização Brasileira, 2017.

HABERMAS, Jürgen. A inclusão do outro: estudos de teoria política. Trad. George Sperber e Paulo Astor Soethe. São Paulo: Loyola, 2002.

RAWLS, John. O liberalismo político. Trad. Dinah de Abreu Azevedo. São Paulo: Ática, 2000.

Thiago Ferrare Pinto – Professor substituto do Departamento de Teoria do Direito da Faculdade Nacional de Direito – UFRJ.

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Circuito dos Afetos: Corpos políticos, Desamparo, Fim do Indivíduo – SAFATLE (RFMC)

SAFATLE, Vladimir. Circuito dos Afetos: Corpos políticos, Desamparo, Fim do Indivíduo. São Paulo: Cosac Naify, 2015. Resenha de: PACHECO, Mariana Pimentel Fischer. Revista de Filosofia Moderna e Contemporânea, Brasília, v.3, p 190-193, n.1, 2015.

Em Circuito dos Afetos, Vladimir Safatle investiga desdobramentos de suas ideias acerca de uma ontologia do negativo, as quais sustentou em sua tese de doutorado 1 por meio de uma engenhosa articulação entre Hegel, Lacan e Adorno. Seu novo livro aborda especificamente a dimensão dos afetos. Nosso autor já havia apontado para essa direção em dois de seus trabalhos, Cinismo e Falência da Crítica e Grande Hotel Abismo. O primeiro mostra que cínico é aquele que aprendeu a rir das normas: não importa se estas se realizam de maneira invertida, para o cínico o que realmente interessa é a promessa de gozo imediato do neoliberalismo. Posteriormente, Grande Hotel Abismo aprofunda a investigação sobre uma ontologia capaz de exercer uma pressão subtrativa e insiste no potencial produtivo de experiências de indeterminação.

Que afetos estão ligados à produtividade do trabalho do negativo? Que afetos permitem a insurgência de uma violência destruidora daquilo que nos faz estagnar em um circuito de repetições intermináveis? Que afetos criam sujeitos? Estas são as perguntas centrais de Circuito dos Afetos. Para pensa-las, Safatle retorna a Freud, particularmente ao desamparo [Hilflosigkeit] freudiano. Este é, de fato, um retorno, pois somente após incorporar sua tríade (Hegel, Lacan e Adorno) nosso autor poderia ler Freud tal como, agora, propõe.

Diferentemente do medo ou da esperança, o desamparo não está ligado a projeções de determinados acontecimentos futuros. O desamparo se conecta a situações às quais não somos capazes de atribuir um sentido (ou, como prefere Safatle, atribuir um predicado) ou a experiências que não sabemos como lidar. No desamparo agimos sem saber em que lugar chegaremos. Mas, mesmo desamparados, agimos. Movemonos, pois de algum modo devemos ter sido capazes de perceber que estávamos presos a um circuito de repetições. Estranhamos isso – o desamparo é, nestes termos, articulado ao estranhamento (Das Unheimlich) freudiano. Nosso autor escreve sobre uma política do impossível, isto é, sobre uma política ligada a um ato que não está mais fundado nas possibilidades que nos são disponibilizadas por uma ordem simbólica. Trata-se de um ato que só poderá adquirir sentido retroativamente.

A partir de textos freudianos, Safatle formula, ainda, um diagnóstico acerca da hegemonia de certos afetos em nosso modo de vida: sua leitura de Totem e tabu expõe a força atual de um circuito repetitivo de medo e culpa, conexo a um laço social de base melancólica.

Em Totem e tabu, Freud conta a história de um pai primevo que possuía todas as mulheres e tinha acesso a um gozo ilimitado. Os filhos se unem, matam o pai e, depois disso, comem a sua carne. Ocorre que, desde o início, a relação com o pai era ambivalente: os filhos não só o odiavam, também o amavam. Foram, por isso, após o parricídio, tomados por sentimentos de medo e de culpa. O banquete totêmico mostra que, com o assassinato, o pai não fica para trás, ele é introjetado. É desse modo que o supereu freudiano se forma.

Poderíamos concluir, como fazem alguns, que o parricídio é um marco para a constituição de um laço horizontal entre irmãos. Há quem diga que estaria aí a base de uma sociedade democrática e igualitária. Safatle mostra, todavia, que não é esta a história narrada em Totem e tabu: a morte do pai e sua introjeção melancólica produz um fantasma. Nosso autor escreve que as democracias neoliberais são sociedades de irmãos assombrados pelo fantasma do pai. Vivemos em tempos de neoliberalismo e de injunção ao gozo, em vez do supereu repressivo da época de Freud, o supereu, hoje, ordena: goze agora! Satisfaça-se imediatamente! Os irmãos se tornaram indivíduos que competem entre si e buscam afirmar sua potência (querem ser como o pai); são, hoje, empresários de si mesmos.

Para pensar a política no tempo presente, devemos, então, compreender que o laço entre indivíduos no neoliberalismo se constitui melancolicamente. A centralidade desta ideia fica clara na afirmação “a gênese do supereu em Freud está alicerçada em uma analítica da melancolia” (SAFATLE, 2015: 82) e na passagem que a segue:

É possível dizer que o poder nos melancoliza e é dessa forma que ele nos submete. Essa é sua verdadeira violência, muito mais do que os mecanismos clássicos de coerção e dominação pela força, pois trata-se aqui de violência de uma regulação social que leva o Eu a acusar a si mesmo em sua própria vulnerabilidade e a paralisar sua capacidade de ação (SAFATLE, 2015: 83).

Tanto o luto como a melancolia são processos ligados à perda de um objeto de forte investimento libidinal. Na melancolia, entretanto, o trabalho de elaboração não se realiza por completo. O objeto não é deixado para trás, ele permanece de um modo bastante peculiar: é introjetado, ou seja, é ligado ao eu. Dessa maneira, afetos como raiva e ressentimento por ter sido abandonado pelo objeto amado se voltam contra o próprio sujeito. Na melancolia há um movimento pendular entre, de um lado, autoacusações e sentimento de impotência e, de outro, afirmações obstinadas da potência. Não é por acaso que indivíduos, empresários de si, oscilam, hoje, entre uma profunda sensação de impotência (o aumento dos diagnósticos de depressão não aconteceu sem motivo) e procura por maximização da performance. Os indivíduos não cessam de tentar alcançar a potencia plena ou gozo ilimitado (como o do pai primevo) que o neoliberalismo promete.

O luto conforma outro modo de lidar com a perda. O trabalho de luto apenas pode se realizar, contudo, se formos capazes de agir sem medo de perder um objeto que já, desde sempre, estava perdido. Em outras palavras, o luto está ligado um ato que acontece sem o amparo de fantasias como a de um pai primevo e sem a promessa de um gozo ilimitado. Safatle se refere ao luto da ideia de indivíduo e da promessa neoliberal de gozo; este é, para ele, um luto do impossível.

Nosso autor realiza, assim, uma crítica que convoca a performatividade adorniana: falar sobre o esgotamento de um modo de vida é também uma maneira de fazer alguma coisa, é um modo de realizar uma intervenção interpretativa. É como se tivéssemos que fazer ressoar, afirmar, uma vez e de novo, que um modelo se esgotou e que não há saída possível, apenas para que, em um segundo momento, possamos dizer: “há, agora, novas possibilidades, há sim uma saída”. Trata-se de tornar o impossível possível: “conseguiremos mais uma vez explodir os limites da experiência e fazer o que até então apareceu como impossível tornar-se possível” (SAFATLE, 2015: 185). Este é um projeto crítico que busca mobilizar “a força performativa da rememoração” (SAFATLE, 2015: 176). Safatle insiste que instituir outros modos de narrar a história pode ser um maneira de realizar um trabalho de luto.

Propomos, por fim, avançar um pouco mais na discussão sobre o luto e possibilidades para crítica. Em diversos trechos do livro, Safatle se refere a Judith Butler. Isso de nenhum modo surpreende, pois a filósofa norte-americana também pensa a política a partir de ideias freudianas sobre luto e melancolia2. Nosso autor não se aprofunda, entretanto, no exame das diferenças entre o seu ponto de vista e o de Butler.

Não é o luto do indivíduo ou de uma promessa de gozo que interessam a Butler, ela investiga o luto que experimentamos em nosso cotidiano, aquele que vivenciamos ao perdermos pessoas importantes como um parceiro ou parceira, nossos pais, filhos, um grande amigo. O trabalho de luto pode, nesses casos, mostrar que não somos proprietários de nós mesmos. Butler não cuida, então, de um luto referente à morte do individuo-proprietário; para ela, é o próprio luto que mata o individuo-proprietário que imaginávamos ser.

Para compreendermos esta ideia, basta nos lembrarmos de perdas que vivenciamos. Ao perdermos pessoas importantes comumente imaginamos que a dor que sentimos é temporária e que, posteriormente, retornaremos à situação anterior. Mas certas perdas não permitem que esse retorno ocorra. São justamente estas que podem revelar algo realmente significativo sobre nós mesmos. Após tais perdas irreversíveis, o que antes sabíamos sobre nós mesmos se desfaz. É como se o “eu” não perdesse simplesmente um “tu” do qual se separaria, é como se perdesse o que conhecia sobre si mesmo: perdemos alguém para descobrir que nos perdemos daquilo que imaginávamos ser. Somente conseguiremos deixar que o trabalho de luto ocorra se aceitarmos essa falta de sentido, isto é, se aceitarmos que não mais sabemos o que fazer, que estamos desamparados. Parece, então, que, para nossa autora, o luto produz desamparo.

Apenas poderemos atravessar o luto se nos deixarmos submeter a uma transformação cujos resultados não podemos prever. Há algo em jogo no luto que é mais forte do que previsões, do que conhecimento, do que escolha. Algo toma conta de nós e, assim, o luto nos mostra que não somos proprietários de nós mesmos. Não seria equivocado falarmos, então, sobre “estranhamento” no sentido que Freud atribui à palavra: no trabalho de luto, o sujeito se percebe como outro.

A nossa autora escreve que, hoje, certas vidas, quando perdidas, não produzem luto (a expressão que usa é “ungrieveble lives”). Ela associa esta ideia à luta de movimentos sociais e pergunta: como os movimentos sociais, formados por pessoas que passaram por perdas irreversíveis, podem realizar o luto? Talvez a elaboração de suas perdas possa mobilizar uma autocrítica e impulsionar o avanço desses movimentos. Ainda, tendo em conta as políticas de guerra nos EUA, nossa autora indaga: o que aconteceria com os EUA se pronunciássemos, uma vez e de novo, o nome de afegãos e iraquianos mortos em virtude da ação de norte-americanos? E se pronunciássemos, uma vez e de novo, os nomes dos prisioneiros de Guantánamo, que não estão ainda mortos, mas também não estão exatamente vivos (BUTLER. 2004).

Parece-nos que há, aqui, dois caminhos para a crítica. De um lado, a crítica adorniana de Safatle e, de outro, a crítica de Butler, que busca uma conexão direta com a ação de movimentos sociais. Os dois projetos têm algo em comum: os nossos autores indicam que crítica deve nos permitir deixar algo para trás e, desse modo, limpar o terreno para que novas possibilidades possam emergir. Estas duas propostas poderiam ser articuladas? Como tal articulação poderia ser feita? Estas são questões que gostaríamos de investigar em futuros trabalhos.

Notas

1 SAFATLE, Vladimir. A Paixão do Negativo: Lacan e Dialética. São Paulo: UNESP, 2006.

2 Esta discussão está presente em diversos trabalhos de Butler. A ligação entre luto e lutas de movimentos sociais é formulada de uma maneira especialmente clara em Precarious Life. BUTLER, Judith. Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence. London & New York: Verso, 2004

Referências

SAFATLE, Vladimir. A Paixão do Negativo: Lacan e Dialética. São Paulo: UNESP, 2006.

____. Cinismo e Falência da Crítica. São Paulo: Boitempo, 2008.

____ .Grande Hotel Abismo: Por uma Reconstrução da Teoria do Reconhecimento. São Paulo: Martins Fontes, 2012.

____. Circuito dos Afetos: Corpos políticos, Desamparo, Fim do Indivíduo. São Paulo: Cosac Naify, 2015.

BUTLER, Judith. Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence. London & New York: Verso, 2004.

Mariana Pimentel Fischer Pacheco – Pós-doutoranda – USP.

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Identidade homossexual e normas sociais: histórias de vida – SELL (REF)

SELL, Teresa Adada. Identidade homossexual e normas sociais: histórias de vida. 2. ed. rev. e ampl. Florianópolis: EDUFSC, 2006. 255 p. Resenha de: BEZERRA, Fábio Alexandre. O indivíduo e o meio social na formação da identidade homossexual. Revista Estudos Feministas v.18 n.1 Florianópolis Jan./Apr. 2010.

Alinhada com pesquisas atuais que usam as teorias queer1 como base de investigação, Teresa Sell, ex-professora do Departamento de Psicologia da Universidade Federal de Santa Catarina (UFSC), desenvolve uma pesquisa histórica e marcante sobre a identidade homossexual a partir de entrevistas com homossexuais masculinos em Florianópolis, Santa Catarina, na década de 1980, quando pesquisas sobre (homo)sexualidade no Brasil ainda eram bastante incipientes. Tendo sido publicado primeiramente em 1987, fruto de sua pesquisa de mestrado em Psicologia Social pela Universidade de São Paulo (USP), este livro, reapresentado em uma edição revisada e ampliada, interessa àqueles que desenvolvem pesquisas sobre identidades de gênero, bem como a todos que queiram compreender melhor a complexidade e as nuances presentes na formação do indivíduo como ser social.

Já na Introdução a autora destaca a heterogeneidade do rótulo ‘homossexual’, visto que toda sua obra baseia-se exatamente na noção de homossexualidades como experiências individuais, que podem compartilhar características comuns, mas que são formadas a partir de contextos sociais específicos, o que motiva a rejeição de qualquer essencialismo conceitual. Nessa seção, também são explicitados alguns elementos metodológicos, tais como a seleção dos entrevistados, a (não) identificação deles, bem como a forma de condução das entrevistas. Por ser uma reedição ampliada, Sell apresenta também colocações atuais a respeito do posicionamento do poder público com relação aos homossexuais, destacando investimentos em eventos destinados a esse público, mas também fazendo a ressalva de que boa parte da difícil realidade vivida no momento da condução das entrevistas ainda persiste na atualidade. Ademais, traz colocações acerca da AIDS, já que seu advento no Brasil se deu posteriormente à publicação da primeira edição deste livro. Sobre esse tema, a autora afirma que, apesar de não ser mais possível “associar AIDS com homossexualismo, o estigma, porque de fato é uma marca, permaneceu” (p. 22).

O livro é dividido em duas partes, que, por sua vez, são subdividas em três e cinco capítulos, respectivamente. Na primeira parte, em seu primeiro capítulo, alguns conceitos são discutidos, tais como a formação da identidade, que se dá no meio social,2 visto que esse é anterior ao próprio indivíduo, isto é, há elementos inerentes ao ser humano, mas “a natureza é modelada pelos valores e padrões da cultura” (p. 30). Dessa forma, vemos, no segundo capítulo, que é exatamente no confronto entre o indivíduo e os valores tradicionais de seu grupo social que as divergências e os conflitos surgem. Tendo em vista que vivemos em uma sociedade que, em grande parte, ainda tem a heterossexualidade como único modo legítimo de vivenciar a sexualidade, encontramos aí o cerne da rejeição à homossexualidade, pois é vista como desviante e, portanto, inaceitável. Essa problemática é revelada, no terceiro capítulo, em quinze entrevistas, que foram conduzidas com muito respeito, o que permitiu que os entrevistados falassem de forma aberta sobre suas experiências de vida. Essas entrevistas demonstraram que a homossexualidade é vivida de formas diversas, apesar de várias questões serem compartilhadas por entrevistados que tinham histórias de vida bem diferentes. Além disso, podemos observar a atualidade de várias das questões discutidas nas entrevistas, o que demonstra que muitas preocupações, dificuldades e valores daquela década ainda persistem em nossa sociedade.

Na segunda parte do livro, Sell discute pontos importantes dos relatos, entrelaçandoos com uma discussão teórica leve, porém consistente. No primeiro capítulo, a autora destaca algo que realmente é uma constante nas entrevistas: o fato de a identidade ser formada “na relação do Eu com o Outro” (p. 181), visto que muitos dos entrevistados falaram de suas experiências e opiniões a partir de uma contraposição com a heterossexualidade. Os comportamentos foram descritos como desviantes do esperado pela sociedade, o que causou muita angústia ao se perceberem ‘diferentes’, gerando, ainda, culpa e vergonha pela noção subsequente de anormalidade. Vários entrevistados reforçaram a importância de se aceitarem para que os outros também pudessem aceitá-los. Além disso, a autora levanta a possibilidade de grupos discriminados se unirem para formar uma força maior que suas atitudes individuais,3 já que “a diversidade da natureza humana é maior do que as regras que ela criou” (p. 194). No segundo capítulo, o ocultamento da orientação sexual é apresentado, através das entrevistas, como um elemento fundamental na dinâmica do homossexual com a família e o grupo social, visto que o homossexual, em geral, deixa, no máximo, que desconfiem de sua orientação sexual sem que precise confirmá-la. Nessa reedição, Sell acrescenta que esse ocultamento foi drasticamente reforçado com a disseminação do vírus HIV, que ainda não tinha surgido quando as entrevistas foram feitas. Além disso, atualizando sua publicação, comenta a maior visibilidade do homossexual na TV, mas destaca que nem sempre a maneira como foram representados anteriormente contribuiu para o esclarecimento e a educação da população, e que, apesar de terem sido criados vários grupos de defesa do homossexual, a violência ainda é uma triste realidade a ser combatida. Acrescenta, ainda, que a internet aumentou a possibilidade de encontros e informação, ao mesmo tempo que também criou novos perigos. Por fim, enfatiza que, atualmente, o público gay representa uma fatia do mercado muito valiosa e exigente, e que eles, a partir de uma atuação organizada, também têm exercido justas pressões junto ao poder público para terem seus direitos reconhecidos e defendidos, inclusive o direito referente à união civil, um tema com “forte implicação política na conquista de cidadania por uma parcela significativa da população brasileira, que se reconhece como homossexual”.4 Tal organização é demonstrada pelo fato de que “associações e grupos ativistas se multiplicam pelo País. Atualmente, há cerca de 140 grupos espalhados por todo o território nacional”.5 Contudo, mesmo não tendo sido o foco da autora, também acredito ser importante registrar que essa luta por políticas públicas, apesar de ser muito legítima e dar visibilidade a uma parcela da sociedade organizada, também revela uma incompetência do próprio Poder Legislativo em tratar da questão.

Ainda na segunda parte, em seu terceiro capítulo, há o foco na dinâmica das relações sexuais entre heterossexuais e homossexuais, bem como desses entre si, discutindo-se as diferentes nuances e configurações que tais contatos podem assumir, dentre as quais foi destacada a bissexualidade. Ademais, problematiza-se a divisão entre ativos e passivos como uma reprodução da conhecida separação entre dominador (mais masculino) e dominado (mais feminino). Dessa forma, vê-se que essa divisão de papéis demonstra “a interligação da vida sexual com o contexto cultural e toda a influência sociopolítica da relação entre duas pessoas” (p. 223). No quarto capítulo, Sell afirma que nas entrevistas, independentemente do tipo de relação que era estabelecida, o amor estava “presente como uma possibilidade de paz, de suporte, de satisfação pessoal” (p. 228), apesar dos frequentes desencontros causados, em especial, pela intolerância com essa forma de relacionar-se com o Outro. No último capítulo, em suas considerações finais, mesmo as experiências femininas não constando deste livro, pelo fato da pouca disponibilidade para serem entrevistadas, a autora tece comentários comparativos com a vivência homossexual masculina a partir de apenas três entrevistas com mulheres.

Concluindo, destaco a relevância pública desta obra, visto que “conhecer sobre homossexualidade é conhecer sobre o comportamento heterossexual, pois ambas as formas se encontram ao tentarem se distinguir” (p. 244) e apresentam-se em diversas gradações, evitando-se, assim, o dualismo ‘homossexual e heterossexual’. Contudo, também apresento ressalva à afirmação da autora de que nos grupos de ‘iguais’ não haveria a necessidade de “contínua defesa da identidade” (p. 38), porque há várias identidades homossexuais que precisam, sim, de reafirmação constante mesmo nesses ambientes, tais como a postura estereotipada do masculino (ativo) e do feminino (passivo). A autora encerra sua obra, revisada e ampliada depois de 20 anos de sua publicação, reafirmando a necessidade de um mundo mais justo, com oportunidades de livre expressão do amor e da sexualidade para todos, visto que, mesmo depois de conquistarem um espaço maior de visibilidade e respeito, os homossexuais ainda hoje enfrentam demonstrações de violência e intolerância. Por fim, cabe ressaltar, ainda, que essa mudança, muito mais do que através de leis, mesmo sendo elas essenciais, deve ser promovida por meio da educação e da reavaliação de nossos conceitos e atitudes diante do ser humano – independentemente da especificidade de sua conduta sexual.

Notas

1 Teresa DE LAURETIS, 1991.

2 Mara Coelho de Souza LAGO, 1999.

3 Luiz Fernando Neves CÓRDOVA, 2006.

4 Miriam Pillar GROSSI, 2003, p. 263.

5 CONSELHO NACIONAL DE COMBATE À DISCRIMINAÇÃO, 2004, p. 15.

Referências

CONSELHO NACIONAL DE COMBATE À DISCRIMINAÇÃO. Brasil sem homofobia: Programa de Combate à Violência e à Discriminação contra GLTB e Promoção da Cidadania Homossexual. Brasília: Ministério da Saúde, 2004.         [ Links ]

CÓRDOVA, Luiz Fernando Neves. Trajetórias de homossexuais na ilha de Santa Catarina: temporalidades e espaços. 2006. Tese (Doutorado em Ciências Humanas) – Programa de Pós-Graduação Interdisciplinar em Ciências Humanas, Universidade Federal de Santa Catarina, Florianópolis, 2006.         [ Links ]

DE LAURETIS, Teresa. “Queer Theory: Lesbian and Gay Sexualities.” Differences: A Journal of Feminist Cultural Studies, Durham: Duke University Press, v. 3, n. 2, p. iii-xviii, 1991.         [ Links ]

GROSSI, Miram Pillar. “Gênero e parentesco: famílias gays e lésbicas no Brasil”. Cadernos Pagu, Campinas: Unicamp, n. 21, p. 261-280, 2003.         [ Links ]

LAGO, Mara Coelho de Souza. “Identidade: a fragmentação do conceito”. In: SILVA, Alcione Leite da; LAGO, Mara Coelho de Souza; RAMOS, Tânia Regina Oliveira (Org.) Falas de gênero: teoria, análises e leituras. Florianópolis: Editora Mulheres, 1999. p. 119-129.         [ Links ]

Fábio Alexandre Silva Bezerra – Universidade Federal de Santa Catarina.

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Indivíduo e comunidade na filosofia de Kierkegaard – DE PAULA (CEFP)

DE PAULA, Marcio Gimenes de. Indivíduo e comunidade na filosofia de Kierkegaard. Paulos, 2009. Resenha de: DINUCCI, Aldo. Cadernos de Ética e Filosofia Política, São Paulo, v.15, n.2, p.233-236, 2009.

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