Ni muertes ni palizas/ las mujeres se organizan. La construcción de la violencia doméstica como problema político-público (1984-1995) | Lucía Verónica Martínez

Detalhe de capa de Ni muertes ni palizas las mujeres se organizan. La construccion de la violencia domestica como problema politico publico 1984 1995
Detalhe de capa de Ni muertes ni palizas, las mujeres se organizan. La construcción de la violencia doméstica como problema político-público (1984-1995)

Este libro es la primera obra de Lucía Verónica Martínez Hernández. Se trata de una adaptación de su tesis de maestría en Historia Política (FCS, FHCE y AGU), realizada bajo la dirección del Dr. Diego Sempol y defendida en 2020, convirtiéndola en la primera mujer egresada de dicho programa de posgrado.

Conjugando aportes de la historia de género, la teoría feminista y los estudios de los movimientos sociales la autora se sumerge en el análisis y descripción del proceso sociopolítico que derivó en la configuración de la violencia doméstica como un problema político-público en el Uruguay de 1984- 1995. Lo hace a partir de una mirada de la transición democrática en clave de género, que pone el énfasis en el papel que desempeñó el movimiento de mujeres y feministas del Uruguay (MMFU) en la democratización del país, a través de una serie de reivindicaciones y acciones tendientes a la desnaturalización y politización de las múltiples formas de violencia hacia las mujeres, hasta entonces circunscriptas al universo privado. Explora las interacciones (y tensiones) entre el MMFU y el Estado uruguayo, así como la incidencia de los organismos internacionales en la consecución parcial de una serie de demandas relacionadas con la violencia doméstica y, finalmente, con su tipificación como delito en el Código Penal. Leia Mais

DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica d studi sulla memoria femminile (BC)

DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica d studi sulla memoria femminile. Resenha de: ERMACORA, Matteo. Il Bollettino di Clio, n.9, p.61-62, feb., 2018.

Pubblicata online dal luglio 2004, la rivista “DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile” si è proposta come luogo di analisi scientifica e di riflessione sul tema della memoria femminile nelle situazioni di esilio, deportazione e profuganza, – temi poco indagati dalla storiografia –e darne nel contempo massima visibilitàattraverso ricerche, documenti, scritti inediti etestimonianze orali.

Proprio per favorire la circolazione delle idee, superare la marginalità tematica della questione di genere e raggiungere un pubblico ampio, si è pensato ad una rivista scientifica “leggera”, digitale, indipendente, gratuita (tutti di documenti sono scaricabili e consultabili), aperta alla partecipazione di collaboratori italiani e stranieri mediante meccanismi di peer review. La rivista, inserita nel sito dell’Università degli studi di Venezia Cà Foscari, è strutturata su cinque sezioni: “Ricerche”, “Documenti”, “Interviste”, “Strumenti di ricerca” (bibliografie, sitografie) e “Recensioni”, concepite come “contenitori aperti”, tali da consentire vicendevoli rimandi.

Sin dagli esordi la rivista ha cercato di contraddistinguersi attraverso una marcata dimensione internazionale, l’ampiezza dello spettro geografico e cronologico preso in considerazione, la pluralità degli approcci disciplinari e metodologici, il graduale passaggio da un “tradizionale” orientamento storiografico ad una più ampia riflessione sui nodi teorici della questione femminile nella contemporaneità. In questa direzione la struttura della rivista si è modificata, aggiungendo la rubrica annuale “Una finestra sul presente”, volta ad illustrare una particolare situazione o tematica d’attualità, e le rubriche “donne e terra”, “donne umanitarie”, volte a valorizzare il rapporto delle donne con la natura, la solidarietà e l’attivismo femminile per la giustizia e i diritti umani. Tali rubriche hanno permesso di allargare lo sguardo a tematiche e situazioni extraeuropee e di ospitare studiosi e studiose di altra nazionalità.

Contestualmente anche la periodicità, dapprima basata su due uscite annuali (gennaio/luglio), alternando numeri monografici a miscellanei, si è via via arricchita con la presenza di “numeri speciali” curati da singoli o gruppi di studiosi esterni; la serie è stata inaugurata da Violenza, conflitti e migrazioni in America Latina (n. 11/2009).

L’attività della rivista si è accompagnata ad una serie di presentazioni pubbliche, mostre, seminari, convegni e giornate di studio, i cui materiali sono poi comparsi nella rivista stessa. Tra gli eventi promossi è necessario ricordare la giornata di studio su La lingua della memoria (giugno 2005), la mostra sui disegni dei bambini nei campi di concentramento italiani di Rab e di Arbe, i convegni Donne in esilio. Esperienze, memorie, scritture (ottobre 2006), Genere, nazione, Militarismo (ottobre 2008) e La violenza sugli inermi (maggio 2009), la Giornata della memoria La Shoah in Serbia (gennaio 2010), i seminari dedicati a Lo stato di eccezione (febbraio 2007), Donne e tortura (giugno 2010), lo sradicamento attraverso l’analisi di Hannah Arendt e Simone Weil (2011-2013), Tortura ed infanzia (giugno 2015), i convegni internazionali Vivere la guerra, pensare la pace 1914-1921 (novembre 2014) e Confini: la riflessione femminista (novembre 2017).

Se inizialmente, proprio partendo dal caso paradigmatico della Shoah, la questione posta al centro dell’analisi storiografica era data dalla necessità di ridare una “identità” e una “dignità” alle vittime indistinte della violenza genocidaria, della deportazione, dei sistemi totalitari, dei vari episodi di “infanzia negata” (n.3/2005: I bambini nei conflitti. Traumi, ricordi, immagini), dando valore ai destini individuali di donne e bambini, valorizzando le loro voci, le strategie di sopravvivenza e di reciproco aiuto, nel corso degli anni la rivista, adottando un approccio interdisciplinare, ha progressivamente dilatato i campi di indagine, spostandosi progressivamente su tematiche che riflettevano il rapporto guerra totale e profuganza nelle guerre del Novecento (nn.13-14/2010: La violenza sugli inermi), la privazione dei diritti e la “violenza estrema” dello stupro (n. 10/2009: Genere, nazione, militarismo. Gli stupri di massa), la prostituzione forzata, fino ad arrivare al femminicidio messicano (n. 24/2014). Costante in questo senso è stata l’attenzione alla lingua, alle parole, alla rappresentazione letteraria come strumento per esprimere il trauma ed esorcizzare il dolore (n. 8/2008, Donne in esilio; n. 22/2013, Voci femminili nei lager sovietici; n. 29/2016, Primo Levi e le scritture della salvazione).

Accanto al versante prettamente storiografico l’indagine si è progressivamente estesa all’esplorazione del filone del pensiero femminile e femminista, mettendone in luce complessità, soggettività, aperture critiche e alterità rispetto alle idee dominanti, pubblicando scritti inediti, opuscoli, antologie. Partendo dal tema della cittadinanza, della presenza/assenza delle donne sulla scena pubblica e dei diritti delle donne negati per forza di legge (nn. 5-6/2006), si è articolato il tema dello “sradicamento” – fisico, culturale, territoriale, da “sviluppo” capitalistico – come aspetto cruciale della condizione femminile nel tempo di guerra e di pace e si è cercato di valorizzare la capacità delle donne e del pensiero femminile di cogliere questa condizione e nello stesso tempo di metterla in discussione mediante la proposta di nuovi orizzonti sociali, relazionali, economici. Di qui l’attenzione riservata alla riflessione pacifista e femminista sulla denuncia della natura della guerra (nn. 18-19/2012; n. 31/2016), la ricostruzione di biografie di donne attive sul versante del relief work, l’analisi delle azioni di militanti pacifiste ed ecologiste, la riscoperta del pensiero di attiviste rispetto all’economia, alla pace, all’ambiente e ai diritti umani (Ruth First, n. 26/2014; Rosa Luxemburg, n.28/2015; Rachel Carson, n. 35/2017; lecollaboratrici di Gandhi, n. 37/2018) nonchél’ecofemminismo (n. 20/2012), il femminismo e laquestione animale (n. 23/ 2013). Questetematiche, variamente indagate dal punto vistastorico, filosofico, giuridico e sociologico,consentono di offrire un prisma rappresentativodella ricchezza del pensiero femminista e nelcontempo costituiscono un promettente campo dinuove indagini.

Matteo Ermacora

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Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo – DAVIS (BC)

DAVIS, Natalie Zemon. Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo. Bari: Laterza, 1996. 372p. Resenha de: COCILOVO, Cristina. Il Bollettino di Clio, n.9, p.70-72, feb., 2018.

Tre donne introdotte da un’intervista impossibile, che le costringe a prender vita in un libro e a confrontarsi, loro così lontane nella religione (rispettivamente ebraica, cattolica, luterana). Ma al dunque, grazie alla caparbietà dell’autrice Natalie Zemon Davis, riescono nella simulazione a trovare il fondamento della loro identità comune: l’affermazione della loro autonomia, del loro talento, della loro intraprendenza. Eccezionale per un’epoca caratterizzata dal “silenzio” delle donne, dall’assenza di loro tracce, nella ricostruzione selettiva della storiografia ufficiale.

Glikl Bas Yehudah Leib, ebrea askenazita cioè di origine tedesca, a differenza delle altre donne del suo tempo non disdegna il lavoro. Nonostante una numerosa famiglia, collabora con l’attività dell’amato marito, commerciante di gioielli e prestatore di denaro, che a seconda del momento può portare a vistosi arricchimenti come a repentine rovine. Glikl non dà al denaro valore in sé. Non desidera vivere nel lusso. Come la maggior parte degli ebrei abita in una casa d’affitto, non potendo per legge possedere proprietà. Per lei il valore assoluto è l’onore, l’essere considerata degna di rispetto, lei come la sua famiglia. Sappiamo tutto questo da una autobiografia articolata in ben sette libri, in cui Glikl alterna la narrazione della sua vita a vere e proprie parabole, che hanno lo scopo di far comprendere i valori positivi della solidarietà, dell’amore, il senso della sofferenza. Una donna di grande cultura teologica e tecnico – commerciale, rispettata per la sua acutezza nel gestire questioni finanziarie e insieme profondamente religiosa e giusta. Sebbene lei e la sua famiglia abbiano talvolta subito le conseguenze di persecuzioni antiebraiche, che li costringono a trasferimenti forzati, accetta la sofferenza, mai si ribella a Dio che muto e immobile non interviene. Semmai lo interroga e con rassegnata accettazione e cerca di ricominciare ex novo.

Marie de l’Incarnation, se si può considerare per il nostro tempo personaggio singolare, per non dire psichicamente disturbato, è invece perfettamente inquadrabile nell’epoca della Controriforma. Ispirata fin da giovane dalla vocazione divina, trascorre la vita secondo due passioni apparentemente poco conciliabili: un forte trasporto per la vita mistica e una spiccata capacità organizzativa del quotidiano. Divenuta vedova precocemente, percepisce il potente richiamo del misticismo come altre “sante” dell’epoca, che trasfigurano in estasi religiosa le pulsioni del proprio corpo, ma nel contempo gestisce con molta maestria, quasi con piglio imprenditoriale, l’azienda commerciale della sorella e del cognato, che la ospitano insieme al figlioletto. Per il resto della sua vita vivrà questa difficile dicotomia. A circa trent’anni decide di prendere i voti come suor Orsolina, separandosi dal figlio adolescente e disperato. Vive in clausura, mortificando con sofferenze fisiche il suo corpo secondo l’esempio di Teresa d’Avila, finché non ha l’occasione di poter educare al pensiero cristiano i “selvaggi” del Nuovo Mondo. Si trasferisce in Canada, dove lavora con efficientismo invidiabile nelle difficili condizioni di una Missione delle suore Orsoline. Qui lei, che rifiutava il suo corpo, si accosta alla corporeità degli altri e tocca, cura, pulisce, insegna, impara le lingue locali, converte indios in un’opera pastorale a tutto campo. Soprattutto ha una ultra decennale corrispondenza con il figlio Claude, che a sua volta aveva preso i voti, e scrive testi religiosi per le genti locali nella loro lingua e scrive anche la sua autobiografia. Il figlio raccoglierà con devozione gli scritti della madre, ma li correggerà adattandone il linguaggio ingenuo allo stile sospettoso della Chiesa dell’epoca, per pubblicarli in un’opera postuma, “Vie”, dove però non inserisce gli scritti teologici di Marie in lingua irochese, algonchina e urone, utilizzati nella sua azione pastorale in Quebec.

Nonostante gli attacchi di misticismo e autoflagellazione, Marie ha un aspetto che la avvicina alla nostra sensibilità, per la relazione che ha creato con i “selvaggi”. Il suo scopo non è quello di emarginarli, ma di includerli nel mondo dei cristiani, in una visione universalistica, secondo cui non esiste differenza fra esseri umani, se questi abbracciano la parola di Cristo. Marie, mentre cerca di convertirli, educa gli indios al rispetto dell’igiene, della lettura e della scrittura. Qualora essi fuggano per l’innato desiderio di libertà di vivere nella natura, lontano da un convento di clausura, Marie li comprende e li perdona, riscoprendo il ruolo di madre generosa, che non aveva saputo assumere con il figlio al momento dell’abbandono.

Maria Sibylla Merian, luterana, originaria di Francoforte, figlia d’arte di un famoso incisore, non visse una vita familiare e borghese, come le sue condizioni le consentivano, allineandosi così alle stranezze delle altre due donne del libro. Si trasferì nel corso della vita in diversi luoghi, in seguito a scelte di vita radicali. La sua vita si potrebbe definire una metamorfosi, mimando il titolo della sua opera più famosa “Metamorfosi degli insetti del Suriname”, una raccolta di incisioni artistico-scientifiche che rappresentano la stupefacente natura tropicale. Acquisita fin da giovane una certa notorietà, grazie al suo talento di incisore1, diventa famosa dopo la pubblicazione nel 1679 del libro in due volumi “I bruchi. Le meravigliose metamorfosi dei bruchi“, in cui affianca a un centinaio di splendide incisioni di bruchi e insetti, descrizioni basate sulle sensazioni soggettive provate nell’osservazione degli aspetti naturali. Nell’organizzazione dei libri, rifiutò ogni criterio classificatorio, ritenendolo inadeguato. Non seleziona i viventi distinguendoli in catalogazioni di piante, bruchi e insetti; la sua osservazione ruota attorno a una foglia di cui si nutrono simultaneamente bruchi ed altri insetti, mentre le crisalidi si trasformano in farfalle. Evidenzia la vitalità delle relazioni fra gli esseri di un medesimo habitat. Tuttavia la sua visione della natura è profondamente religiosa, perché vi individua la straordinaria onnipotenza divina.

Morto il padre, probabilmente in crisi con il marito, si separa e sceglie di andare a vivere con le due figlie in Frisia, presso la comunità luterana dei Labadisti, che praticavano una fratellanza mistica. Qui rinuncia a ogni bene terreno e tronca le relazioni con l’esterno. Dopo pochi anni vissuti come cristallizzati in quella realtà, ecco la metamorfosi di Maria. L’eccessiva mortificazione, il distacco dalle cose del mondo e della natura, persino il ripudio del suo orgoglio di creatrice di oggetti artistici la spingono a un nuovo cambiamento.

Abbandona la comunità e si trasferisce ad Amsterdam per ricostruire la vita sua e delle figlie, ritornando all’arte incisoria, intraprendendo la strada dell’insegnamento e costruendosi una solida vita borghese, in piena autonomia di scelte anche economiche. Grazie poi al genero, che commercia con le colonie del Suriname, incuriosita dalla ricchezza di vita di quei luoghi, vi si trasferisce per due anni con la figlia minore.

In seguito a quella esperienza, pubblicò la sua opera più originale “Metamorfosi”, in cui riaffermò la sua visione della natura come un insieme di relazioni dinamiche tra viventi, che mutano nel tempo e a seconda del luogo in cui si realizzano. Consultò, senza i pregiudizi coloniali del tempo, indios e schiavi neri, che le diedero preziose indicazioni sulle caratteristiche di piante e animali del luogo, oltre alle loro abitudini di vita. Informazioni che riportò nel libro, anticipando aspetti delle attuali ecologia e antropologia. Tornata in patria, ottenne fama e riconoscimenti.

Che cosa hanno in comune queste tre donne così diverse tra loro, vissute in un periodo storico che condannava al silenzio le figure femminili?  La cultura innanzitutto. Tutte e tre abitanti di città hanno realizzato importanti opere nel loro campo specifico con una cultura libera da schemi. Tutte e tre hanno superato radicali cambiamenti, hanno impostato un rapporto profondo con la divinità che prospettava una vita migliore, per superarla e trovare riscatto nel lavoro. Tutte e tre erano esperte contabili, avevano indubbio talento per gli aspetti organizzativi del lavoro e non mancavano di spirito d’avventura.

Ma vivevano ai margini. In che senso? Perché lontane dal potere politico ed economico, perché la loro era una cultura da autodidatta, non costruita nelle accademie. Grazie alla loro intraprendenza riuscirono però a dare significato originale alle loro opere.

Cosa ci resta di loro? L’autobiografia di Glikl ebbe diverse edizioni e una certa diffusione nel mondo ebraico, finché non fu dichiarato libro “velenoso” dal nazismo. Fortunatamente l’autrice ne ha ritrovato una copia alla biblioteca di Berlino.

Le opere in lingua algonchina, irochese e urone di Marie forse andarono disperse dai missionari che si avventurarono all’ovest. Invece è rimasto come testo di riferimento per le Orsoline la sua “Vie” curata dal figlio.

Maria Sibylla ebbe più fortuna. Le sue opere vennero utilizzate e citate da Linneo e la sua raccolta postuma di incisioni fu acquistata da Pietro il grande. Oggi fa bella mostra di sé nella Kunstkammer dell’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo, mentre il suo libro delle Metamorfosi è considerato patrimonio nazionale dal Suriname.

Le storie ritrovate delle tre donne potrebbero rientrare nella storia scolastica per ricostruire quadri d’insieme: la vita di ebrei askenaziti in Germania, il rapporto contorto con la religione controriformista di sante in estasi mistica, le relazioni contraddittorie con le genti del Nuovo Mondo, la faticosa affermazione del metodo d’osservazione scientifica.

Per gli studenti il libro costituisce probabilmente una lettura impegnativa, ma in un laboratorio storico di 17/18enni può essere interessante delineare temi come quelli accennati attraverso la costruzione di tre biografie femminili. Potrebbe diventare un’operazione capace di dare una luce diversa a queste tematiche e insieme di valorizzare i contributi ignorati di tre grandi donne del passato.

[Notas]

1 Significativo che in italiano non esista la versione femminile del termine incisore.

Cristina Cocilovo

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La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto – FECI; SCHETTINI (BC)

FECI, Simona; SCHETTINI, Laura Schettini. La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto. (Secoli XV-XXI). Roma: Viella, 2017. 287p.  Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Il Bollettino di Clio, n.9, p.73-74, feb., 2018.

Le guerre di fine Novecento si sono distinte non solo per il 95% di vittime civili non combattenti ma per l’uso del corpo delle donne come arma. In particolare le guerre etniche nella ex Jugoslavia e in Ruanda hanno messo in evidenza come gli stupri di guerra fossero programmati e usati come un’arma vera e propria. Un’arma particolarmente efficace nelle società patriarcali fondate su una concezione proprietaria del corpo femminile. La guerra non solo rende legittimo infrangere i comandamenti divini del non rubare e non uccidere ma anche quello di non desiderare la “donna d’altri”; lo stupro della “donna del tuo nemico”, infatti, ha la duplice funzione di umiliare nell’immediato il nemico incapace di proteggere la “propria” donna e di garantirsi in aggiunta effetti dirompenti che vanno oltre la fine del conflitto.

Del resto, la retorica nazional-patriottica usa la metafora della nazione-donna da difendere e lo sfondamento dei confini un disonore; proprio questo fece assumere allo stupro un valore chiave nei conflitti tra nazionalismi, rendendolo nel corso del Novecento una tra le più efficaci e ricercate pratiche di guerra.

Ma andiamo per ordine. Il volume curato da S. Feci e L. Schettini affronta il tema della violenza maschile sulle donne nell’Europa degli ultimi cinquecento anni. Le fonti principali sono di tipo giuridico: testi normativi e atti processuali.

Analizzati e interpretati alla luce del contesto storico e sociale nel quale venivano utilizzati e applicati.

Ad esempio, in età moderna (e medievale) le prerogative del capofamiglia di esercitare un diritto di correzione (ius corrigendi) nei confronti della moglie, dei figli, dei domestici era considerato ovvio, riconosciuto ovunque in Europa e nei domini coloniali, qualsiasi fosse la confessione religiosa, la situazione patrimoniale della famiglia, il contesto politico e sociale. Era considerato, altresì, ovvio l’uso della forza per correggere e imporre comportamenti adeguati all’obbedienza e al rispetto che si deve al capofamiglia.

Tuttavia, l’uso della “forza” non doveva eccedere, sconfinando nella “violenza”. In questo caso, la moglie poteva ricorrere a istituzioni e magistrature per denunciare gli abusi. Diventava in quel caso decisiva la testimonianza dei vicini, la percezione che il contesto sociale aveva delle violenze. Va detto che la tendenza naturale di magistrati sia ecclesiastici che laici era quella di salvaguardare l’unità della famiglia limitandosi, nei casi più favorevoli alle donne, ad un ammonimento al maschio violento.

La cosa interessante è che l’esame attento delle carte processuali, pur narrando storie di violenze prolungate nel tempo e di progressiva gravità, consentono di individuare un limite, una “soglia”, pur flessibile, tra l’uso della forza per correggere comportamenti ritenuti inaccettabili e l’abuso violento e ingiustificato.

Oggi la violenza contro le donne, in particolare i tanti femminicidi degli ultimi anni, da qualcuno è stata vista come un ultimo colpo di coda del patriarcato declinante.

Non è detto. La partita è lunga. L’indagine storica può aiutare a capire di più e meglio. Si pensi, per esempio, al rifiuto inflessibile e religiosamente fanatico del “matrimonio affettivo” in molte società, ritenendo un sacro obbligo divino per il pater familias scegliere lo sposo per la “propria” figlia. La storia ci fa capire tanto. Prima di tutto ci rende chiari i tratti costitutivi del patriarcato ancora presente nelle nostre società contemporanee; in secondo luogo, fa piazza pulita di ogni generalizzazione e semplificazione circa i contesti nei quali è presente la violenza maschile contro le donne. Essa non conosce confini geografici né epoche storiche; non ha barriere culturali né di classe né tantomeno religiose.

“D’altronde, scrivono nell’introduzione le curatrici nell’Introduzione, tra uomini e istituzioni era e resta a lungo in atto una partita circa i margini di immunità e impunità spettanti al pater familias, condotta e giocata con variazioni ed esiti difformi nel tempo e nei diversi contesti, ma assai viva.”

Vicenzo Guanci

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L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea – BELLASSAI (BC)

BELLASSAI, Sandro. L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea. Roma: Carocci, 2012. 181p. Resenha de: DI TONTO, Giuseppe. Il Bollettino di Clio, n.9, p.79-82, feb., 2018.

Che cosa hanno in comune le immagini di Mussolini in posa atletica, proposte dall’Istituto Luce durante la “Battaglia del grano”, con le foto dei corpi maschili dagli addominali perfetti che la pubblicità moderna ci propina? Apparentemente nulla o quasi. Entrambe, comunque, segnalano alcune tappe della rappresentazione dell’identità maschile nella nostra società e con esse il concetto di virilità, che va a pieno titolo inserito nello scaffale tematico della storia di genere letta al maschile.

A questo tema lo storico Sandro Bellassai ha dedicato, alcuni anni fa, esattamente nel 2012, una delle sue ricerche sulla storia di genere al maschile nel libro L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Roma 2012, che a noi pare, se pur a distanza di qualche anno dalla sua uscita, ancora di fondamentale importanza per quanti volessero farsi un’idea più approfondita su questo problema della storiografia di genere.

Il concetto di virilismo, inteso nella definizione del Grande Dizionario della Lingua Italiana di S. Battaglia come “l’esasperazione di qualità, comportamenti virili o tradizionalmente ritenuti tali” viene analizzato da Bellassai nel suo sviluppo storico per periodi a partire dal secolo XIX per arrivare fino ai nostri giorni.

Lo scopo del libro, esplicitamente dichiarato dall’autore, è quello di delineare una cornice interpretativa di “una storia del virilismo come ideale politico (dove questo aggettivo non si riferisce letteralmente solo al sistema politico, ma a dinamiche sociali e culturali che definiscono limiti e possibilità della libertà e del potere nelle relazioni fra uomini e donne). Come ideale politico astratto, in particolare, che ha segnato profondamente per oltre un secolo linguaggi, immagini, comportamenti di soggetti maschili concreti.”(p.9)  L’approccio proposto privilegia quindi, in modo particolare, la dimensione simbolica della mascolinità e le rappresentazioni che ad essa possono essere collegate, cercando di mettere in rilievo alcuni aspetti del loro uso politico nella storia italiana contemporanea.

L’analisi prende le mosse dalla società della fine del secolo XIX, con le sue radicali trasformazioni economiche sociali e culturali, quando sembrava “prefigurarsi una decadenza dell’assoluta sicurezza maschile nel pubblico e nel privato” (p.17). La patriarcale centralità della figura maschile che fino ad allora aveva dominato indiscussa, entrava in crisi e con essa le gerarchie di genere. In un‘epoca in cui “le élite e la sempre più rilevante opinione pubblica avevano un carattere prevalentemente maschile, il crescente protagonismo – anche sociale e politico – delle donne venne percepito come una minaccia pericolosissima per gli assetti sociali del potere, dunque della supremazia degli uomini in quanto genere.” (p.17)  La risposta a questo indebolimento del ruolo maschile, a livello individuale e collettivo, fu il rilancio della virilità nei suoi caratteri concreti e simbolici in contrapposizione alla modernità dilagante e ai suoi effetti.

Bellassai sottolinea a più riprese come sul piano delle relazioni di genere la prima e più potente incarnazione di questa contrapposizione al tradizionale dominio dell’uomo era la donna, la “donna nuova” che dalla seconda metà dell’Ottocento era entrata nella sfera pubblica con l’accesso all’istruzione universitaria, alle professioni, al mondo della cultura e del lavoro. I tratti misogini della polemica maschile non si limitavano a riproporre “l’antico adagio denigratorio delle donne… (ma rappresentavano) …la reazione maschile alle conseguenze di genere di una modernizzazione che toglieva l’aurea di sacralità agli equilibri di potere consolidati” (p.45). La misoginia si affermava quindi come “strumento retorico mediante il quale si è perseguita per decenni una restaurazione delle identità e dei ruoli di genere tradizionali”(p.45) e trovava spazio “nei più svariati ambiti della cultura, della scienza e dell’opinione pubblica.”(p.46) Interessanti gli esempi riportati dall’autore: dallo stereotipo della femme fatale del Decadentismo alle affermazioni di antropologi e sociologi come Lombroso e Mantegazza sulle degenerazioni femminili e sui rischi di feminilizzazione maschile. Esempi di una misoginia che aveva lo scopo di fissare le differenze naturali in termini gerarchici tra i due sessi e cercare una strada che “esaltasse e rigenerasse i tratti considerati più marcati e specifici dell’identità maschile” (pag.53) esprimendo in questo modo un antimodernismo che sembrava già mostrare le sue debolezze rispetto alle grandi trasformazioni che il nuovo secolo proponeva.

La seconda fase presa in considerazione dall’autore è quella del ventennio fascista considerata “sul piano della storia nazionale, certamente il più organico tentativo di imporre dall’alto del potere statale una via autoritaria alla modernità” (pag.53) ma trattavasi pur sempre di una modernizzazione autoritaria che distingueva tra una buona e una cattiva modernità ed esprimeva un antimodernismo che rappresentava “un setaccio retorico che aveva il compito di purificare il futuro della nazione degli elementi inconciliabili con la riaffermazione di un ordine sociale rigidamente gerarchico.(p.64)”  Questo ordine gerarchico avrebbero trovato una sua espressione anche nel virilismo e nei rapporti di genere. Tra le manifestazioni della retorica fascista di questo rinnovato virilismo Bellassai annovera l’esaltazione della popolazione rurale e la celebrazione del contadino “come quintessenza di mascolinità naturale o selvatica” (p.73). A questa retorica si affiancava quella della famiglia patriarcale contadina, esempio di “un ordine sociale e di genere tradizionale, premoderno, rigidamente gerarchico” che doveva difendere la nuova civiltà fascista “dalle degenerazioni della civiltà contemporanea, tra le quali si dovevano di sicuro contare il desiderio delle giovani donne di una vita migliore e di una maggiore cura di sé” e la ricerca “di nuove forme di svago e socializzazione che favorivano la promiscuità fra i sessi e indebolivano il sentimento religioso e, ovviamente, il virus della denatalità che dalle città già infette minacciava costantemente di propagarsi alle virilissime aree rurali” (p.74)

Altro tema di interesse nell’analisi del virilismo era il fascino del rischio e della vita avventurosa riproposti anche dalla letteratura popolare “ispirata alle avventure in mondi selvaggi e misteriosi, compresi i bassifondi urbani, o all’esistenza solitaria di uomini forti a contatto con la natura (dai romanzi coloniali al mito letterario del West, dalla prima science fiction al genere poliziesco” (p.75). Era l’uomo della classe media urbana che si serviva di quel mito come “compensazione fantastica di una condizione esistenziale che egli percepiva deleteria per la propria identità di maschio” (p.75).

Non meno interessanti sono le osservazioni dell’autore a proposito della posizione sull’intellettualismo inteso dal fascismo come una sorta di “malattia dell’intelligenza ed essendo quest’ultima, nella concezione tradizionale, un attributo precipuamente maschile, l’intellettualismo era una malattia della mascolinità. Una ‘intelligenza senza virilità’  appunto” (p.77) alla quale bisognava opporre gli ideali di azione, di impulsività e di giovinezza. Ma è ancora sulla donna e sulla sua subalternità che si concentrava la costruzione dell’immagine maschile in questo periodo. Il problema era la ”trasformazione profonda ed epocale, e non certo trascurabile, dell’identità femminile”. Come scriveva il famoso scrittore Dino Segre, meglio noto con lo pseudonimo di Pitigrilli, in un suo romanzo di quell’epoca “Le signorine di una volta simulavano l’ingenuità e la purezza, la trasparenza spirituale e l’impermeabilità materiale; facevano mostra di non capire mai. Quelle di oggi, invece dell’ingenuità ostentano malizia, mostrando di scoprire intrighi oscuri nelle vicende più limpide, ambiguità misteriose nelle parole più oneste, raffinate impurità nelle pratiche più francescane”. (p.84)

Alla diffusione della cultura di massa americana, considerata dal fascismo responsabile della gran parte delle degenerazioni della “donna moderna”, il regime rispondeva con appelli e campagne contro “la diffusione della moda indecorosa di origine straniera, contro i balli moderni, contro i nuovi modelli di donne magre, disinvolte, decise a conquistare un accesso più ampio al lavoro extra domestico e al tempo libero” e al tempo stesso si varavano misure e iniziative “per sostenere l’esclusiva ‘missione di madre’ di ogni donna” sostenendo la pubblicazione di “romanzi, opere moraleggianti e articoli su ogni tipo di periodici per esaltare la donna moglie e madre e per spegnere sul nascere ogni focolaio della terribile infezione modernista”.(p.84). Di altrettanto interesse i paragrafi dedicati dall’autore alla retorica fascista per combatte i fenomeni di denatalità e propagandare la libertà sessuale lasciata agli uomini “come una delle principali attrattive dello scenario coloniale(p.91). Nell’analisi della quarta fase di questa storia del virilismo in Italia, l’autore, sottolineando i grandi cambiamenti economici,  sociali e culturali degli anni ’50 e ’60 in Italia, pone in relazione tali trasformazioni e le conseguenze che esse ebbero “nell’assetto delle relazioni di genere: sensibili cambiamenti si riscontrano ad esempio, nella rappresentazione dei ruoli femminili anche nell’ambito domestico, nella progressiva affermazione di una morale sessuale e di atteggiamenti meno oppressivi sul piano del senso comune diffuso, nel riconoscimento di nuovi diritti civili e sociali delle donne”. (p.97)

Pur continuando a permanere differenze di genere che fanno parlare Bellassai di un assetto asimmetrico del potere e delle gerarchie di genere, emergevano novità rispetto al recente passato che, tuttavia, non consentivano certo di invocare in tempi brevi “la scomparsa delle disuguaglianze fra uomini e donne” (p.98). Ciò nonostante si chiudeva, secondo l’autore, “definitivamente una pluridecennale fase storica in cui i modelli di mascolinità ispirati al virilismo nella sua declinazione più autoritaria, gerarchica e violenta avevano detenuto una notevole egemonia nell’immaginario collettivo. Ma l’idea che gerarchia, forza e ordine fossero indispensabili alla virilità collettiva, e che quest’ultima fosse a sua volta un pilastro irrinunciabile del naturale equilibrio sociale, certamente non scomparve”. (p.99)

Molti gli esempi prodotti a conferma di questa tesi in particolare nell’ambito della comunicazione pubblicitaria relativa ai nuovi beni di consumo. Il miracolo economico produceva la percezione di essere usciti dalla miseria dopo il secondo conflitto mondiale. Le aree urbane delle città industriali del Nord furono investite da fenomeni di immigrazione dalle campagne e soprattutto dal Sud e nelle città del benessere gli “immigrati potevano accantonare i costumi tradizionali”. (p.105).

Così Giorgio Bocca, riportato da Bellassai, nel suo libro La scoperta dell’Italia del 1963 descriveva il fenomeno che investiva anche le identità di genere “scomparsi o tenuti in sordina i temi maschili, aggressivi e rudi, inizia il declino del gallismo e di quella sua manifestazione che è il pappagallismo [ …] Per effetto della cultura di massa il Bel paese si ingentilisce e si svirilizza” (p. 104). Nuovi modi di comportamento si affermavano tra le donne: con gli acquisti di elettrodomestici per la casa ma anche di prodotti di consumo voluttuario. Bellassai fa ancora parlare Giorgio Bocca dallo stesso volume prima citato “Nella civiltà dei consumi, l’universo del confort appare affidato alle donne, sono esse a decidere gli acquisti e i primi ad esserne persuasi sono i venditori, prova ne sia che la pubblicità va ai giornali femminili nella misura del settanta per cento, più del doppio di quanta ne vada ai giornali maschili-femminili” (p.106). Tuttavia questo fenomeno di svirilizzazione, contrariamente alle epoche passate, non appariva a tutto il mondo maschile come un fenomeno negativo “era l’inizio di un’epoca in cui il tradizionale virilismo si avviava a diventare una delle opzioni in campo, perdendo quindi il monopolio identitario che riteneva spettargli di diritto [] l’inizio della fine del virilismo stesso quale aveva dominato la dimensione dell’identità maschile per quasi un secolo” (p.110). Arrivando a parlare degli ultimi decenni del XX secolo e degli inizi del nuovo secolo il giudizio dell’autore si fa più netto a favore della tesi secondo la quale “la crisi della prospettiva maschile tocca il suo apice nel decennio settanta per lasciare spazio a partire dalla fine del millennio, al tentativo di rilanciare un ordine culturale ispirato alla subordinazione delle donne nel pubblico e nel privato, alla riproposta di una polarizzazione identitaria del maschile e del femminile, al risorgere di pulsioni antiegualitarie, xenofobe o apertamente razziste” (p.123).

I ragionamenti fin qui condotti dall’autore portano alla conclusione che il modello virilista è stato largamente screditato ma non si può abbassare la guardia e considerare la sua storia conclusa. Basta pensare ai numerosissimi episodi di violenza sulle donne di cui veniamo quotidianamente a conoscenza dalle cronache e che riguardano ambienti e classi sociali diverse. E da questa conclusione può partire un’ultima riflessione sulla funzione che la scuola può e deve svolgere. Siamo ancora lontani dall’idea di immaginare rapporti di genere diversi. Il libro di Bellassai ci aiuta a muovere i passi, donne e uomini, in quella direzione, semmai partendo dalla scuola e dall’insegnamento della storia anche nell’ottica della storia di genere.

Giuseppe Di Tonto

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