Geel/la città dei matti. L’affidamento familiare dei malati mentali: sette secoli di storia | Renzo Villa

Durante l’acceso dibattito che si svolse, alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento, in seno al Consiglio provinciale di Cuneo per valutare la possibile realizzazione di un manicomio provinciale, si segnalò tra le altre una voce, quella del consigliere Michelini. Liberale e convinto sostenitore dell’idea di nazione, fattosi spesso notare per le chiare posizioni anticlericali1 e per la generosa partecipazione ai moti del 1821 2, il conte avanzò una critica radicale all’idea stessa del manicomio, in quanto luogo d’esclusione. La sua proposta, sviluppata «colla lettera diretta all’egregio dottore Parola»3, era insieme il frutto dell’esperienza di viaggiatore e di un orizzonte mentale aperto e riformista, tanto coraggioso quanto non in linea con le esigenze disciplinari dei tempi. Giovanni Battista Michelini, dopo aver visitato il villaggio belga di Geel, conobbe una modalità diversa di “curare” l’alienazione mentale e la propose alla Commissione Provinciale. Nel villaggio gli alienati soggiornavano presso le famiglie del contado «ove godono d’una libertà che non esclude le cure che esige il loro stato»4. Questa rivoluzione terapeutica aveva raggiunto una certa notorietà nel 1803, quando il prefetto del Dyle aveva deciso, dopo aver preso accordi con le autorità locali, di «trasportare a Geel i pazzi che si custodivano in Bruxelles»5. Esquirol, che visitò il villaggio nel 1821, sostenne che a Geel c’era una colonia di pazzi che si mandano da tutti gli angoli del Dipartimento e dei dipartimenti vicini. Questi infelici sono in pensione presso gli abitanti; passeggiano liberamente nelle contrade, mangiano coi loro ospiti e dormono in loro casa. Se si abbandonano a qualche eccesso, si mette loro dei ferri ai piedi, il che non li trattiene dall’uscire di casa. Questo strano traffico è da tempo immemorabile la sola risorsa degli abitanti di Gheel; non si è mai udito, che ne siano derivati degl’inconvenienti6. Leia Mais

La cultura americana e il PCI. Intellettuali ed esperti di fronte alla “questione comunista” (1964- 1981) | Alice Ciulla

La pluralità di voci che tra anni Sessanta e Settanta animò il dibattito accademico-politico statunitense sulla “questione comunista” in Italia è al centro del volume di Alice Ciulla, assegnista presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Roma Tre. In questa sede, l’autrice ha discusso la tesi di dottorato dalla quale è tratto il libro. Per la stesura di quest’ultimo, Ciulla ha tuttavia approfondito alcuni temi attraverso esperienze di ricerca in archivi italiani e americani, integrandole con interviste ad alcuni studiosi dell’epoca raccolte durante i soggiorni negli Stati Uniti. Leia Mais

L’Italia sullo schermo. Come il cinema ha raccontato l’identità nazionale | Gian Piero Brunetta

Gian Piero Brunetta l'identità nazzionale
Gian Piero Brunetta, 2017 | Foto: Radio Buet.It

Dalla pubblicazione dei primi pioneristici lavori di Pierre Sorlin e Marc Ferro alla fine degli anni Settanta1, studiosi di diversa formazione si sono interrogati sui complessi legami che uniscono cinema e storia, alimentando un dibattito che anche in Italia ha prodotto risultati di grande valore scientifico2 e che ultimamente ha portato, almeno in parte, al superamento delle «antinomie ed interferenze tra questi due mondi»3. Tra i protagonisti di questa stagione di studi, Gian Piero Brunetta, emerito di storia e critica del cinema presso l’Università di Padova, è sicuramente quello che per primo ha tentato di instaurare un dialogo con gli storici per dimostrare l’importanza non secondaria del cinema quale luogo privilegiato per comprendere la storia del XX secolo. Lo testimoniano le numerose monografie sulla storia del cinema italiano in cui lo studioso ha affiancato ai suoi iniziali interessi per la critica e il linguaggio filmico la ricostruzione storiografica dei contesti produttivi, delle forme della fruizione e del ruolo culturale svolto dal cinema nella società4.

Italia sullo schermo l'identità nazzionaleIn questo filone di ricerca si inserisce il volume in oggetto, nei fatti la rielaborazione di alcuni saggi pubblicati dall’autore nel corso della sua lunga carriera, opportunamente aggiornati ala luce dello stato dell’arte e integrati da scritti inediti. Pur caratterizzati da approcci analitici differenti i quindici capitoli del testo muovono dal comune tentativo di comprendere come il «cinema abbia letto la storia d’Italia, ne abbia saputo cogliere i caratteri identitari e le trasformazioni nel corso del tempo e come sia variato il suo uso pubblico da parte di soggetti diversi che si sono serviti del mezzo filmico per scopi molto differenti»5. L’autore, infatti, considera la storia un elemento strutturale del cinema italiano, che si differenzierebbe dalle altre cinematografie proprio per una più pronunciata e precoce vocazione a divenire narratore di eventi storici, colti in un passato, anche remoto, o rappresentati nel momento stesso del loro accadere, come nel caso paradigmatico del cinema neorealista. Tesi, questa, argomentata con chiarezza fin dalle prime pagine del volume, attraverso l’adozione di prospettive che tendono a inquadrare i temi trattati nel loro sviluppo diacronico e in una dimensione comparata, per cogliere le influenze e le interferenze tra il cinema italiano e le altre cinematografie nazionali o i nessi intertestuali tra le pellicole e altri prodotti culturali. Ampia la tipologia di fonti utilizzate: documentari e pellicole di fiction su tutte, ma anche articoli di riviste e periodici, monografie specialistiche, scritture autobiografiche e memorie; insomma, tutti quegli elementi che permettono allo storico di ricostruire «le forze e gli agenti contestuali» che allargano «in più direzioni le capacità significanti» della singola produzione filmica6. Leia Mais

Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale | Maria Luisa di Felice (R)

Filosofia e Historia da Biologia 11 l'identità nazzionale
Maria Luisa di Felice | Foto: FG |

SCOTT The common wind 14 l'identità nazzionaleMaria Luisa Di Felice, ricercatrice universitaria in Storia contemporanea presso la Facoltà di Studi umanistici dell’Università di Cagliari, oltre ad avere all’attivo una vastissima produzione scientifica e un percorso formativo e professionale in lettere e archivistica, dal 2009 è responsabile scientifico del progetto di ricerca su «Renzo Laconi, il politico e l’intellettuale. Studio e valorizzazione del pensiero e dell’opera». Un progetto di ricerca che ha realizzato l’obiettivo di recuperare, riordinare e inventariare l’archivio privato di Laconi, portando alla luce la rilevanza nazionale del suo contributo intellettuale e politico negli anni di attività all’Assemblea Costituente e alla Camera dei Deputati. Nel corso di tali ricerche, Di Felice ha pubblicato alcune prime monografie: Renzo Laconi. Per la Costituzione. Scritti e discorsi (2010) e Renzo Laconi, la formazione intellettuale e politica. Dagli anni giovanili alla nascita della Repubblica (2011) [1]. Il volume edito nel 2019 da Carocci – articolato in quindici capitoli e 685 pagine – «ha assorbito in sé anche i due precedenti» [2] e rappresenta l’ultima tappa di un lavoro biografico monumentale, corredato da fotografie e disegni realizzati dallo stesso Laconi, a coronamento di una esaustiva biografia intellettuale e politica sull’esponente comunista sardo. La messa a disposizione dell’archivio privato di Laconi e della sua biblioteca[3] ha contribuito in maniera determinante alla realizzazione dello studio. In particolare, il suo archivio personale – conservato presso la Fondazione Gramsci di Roma – rappresenta un’eredità politica e culturale ricchissima, con i suoi oltre cento Quaderni, definiti come un autentico «archivio nell’archivio». Laconi infatti aveva l’abitudine di annotare le proprie riflessioni, organizzandone in maniera sistematica la conservazione. Tra le fonti complementari si annoverano i fondi non ancora sufficientemente esplorati, come quelli del Gruppo parlamentare del Pci e del Consiglio regionale della Sardegna, accanto ad altri più noti (ad esempio: le carte della Direzione del Pci e dell’Archivio storico della Camera dei deputati). Il volume concretizza l’obiettivo di integrare le diverse opere parziali pubblicate nel corso degli anni [4], fornendo un quadro d’insieme, una visione organica di una biografia intellettuale e politica. I primi capitoli sono dedicati all’infanzia di Laconi a Sant’Antioco (CA), agli anni giovanili e universitari vissuti a Cagliari, dove si laurea in filosofia; al periodo in cui è insegnante a Firenze, all’adesione al Pci nel 1942 e all’esperienza come caporale nell’esercito dal 1943. Il libro si sofferma sul periodo di intenso impegno politico per la ricostruzione del Partito comunista nell’isola, all’indomani della caduta del fascismo: sul ruolo di segretario di federazione a Sassari e sulla partecipazione ai lavori della Consulta regionale sarda. L’opera sottolinea con precisione come il percorso di Laconi sia marcato al contempo dalla scelta di Gramsci come maestro, come guida intellettuale e umana [5], e dalla spiccata sintonia politica con la linea togliattiana. Eletto appena trentunenne all’Assemblea costituente (incarico per cui, nonostante la sua attenzione e sensibilità al movimento dei minatori del Sulcis-Iglesiente [6], lascia la fascia di Sindaco di Carbonia a Renato Mistroni), Laconi partecipa alla Commissione dei 75 nonché ai lavori del comitato di redazione, detto «dei 18», che materialmente ha il compito di tradurre le discussioni, svolte nell’Assemblea e nelle tre sottocommissioni, in puntuali enunciati normativi. Tale esperienza – sottolinea a giusto titolo Di Felice – rappresenta «la chiave di volta del suo percorso politico e intellettuale» [7]. Laconi contribuisce in maniera significativa e originale all’elaborazione della Costituzione italiana, facendosi portatore di idee innovative sul regionalismo e sulle tematiche autonomistiche, rivelatesi anticipatrici anche rispetto alla cultura politica del proprio partito. Dopo l’invito rivolto nell’aprile 1945 da Palmiro Togliatti ai «compagni sardi […] a comprendere che non devono avere nessuna paura di essere loro gli autonomisti, perché l’autonomia è una rivendicazione democratica rispondente agli interessi del popolo sardo» [8], Laconi è tra i pochi comunisti insulari a raccogliere l’esortazione del segretario nazionale, nonostante la posizione ferma e indifferente del Pci isolano. La linea autonomista del Pci diventa netta in seguito all’estromissione dei comunisti dalla coalizione di governo nazionale: nel 1947, sostiene Sircana, il partito diventa «paladino del decentramento regionale, considerandolo un fattore di equilibrio democratico perché avrebbe assicurato all’opposizione la possibilità di accesso alla direzione politica di ampie zone dell’Italia» [9]. La svolta in Sardegna è sancita dal II Convegno regionale dei quadri, tenutosi a Cagliari il 25 e 26 aprile 1947, in presenza del segretario Togliatti. È in questa fase che all’Assemblea costituente Laconi sostiene l’«apertura verso l’ordinamento regionale, purché non di tipo federale né omogeneo su tutto il territorio nazionale; differenziazioni tra le regioni; ostilità verso la frammentazione della potestà legislativa; ampia autonomia a Sardegna, Sicilia e regioni di confine con potestà legislativa primaria su alcune materie, escludendo in primo luogo quelle che avrebbero potuto essere oggetto di riforme strutturali; potestà legislativa più circoscritta alle altre regioni; assemblee regionali costituite nel rispetto della piena sovranità popolare […] contributo dello Stato allo sviluppo del Mezzogiorno attraverso la pianificazione economica» [1]0. Su quest’ultimo punto, a partire dal «Congresso del popolo sardo» nel maggio 1950, Laconi e i comunisti insulari si batteranno costantemente al fine di ottenere l’approvazione del «Piano di Rinascita economica e sociale della Sardegna», previsto dall’articolo 13 dello Statuto regionale, che avverrà soltanto nel 1962.

Per comprendere la rilevanza innovatrice del contributo di Togliatti e di Laconi al regionalismo e all’autonomismo sardo del Partito comunista – problematica alla quale l’opera di Maria Luisa Di Felice fornisce un contributo essenziale – può risultare utile la comparazione con la federazione còrsa del Partito comunista francese [11]. Nell’isola, situata a pochi chilometri a nord della Gallura, la distanza sul tema dell’autonomia è notevole (d’altronde, mentre lo statuto della Regione autonoma della Sardegna viene approvato nel 1948, bisognerà attendere il 1982 per il primo Statut particulier della Corsica). All’epoca della svolta autonomista del Pci sardo, la federazione comunista còrsa è manifestamente centralista e giacobina. L’organizzazione partitica ha raggiunto il suo apice, dopo essersi rafforzata esponenzialmente proprio negli anni della clandestinità e della resistenza, combattendo le pretese irredentiste e l’occupazione fascista dal novembre 1942 al settembre 1943. Tuttavia il Pcf còrso, rispetto alle federazioni del continente, presenta dei caratteri di originalità: l’isola viene definita una «piccola patria» all’interno della «grande patria» francese e, secondo la lettura storica dei comunisti insulari, il popolo còrso – mai sottomesso né all’invasione pisana, né a quella genovese e nemmeno alla Francia monarchica – con la rivoluzione del 1789 ha scelto di propria iniziativa di diventare repubblicano e francese.

Chiusa la breve parentesi comparativa, occorre ricordare che, in seguito all’approvazione della Costituzione italiana, Renzo Laconi si divide tra l’impegno di deputato (carica che ricopre senza interruzioni dalla I alla IV legislatura) e gli incarichi regionali. La sua attività politica è intensa e allo stesso tempo tormentata, segnata dall’aspra dialettica con Velio Spano, rivoluzionario di professione durante la clandestinità e segretario regionale del Pci nel decennio 1947-1957 [12]. Nel mese di dicembre del 1957 Laconi gli succede alla carica di segretario e resterà alla guida del Comitato regionale sardo fino al novembre 1963, periodo ampiamente documentato e descritto nei capitoli conclusivi della biografia. Laconi scompare prematuramente a Catania all’età di 51 anni, nel 1967.

Con un lavoro imponente, curato e approfondito, Maria Luisa Di Felice mette a disposizione degli studiosi quest’opera che rappresenta il «degno traguardo di numerosi anni di studio»13. La lettura non sempre è agevole, il testo a tratti risulta fin troppo scrupoloso, con dettagli e precisazioni talvolta evitabili. Ma complessivamente si tratta di un libro indispensabile non solo per la conoscenza biografica di Laconi, ma anche per approfondire la storia politica della Sardegna e del Pci sardo, nonché la questione del regionalismo e dell’autonomismo che ha profondamente marcato la storia insulare e nazionale.

Notas

1. LACONI, Renzo, Per la Costituzione. Scritti e discorsi, a cura di Maria Luisa DI FELICE, Roma, Carocci, 2010; DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi, la formazione intellettuale e politica. Dagli anni giovanili alla nascita della Repubblica, Roma, Carocci, 2011.

2. DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale, Roma, Carocci, 2019, p. 17.

3. LAI, Gianna (a cura di), La biblioteca di Renzo Laconi, Cagliari, Cuec, 2020.

4. LACONI, Renzo, Parlamento e Costituzione, a cura di Enrico BERLINGUER, Gerardo CHIAROMONTE, Roma, Ed. Riuniti, 1969; LACONI, Renzo, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi sulla Sardegna, 1945-1967, a cura e con introduzione di Umberto CARDIA, Cagliari, Edes, 1988; SCANO, Pier Sandro, PODDA, Giuseppe (a cura di), Renzo Laconi, Un’idea di Sardegna, Cagliari, Aipsa, 1998.

5. DI FELICE, Maria Luisa, «Il Gramsci di Renzo Laconi», in Studi e ricerche, I, 2008, pp. 213-228.

6. DI FELICE, Maria Luisa, «Fare politica: Renzo Laconi, i minatori e la lezione di Gramsci», in Le Carte e la Storia, 1/2015, pp. 99-116.

7. DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale, cit., p. 15.

8. Ibidem, p. 97.

9. SIRCANA, Giuseppe, s.v. «Renzo Laconi», in Dizionario biografico degli italiani, vol. 63, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana 2004.

10. DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale, cit., p. 159.

11. Sul tema: DI STEFANO, Lorenzo, Le Pcf en Corse et le Pci en Sardaigne, 1920-1991: implantation militante, histoire électorale, identité insulaire, tesi di dottorato (in corso di redazione dal settembre 2018), UMR CNRS 6240 LISA, Università di Corsica.

12. Sul confronto fra Spano e Laconi: MATTEI, Sebastian, «Autonomia e rinascita. Velio Spano e Renzo Laconi nella Sardegna del secondo dopoguerra», in Studi storici, LIX, 2/2018, pp. 493-523. Su Spano: MATTONE, Antonello, Velio Spano. Vita di un rivoluzionario di professione, Cagliari, Della Torre, 1978; HÖBEL, Alexander, «Velio Spano», in Dizionario biografico degli italiani, Vol. 93, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2018; nonché il libro di memorie: GALLICO SPANO, Nadia, Mabrùk: ricordi di un’inguaribile ottimista, Cagliari, AM&D, 2005.

13. MINNUCCI, Virginia, «Recensione a DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale», in Archivio storico italiano, 2020, pp. 666-667.

Lorenzo DI STEFANO (1989) È dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Corsica “Pasquale Paoli” con una tesi intitolata Le Pcf en Corse et le Pci en Sardaigne, 1920-1991: implantation militante, histoire électorale, identité insulaire. È stato operatore di servizio civile presso la Fondazione Gramsci di Roma, dove si è occupato della catalogazione del fondo librario di Paolo Spriano. Nel 2016 ha conseguito con lode la laurea magistrale in Scienze politiche presso l’Università degli studi di Teramo.


DI FELICE, Maria Luisa. Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale. Roma: Carocci, 2019, 685p. Resenha de: DI STEFANO, Lorenzo. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.45, n.1, mar. 2021. Acessar publicação original [IF].

La cultura giuridica dell’antica Grecia. Legge/politica/giustizia | Emanuele Stolfi

La cultura giuridica dell’antica Grecia è un libro portatore di novità nel vasto panorama di studi sul diritto greco. Esso si inserisce, infatti, come voce nuova all’interno di un dibattito assai vivo e produttivo, il quale, soprattutto a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ha portato ad un rinnovamento e ad un progressivo ampliamento delle prospettive e delle modalità di interpretazione dell’esperienza giuridica ellenica. In questo orizzonte, il contributo di Stolfi si presenta come l’esito maturo di una riflessione di ampio respiro, fondata sui temi e sui metodi della storia dei diritti antichi, ma che attinge anche a categorie storico-antropologiche. L’argomento e il taglio dell’opera sono visibili già nel titolo: studiare la cultura giuridica dei Greci implica lo scostamento da un esame di complessi normativi, istituti e procedure, per indagare l’esperienza giuridica della civiltà greca individuando le «forme di pensiero razionale» (p. 63) che l’hanno costituita.

Il volume si articola in dieci capitoli, preceduti da una breve ma importante Premessa (pp. 11-12), finalizzata all’illustrazione del senso di un lavoro che si caratterizza per la sua peculiarità entro la contemporanea letteratura di studi giuridici. Questa peculiarità risiede nella scelta, esplicitata da Stolfi, di percorrere una strada diversa rispetto a quella, ampiamente esplorata, di una «trattazione esaustiva» (p. 11) e manualistica delle leggi e degli istituti che fanno parte dell’esperienza giuridica greca, rivolgendosi, invece, alla «trama teorica» (ibidem) inerente alla legge e alla giustizia elaborata dalla civiltà greca e della quale le testimonianze letterarie sono espressione. L’Autore propone, infatti, «un itinerario […] attorno alle peculiarità del lessico, dell’immaginario concettuale e dei grandi quesiti che, dalle società omeriche sino all’avvento macedone, possiamo individuare in relazione al diritto» (p. 11): lo studio viene svolto a partire dall’analisi delle occorrenze e dei significati assunti dai termini afferenti la vita giuridica, per approdare alla costruzione di una visione d’insieme, seppur complessa e problematica. Centro dell’indagine non è il volto tecnico e procedurale del diritto, ma «il nesso con la dimensione politica e le forme mentali proprie del contesto storico» (pp. 11-12), e dunque il pensiero sotteso ad esso – che è pensiero mitico, filosofico, religioso, politico, e che costituisce il contenuto più puramente culturale del fenomeno giuridico greco. Leia Mais

L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea – BELLASSAI (BC)

BELLASSAI, Sandro. L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea. Roma: Carocci, 2012. 181p. Resenha de: DI TONTO, Giuseppe. Il Bollettino di Clio, n.9, p.79-82, feb., 2018.

Che cosa hanno in comune le immagini di Mussolini in posa atletica, proposte dall’Istituto Luce durante la “Battaglia del grano”, con le foto dei corpi maschili dagli addominali perfetti che la pubblicità moderna ci propina? Apparentemente nulla o quasi. Entrambe, comunque, segnalano alcune tappe della rappresentazione dell’identità maschile nella nostra società e con esse il concetto di virilità, che va a pieno titolo inserito nello scaffale tematico della storia di genere letta al maschile.

A questo tema lo storico Sandro Bellassai ha dedicato, alcuni anni fa, esattamente nel 2012, una delle sue ricerche sulla storia di genere al maschile nel libro L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea, Roma 2012, che a noi pare, se pur a distanza di qualche anno dalla sua uscita, ancora di fondamentale importanza per quanti volessero farsi un’idea più approfondita su questo problema della storiografia di genere.

Il concetto di virilismo, inteso nella definizione del Grande Dizionario della Lingua Italiana di S. Battaglia come “l’esasperazione di qualità, comportamenti virili o tradizionalmente ritenuti tali” viene analizzato da Bellassai nel suo sviluppo storico per periodi a partire dal secolo XIX per arrivare fino ai nostri giorni.

Lo scopo del libro, esplicitamente dichiarato dall’autore, è quello di delineare una cornice interpretativa di “una storia del virilismo come ideale politico (dove questo aggettivo non si riferisce letteralmente solo al sistema politico, ma a dinamiche sociali e culturali che definiscono limiti e possibilità della libertà e del potere nelle relazioni fra uomini e donne). Come ideale politico astratto, in particolare, che ha segnato profondamente per oltre un secolo linguaggi, immagini, comportamenti di soggetti maschili concreti.”(p.9)  L’approccio proposto privilegia quindi, in modo particolare, la dimensione simbolica della mascolinità e le rappresentazioni che ad essa possono essere collegate, cercando di mettere in rilievo alcuni aspetti del loro uso politico nella storia italiana contemporanea.

L’analisi prende le mosse dalla società della fine del secolo XIX, con le sue radicali trasformazioni economiche sociali e culturali, quando sembrava “prefigurarsi una decadenza dell’assoluta sicurezza maschile nel pubblico e nel privato” (p.17). La patriarcale centralità della figura maschile che fino ad allora aveva dominato indiscussa, entrava in crisi e con essa le gerarchie di genere. In un‘epoca in cui “le élite e la sempre più rilevante opinione pubblica avevano un carattere prevalentemente maschile, il crescente protagonismo – anche sociale e politico – delle donne venne percepito come una minaccia pericolosissima per gli assetti sociali del potere, dunque della supremazia degli uomini in quanto genere.” (p.17)  La risposta a questo indebolimento del ruolo maschile, a livello individuale e collettivo, fu il rilancio della virilità nei suoi caratteri concreti e simbolici in contrapposizione alla modernità dilagante e ai suoi effetti.

Bellassai sottolinea a più riprese come sul piano delle relazioni di genere la prima e più potente incarnazione di questa contrapposizione al tradizionale dominio dell’uomo era la donna, la “donna nuova” che dalla seconda metà dell’Ottocento era entrata nella sfera pubblica con l’accesso all’istruzione universitaria, alle professioni, al mondo della cultura e del lavoro. I tratti misogini della polemica maschile non si limitavano a riproporre “l’antico adagio denigratorio delle donne… (ma rappresentavano) …la reazione maschile alle conseguenze di genere di una modernizzazione che toglieva l’aurea di sacralità agli equilibri di potere consolidati” (p.45). La misoginia si affermava quindi come “strumento retorico mediante il quale si è perseguita per decenni una restaurazione delle identità e dei ruoli di genere tradizionali”(p.45) e trovava spazio “nei più svariati ambiti della cultura, della scienza e dell’opinione pubblica.”(p.46) Interessanti gli esempi riportati dall’autore: dallo stereotipo della femme fatale del Decadentismo alle affermazioni di antropologi e sociologi come Lombroso e Mantegazza sulle degenerazioni femminili e sui rischi di feminilizzazione maschile. Esempi di una misoginia che aveva lo scopo di fissare le differenze naturali in termini gerarchici tra i due sessi e cercare una strada che “esaltasse e rigenerasse i tratti considerati più marcati e specifici dell’identità maschile” (pag.53) esprimendo in questo modo un antimodernismo che sembrava già mostrare le sue debolezze rispetto alle grandi trasformazioni che il nuovo secolo proponeva.

La seconda fase presa in considerazione dall’autore è quella del ventennio fascista considerata “sul piano della storia nazionale, certamente il più organico tentativo di imporre dall’alto del potere statale una via autoritaria alla modernità” (pag.53) ma trattavasi pur sempre di una modernizzazione autoritaria che distingueva tra una buona e una cattiva modernità ed esprimeva un antimodernismo che rappresentava “un setaccio retorico che aveva il compito di purificare il futuro della nazione degli elementi inconciliabili con la riaffermazione di un ordine sociale rigidamente gerarchico.(p.64)”  Questo ordine gerarchico avrebbero trovato una sua espressione anche nel virilismo e nei rapporti di genere. Tra le manifestazioni della retorica fascista di questo rinnovato virilismo Bellassai annovera l’esaltazione della popolazione rurale e la celebrazione del contadino “come quintessenza di mascolinità naturale o selvatica” (p.73). A questa retorica si affiancava quella della famiglia patriarcale contadina, esempio di “un ordine sociale e di genere tradizionale, premoderno, rigidamente gerarchico” che doveva difendere la nuova civiltà fascista “dalle degenerazioni della civiltà contemporanea, tra le quali si dovevano di sicuro contare il desiderio delle giovani donne di una vita migliore e di una maggiore cura di sé” e la ricerca “di nuove forme di svago e socializzazione che favorivano la promiscuità fra i sessi e indebolivano il sentimento religioso e, ovviamente, il virus della denatalità che dalle città già infette minacciava costantemente di propagarsi alle virilissime aree rurali” (p.74)

Altro tema di interesse nell’analisi del virilismo era il fascino del rischio e della vita avventurosa riproposti anche dalla letteratura popolare “ispirata alle avventure in mondi selvaggi e misteriosi, compresi i bassifondi urbani, o all’esistenza solitaria di uomini forti a contatto con la natura (dai romanzi coloniali al mito letterario del West, dalla prima science fiction al genere poliziesco” (p.75). Era l’uomo della classe media urbana che si serviva di quel mito come “compensazione fantastica di una condizione esistenziale che egli percepiva deleteria per la propria identità di maschio” (p.75).

Non meno interessanti sono le osservazioni dell’autore a proposito della posizione sull’intellettualismo inteso dal fascismo come una sorta di “malattia dell’intelligenza ed essendo quest’ultima, nella concezione tradizionale, un attributo precipuamente maschile, l’intellettualismo era una malattia della mascolinità. Una ‘intelligenza senza virilità’  appunto” (p.77) alla quale bisognava opporre gli ideali di azione, di impulsività e di giovinezza. Ma è ancora sulla donna e sulla sua subalternità che si concentrava la costruzione dell’immagine maschile in questo periodo. Il problema era la ”trasformazione profonda ed epocale, e non certo trascurabile, dell’identità femminile”. Come scriveva il famoso scrittore Dino Segre, meglio noto con lo pseudonimo di Pitigrilli, in un suo romanzo di quell’epoca “Le signorine di una volta simulavano l’ingenuità e la purezza, la trasparenza spirituale e l’impermeabilità materiale; facevano mostra di non capire mai. Quelle di oggi, invece dell’ingenuità ostentano malizia, mostrando di scoprire intrighi oscuri nelle vicende più limpide, ambiguità misteriose nelle parole più oneste, raffinate impurità nelle pratiche più francescane”. (p.84)

Alla diffusione della cultura di massa americana, considerata dal fascismo responsabile della gran parte delle degenerazioni della “donna moderna”, il regime rispondeva con appelli e campagne contro “la diffusione della moda indecorosa di origine straniera, contro i balli moderni, contro i nuovi modelli di donne magre, disinvolte, decise a conquistare un accesso più ampio al lavoro extra domestico e al tempo libero” e al tempo stesso si varavano misure e iniziative “per sostenere l’esclusiva ‘missione di madre’ di ogni donna” sostenendo la pubblicazione di “romanzi, opere moraleggianti e articoli su ogni tipo di periodici per esaltare la donna moglie e madre e per spegnere sul nascere ogni focolaio della terribile infezione modernista”.(p.84). Di altrettanto interesse i paragrafi dedicati dall’autore alla retorica fascista per combatte i fenomeni di denatalità e propagandare la libertà sessuale lasciata agli uomini “come una delle principali attrattive dello scenario coloniale(p.91). Nell’analisi della quarta fase di questa storia del virilismo in Italia, l’autore, sottolineando i grandi cambiamenti economici,  sociali e culturali degli anni ’50 e ’60 in Italia, pone in relazione tali trasformazioni e le conseguenze che esse ebbero “nell’assetto delle relazioni di genere: sensibili cambiamenti si riscontrano ad esempio, nella rappresentazione dei ruoli femminili anche nell’ambito domestico, nella progressiva affermazione di una morale sessuale e di atteggiamenti meno oppressivi sul piano del senso comune diffuso, nel riconoscimento di nuovi diritti civili e sociali delle donne”. (p.97)

Pur continuando a permanere differenze di genere che fanno parlare Bellassai di un assetto asimmetrico del potere e delle gerarchie di genere, emergevano novità rispetto al recente passato che, tuttavia, non consentivano certo di invocare in tempi brevi “la scomparsa delle disuguaglianze fra uomini e donne” (p.98). Ciò nonostante si chiudeva, secondo l’autore, “definitivamente una pluridecennale fase storica in cui i modelli di mascolinità ispirati al virilismo nella sua declinazione più autoritaria, gerarchica e violenta avevano detenuto una notevole egemonia nell’immaginario collettivo. Ma l’idea che gerarchia, forza e ordine fossero indispensabili alla virilità collettiva, e che quest’ultima fosse a sua volta un pilastro irrinunciabile del naturale equilibrio sociale, certamente non scomparve”. (p.99)

Molti gli esempi prodotti a conferma di questa tesi in particolare nell’ambito della comunicazione pubblicitaria relativa ai nuovi beni di consumo. Il miracolo economico produceva la percezione di essere usciti dalla miseria dopo il secondo conflitto mondiale. Le aree urbane delle città industriali del Nord furono investite da fenomeni di immigrazione dalle campagne e soprattutto dal Sud e nelle città del benessere gli “immigrati potevano accantonare i costumi tradizionali”. (p.105).

Così Giorgio Bocca, riportato da Bellassai, nel suo libro La scoperta dell’Italia del 1963 descriveva il fenomeno che investiva anche le identità di genere “scomparsi o tenuti in sordina i temi maschili, aggressivi e rudi, inizia il declino del gallismo e di quella sua manifestazione che è il pappagallismo [ …] Per effetto della cultura di massa il Bel paese si ingentilisce e si svirilizza” (p. 104). Nuovi modi di comportamento si affermavano tra le donne: con gli acquisti di elettrodomestici per la casa ma anche di prodotti di consumo voluttuario. Bellassai fa ancora parlare Giorgio Bocca dallo stesso volume prima citato “Nella civiltà dei consumi, l’universo del confort appare affidato alle donne, sono esse a decidere gli acquisti e i primi ad esserne persuasi sono i venditori, prova ne sia che la pubblicità va ai giornali femminili nella misura del settanta per cento, più del doppio di quanta ne vada ai giornali maschili-femminili” (p.106). Tuttavia questo fenomeno di svirilizzazione, contrariamente alle epoche passate, non appariva a tutto il mondo maschile come un fenomeno negativo “era l’inizio di un’epoca in cui il tradizionale virilismo si avviava a diventare una delle opzioni in campo, perdendo quindi il monopolio identitario che riteneva spettargli di diritto [] l’inizio della fine del virilismo stesso quale aveva dominato la dimensione dell’identità maschile per quasi un secolo” (p.110). Arrivando a parlare degli ultimi decenni del XX secolo e degli inizi del nuovo secolo il giudizio dell’autore si fa più netto a favore della tesi secondo la quale “la crisi della prospettiva maschile tocca il suo apice nel decennio settanta per lasciare spazio a partire dalla fine del millennio, al tentativo di rilanciare un ordine culturale ispirato alla subordinazione delle donne nel pubblico e nel privato, alla riproposta di una polarizzazione identitaria del maschile e del femminile, al risorgere di pulsioni antiegualitarie, xenofobe o apertamente razziste” (p.123).

I ragionamenti fin qui condotti dall’autore portano alla conclusione che il modello virilista è stato largamente screditato ma non si può abbassare la guardia e considerare la sua storia conclusa. Basta pensare ai numerosissimi episodi di violenza sulle donne di cui veniamo quotidianamente a conoscenza dalle cronache e che riguardano ambienti e classi sociali diverse. E da questa conclusione può partire un’ultima riflessione sulla funzione che la scuola può e deve svolgere. Siamo ancora lontani dall’idea di immaginare rapporti di genere diversi. Il libro di Bellassai ci aiuta a muovere i passi, donne e uomini, in quella direzione, semmai partendo dalla scuola e dall’insegnamento della storia anche nell’ottica della storia di genere.

Giuseppe Di Tonto

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Storia globale. Un’introduzione – CONRAD (BC)

CONRAD, Sebastian. Storia globale. Un’introduzione. Roma: Carocci, 2015. 210p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.5, p.55-60, giu., 2017.

Non considerata a rigore tra i segnali paratestuali, l’introduzione assolve a diversi compiti importanti: indicare le ragioni della trattazione del tema in oggetto; presentare il tema, esplicitando, se necessario, questioni, genesi, elementi; ricapitolarne riassuntivamente il contenuto.

Posta sulla soglia del testo, l’introduzione ne costituisce, dunque, la necessaria porta di ingresso: una mappa per la comprensione anticipata del territorio che vogliamo esplorare. In questo caso quello della storia globale: il libro di S.Conrad ci consente di averne una visionecomplessiva e articolata, capace di farci conoscereil tema ancora prima di averlo attraversatoconcretamente e utile proprio per esserne unaguida preventivamente efficace.

Un’introduzione, appunto.

Analizziamo la mappa/introduzione alla storia globale: ci mostra sostanzialmente tre luoghi e consente di rispondere a tre domande:  La sua genesi: quando e com’ è nata la storia globale?  Definizione e contenuti: che cosa è e di cosa si occupa la storia globale?  Gli aspetti critici: quali le controversie e le obiezioni più frequenti?  Cominciamo allora l’esplorazione, partendo dalla definizione di storia globale :  “A un primo approccio, ancora molto generale, la storia globale definisce una forma di analisi storica nella quale fenomeni, eventi e processi vengono inquadrati in contesti globali. Con ciò non si intende necessariamente che l’indagine venga estesa all’intero globo terrestre; per molti temi i punti di riferimento saranno più limitati. Ciò significa anche che la maggior parte degli approcci di storia globale non cerca di sostituire l’affermato paradigma storico-nazionale con un’ astratta totalità del “mondo”, cioè di scrivere una storia totale del globo. Spesso si tratta più facilmente della storiografia di aree limitate, quindi non “globali”, ma piuttosto con una consapevolezza delle relazioni globali”.1  La storia globale è dunque innanzi tutto una prospettiva2, che pone in primo piano altre dimensioni, altre domande attraverso le quali traguardare il passato. Ma è al tempo stesso un tema specifico del discorso storico: per una contestualizzazione globale è spesso importante rendere conto del grado e del carattere dei collegamenti delle reti globali.3

La genesi

Quando si chiede a uno storico/a una definizione, (di solito) la riposta è il racconto di una storia: la comprensione di un fatto è custodita nella sua genesi; nei contesti e/o nei processi dentro i quali esso si è manifestato.

S.Conrad dedica i capitoli iniziali della suaintroduzione alla storia della storia globale, a partire dall’antichità, per mostrare come i concetti di “mondo” e globalità siano storicamente mutevoli e diversi a seconda dell’epoca e dei luoghi. E mette a fuoco un elemento decisivo:

“ Come qualsiasi altra forma di storiografia, anche la storia globale è sempre plasmata dalle sue condizioni di nascita e dal contesto sociale concreto nel quale viene scritta. Una prospettiva di storia globale è, a questo riguardo, prima di tutto una specifica lettura delle relazioni globali, e non significa affatto che questa visione debba anche essere capita o addirittura accettata ovunque nel mondo. Così come i testi scolastici tedeschi, francesi o polacchi si possono differenziare (nei loro interessi tematici, in ciò che omettono, ma anche nelle interpretazioni degli eventi che trattano), altrettanto le rappresentazioni della storia mondiale possono variare talvolta in maniera sostanziale.

(…) Singoli temi, ad esempio lo schiavismo, mutano il loro significato sociale in maniera basilare, a seconda se esso venga preso in considerazione dalla prospettiva dell’Angola o della Nigeria, del Brasile o di Cuba, ma anche della Francia o dell’ Inghilterra. E anche il concetto di mondo rispettivamente rilevante non è affatto omogeneo in differenti società e nazioni.

Poiché la storia globale non è un soggetto naturalmente dato ma rappresenta una prospettiva, è tanto più importante considerare da dove essa viene osservata.” (p. 45)

Tre sono gli approcci che dagli anni Novanta del secolo scorso caratterizzano la storia globale:  -l’analisi di connessioni transnazionali(senza un esplicito riferimento al”mondo”): il riferimento è alla storiacomparata (ma non solo) e all’attenzioneprivilegiata alle macroregioni (OceanoIndiano, Oceano Atlantico, il continenteeuropeo nel suo complesso…); -la storia delle civiltà; -la pluralizzazione della storia globale emondiale: “conviene osservare la storia globale in una prospettiva di storia globale, per assicurarsi della relatività e della posizionalità di ogni lettura del passato globale.”(p. 63)

I contenuti

a.Gli ambiti

S.Conrad individua quattro ambiti didiscussione, all’interno dei quali attualmente gli storici riflettono sulla dinamica del mondo moderno:  -la teoria del sistema-mondo: dall’approccioteorico elaborato da I. Wallerstein negli anni Settanta alle critiche successive circa la possibilità del suo utilizzo ancora oggi: superamento della cornice analitica dello Stato nazionale, uso del concetto dell’incorporazione graduale in un contesto dominato dall’Europa, attenzione ai cambiamenti strutturali di natura macrostorica;  -i postcolonial studies per una lettura noneurocentrica del mondo moderno. Dopo aver messo in luce alcuni elementi critici della prospettiva postcoloniale, l’autore ne sottolinea tre aspetti ancora significativi: l’esistenza di spazi di ibridazione, acquisizioni locali, negoziazioni in condizioni coloniali accanto alla diffusione e all’adattamento come processi di transfer culturali di storia mondiale; l’attenzione alle dipendenze, interferenze, connessioni, superando l’idea che nazione e civilizzazione siano da considerare unità “naturali” della storia, contro una storiografia mondiale eurocentrica che legge lo sviluppo europeo/occidentale slegato dal resto del mondo; la considerazione che i processi di integrazione globale si realizzano entro rapporti e strutture di dominio;  -le analisi delle reti: l’epoca degli Statinazionali, basati sul controllo di territori pensati come superfici in relazione tra di loro, è stata sostituita dall’epoca della connessione (merci, informazioni, uomini e donne);  -il concetto di multiple modernities: al centrodell’attenzione la pluralizzazione delle linee di sviluppo della modernità e il ridimensionamento dell’assioma della secolarizzazione che avrebbe accompagnato ovunque i processi di modernizzazione.

Diversi, secondo Conrad, sono gli ambiti storiografici rivisitati in prospettiva di storia globale dalla storia economica a quella sociale, da quella geopolitica alla storia culturale e della vita quotidiana, per citarne alcuni. L’autore indica sei campi nei quali oggi la ricerca è particolarmente attiva: merci globali; storia degli oceani; la migrazione; gli imperi; la nazione; la storia dell’ambiente.

b.Le problematiche di riferimento

Quali le principali questioni della storiaglobale? Conrad le individua a partire dalle seguenti domande:  “Come si può scrivere una storia del mondo e delle sue connessioni che non sia eurocentrica e la cui logica non sia prestrutturata attraverso l’uso di concetti occidentali? Da quando si può propriamente parlare di un contesto globale, e di una storia della globalizzazione? Ha corso la storia del mondo sempre verso l’egemonia dell”’Occidente”, come essa si è manifestata nel XIX e XX secolo, e quali erano le cause di questa divergenza tra Europa e Asia? Infine, c’è stato un potenziale di modernizzazione anche al di fuori dell”’Occidente”, e quale significato hanno avuto le rispettive risorse culturali di società premoderne per la transizione a un mondo moderno globalizzato? “ (p. 95)  Sono questioni importanti: potrebbero (dovrebbero?) essere domande guida anche per la storia generale insegnata. Vediamole nel dettaglio:  Eurocentrismo  Per molto tempo nella storiografia mondiale l’Europa (e la master narrative eurocentrica) era vista come l’unico soggetto attivo.

Nell’assunzione critica dell’eurocentrismo si tratta di trovare un equilibrio tra il superamento di questa impostazione e la non marginalizzazione dell’Europa, distinguendo tra eurocentrismo come dinamica del processo storico (incomprensibile senza il riferimento all’egemonia dell’Europa occidentale e più tardi degli Stati Uniti, in un processo che non fu lineare e che ebbe inizio solo nel XIX secolo) ed eurocentrismo come prospettiva: presunti concetti analitici come nazione, rivoluzione, società o progresso trasformarono un’esperienza parziale, quella europea, in una lingua teorica universalistica, che prestruttura già l’interpretazione dei rispettivi passati locali.

Periodizzazione

Anche qui ha senso distinguere in modo euristico tra globalizzazione come processo e globalizzazione come prospettiva. In merito al primo punto: la maggior parte degli storici pone l’inizio di una connessione globale al principio del XVI secolo. La seconda possibile cesura di questa storia cade nel XIX secolo: fino ad allora il mondo era ancora un mondo delle regioni, strettamente unito da molteplici reti (reti commerciali e correnti migratorie così come comunanze culturali). Ma solo dalla metà del XIX secolo si giunse a una connessione sistematica, all’integrazione globale delle società, in ragione della sovrapposizione di «due macroprocessi reciprocamente dipendenti» (Charles Tilly) del mondo moderno: la formazione e la diffusione del sistema degli Stati nazionali e la creazione di un meccanismo universale di mercati e di accumulazione di capitale.

Si può parlare di una nuova fase della globalizzazione dal 1990? Conrad mette in discussione questa ipotesi, sottolineando come, in generale, una storia della globalizzazione non dovrebbe essere una narrazione lineare della sempre più grande connessione del mondo.

Altro aspetto fondamentale: la globalizzazione come prospettiva. Nel XIX secolo la globalizzazione ha presupposto la diffusione di norme euro-americane, in condizioni di colonialismo e di estensione universale dello Stato nazionale. All’interno di questo paradigma le differenze culturali erano state gerarchizzate e disposte in scala temporale: la connessione del modernizzazione complessiva e di un’omogeneizzazione graduale. Dal tardo XX secolo, sostiene Dirlik, ciò è mutato: la differenza culturale non appariva più come arretratezza, ma era concepita come alternativa a concetti eurocentrici o, meglio, universali. La globalizzazione e l’insistenza sull’ autonomia culturale andavano di pari passo. E ancora: l’aumento d’interazione globale addirittura rafforzava e produceva specificità culturali. Invece di una temporalizzazione della differenza, nel senso della costruzione di diversi gradi di sviluppo, il mondo globale del XXI secolo ha vissuto addirittura uno spatial turn. Progetti di modernità culturalmente diversi e concorrenti potevano dunque essere pensati come esistenti fianco a fianco contemporaneamente.

Asia e Europa

Perché l’Europa? In che cosa consisteva il Sonderweg (“la via speciale”) europeo? È davvero esistito?  Nella lunga discussione su questo tema, si possono distinguere essenzialmente tre posizioni. La prima rimandava a Marx e poneva in primo piano la questione dei modi di produzione. In opposizione a ciò, gli storici che si orientavano all’opera di Weber insistevano sui fattori culturali e istituzionali. Sia l’approccio classicamente marxista che quello weberiano privilegiano, secondo Conrand, modelli esplicativi endogeni e si limitano a una narrativa che spiega l’ascesa dell’Europa da sé stessa, internalisticamente.

A partire dai tardi anni Novanta è stata pubblicata una serie di lavori che hanno spostato il terreno sul quale era stata condotta questa discussione in maniera sostanziale. Conrad passa in rassegna i contributi revisionistici della cosiddetta California School (l’espressione designa storici come Pomeranz, Wong, Frank) che hanno proposto una spiegazione della dinamica dell’economia inglese non più endogena e non basata su lunghe continuità culturali e istituzionali. Al centro di questa lettura la prospettiva comparata, lo sguardo dalla Cina, l’accentuazione di interazioni transregionali, l’attenzione alle origini politiche della rivoluzione industriale e l’enfatizzazione di fattori casualmente coincidenti (conjunctural foctors).

Early modernities

In generale si tratta di capire quale significato possa essere attribuito, nel passaggio al mondo moderno, alle diverse risorse culturali di società non occidentali.

Gli approcci più interessanti della early modernity si riferiscono a un periodo dell’età moderna, che durò all’incirca dal 1450 al 1800, un’epoca durante la quale si costituirono le forze e le strutture che produssero trasformazioni in collegamento tra di loro, ma per nulla identiche, che poi sfociarono nel mondo del XIX secolo: solo nell’ambito dell’integrazione imperialistica e capitalistica del mondo dopo il 1800 esse furono gradualmente incorporate negli ampi processi che plasmarono il mondo moderno.

La più estesa argomentazione della early modernity è stata sinora formulata per la Cina e in generale per altri paesi asiatici (India e Giappone)  Le critiche  I progetti di storia mondiale e globale non sono stati esenti da critiche e obiezioni, anche se le riserve, in fondo, non hanno messo in discussione in modo radicale tale approccio. Nell’illustrare i principali limiti della ricerca di storia globale, l’autore vuole dare un contributo costruttivo per l’approfondimento di questa prospettiva.

La riserva metodologica

Gli storici globali non si basano su fonti primarie ma sono vincolati del tutto alla letteratura secondaria. Del resto questa è anche la situazione delle opere generali di storia nazionale che si basano su una visione d’insieme dei risultati di ricerche “locali”.

La strumentazione concettuale

Le nozioni/concetti con cui si scrive la storia delle connessioni globali sono quelle/i dela  “zavorra” eurocentrica: feudalesimo, nazione, religione…? Non c’è il rischio di omologare concettualmente situazioni diverse, e di appiattire differenze e particolarità? Il concetto di globalizzazione rischia di essere un macroconcetto poco utilizzabile in contesti specifici che presentano dinamiche diverse.

La finalizzazione teleologica  Le prospettive storico-globali corrono il rischio di costruire una genealogia dell’attuale processo di globalizzazione come svolgimento quasi inevitabile e naturale.

La storia e la connessione globale limitate alle sole relazioni con l’Europa

L’esempio è quello della storia dell’India che sarebbe stata liberata dalla stagnazione solo con il colonialismo, mentre già in epoca precoloniale intratteneva rapporti economici e culturali importanti con l’Africa, l’area araba e il Sud-Est asiatico.

La ricerca storica globale secondo Conrad deve affrontare una serie di questioni e evitare alcuni pericoli per poter sviluppare un proficuo dialogo critico al suo interno: il rischio di sostituire l’eurocentrismo con il sinocentrismo (come nel libro ReOrient di Frank); la sopravvalutazione dei fattori esterni, assegnando particolare valore al contesto spaziale nella spiegazione di eventi e processi; la sopravvalutazione delle connessioni, dei punti di contatto trascurando le particolarità; la feticizzazione della mobilità; la marginalizzazione degli approcci che soprattutto negli anni Ottanta hanno messo in evidenza l’importanza delle dimensioni storico-culturali e di storia del genere del passato; la tentazione di dimenticare che la storia globale è pur sempre una prospettiva per gettare un nuovo sguardo sul passato, non semplicemente un oggetto che esiste senza problemi.

Conrand insiste, come abbiamo già detto sulla pluralizzazione della storia globale e la “posizionalità” di ogni lettura del passato globale. E cita lo studioso della letteratura S. Krishan che mette in evidenza i meccanismi linguistici e narrativi attraverso i quali il mondo viene creato come unità connessa e interdipendente:

«Nelle discussioni recenti sulla globalizzazione viene tacitamente accettato che l’aggettivo “globale” si rivolga a un processo empirico, che ha luogo “lì fuori” nel mondo. [ … ] Al contrario io parto dal presupposto che “globale” descriva un modo della tematizzazione, o un modo di occuparsi del mondo». La lingua del globale suggerisce una trasparenza, un accesso diretto a un processo da osservare empiricamente: in effetti, però, si tratta di un modo che riassume diversi fenomeni in un comune discorso e così lo rende controllabile. Esso non rimanda al mondo in sé, ma alle condizioni e alle implicazioni dei modi istituzionalizzati per mezzo dei quali i diversi terreni e popoli di questo mondo vengono resi leggibili all’interno di un’unica cornice» (…). Il globale rappresenta la prospettiva dominante dalla quale il mondo viene prodotto come rappresentabile e controllabile». (p. 79).

[Notas]

1 S. Conrad, Storia globale. Un’introduzione, Roma, Carocci, 2015, p.18.

2 “Per fare un esempio, si può osservare il Kulturkampf in Baviera nel XIX secolo da un punto di vista di storia locale, con una problematizzazione storico-culturale o di storia di genere, o come parte della storia tedesca. Però lo si può anche collocare in maniera storicoglobale e intendere come espressione dei contrasti tra lo Stato liberale e le Chiese, che furono condotti nel XIX secolo in molte parti del mondo: in tutta Europa, ma anche in America Latina o in Giappone”. Ibidem, p. 20.

3 “Il crash della borsa di Vienna nel 1873 ebbe un’ importanza differente dalle crisi economiche del 1929 e 2008, perché il grado di collegamento dell’economia mondiale, ma anche l’intreccio mediatico degli anni intorno al 1870, non aveva ancora raggiunto la stessa densità che in seguito”. Idem.

Ernesto Pirillo

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Libero arbitrio. Storia di una controversia filosófica – DE CARO et al (RA)

DE CARO, M.; MORI, M.; SPINELLI, E. (Eds). Libero arbitrio. Storia di una controversia filosófica. Roma: Carocci, 2014. Resenha de: MAZZETTI, Manuel. Revista Archai, Brasília, n.15, p. 165-167, jul., 2015.

Ii problema del libero arbitrio ha ricevuto un’attenzione costante durante la storia della filosofia, dall’antichità fino ai nostri giorni. Il volume curato da De Caro, Mori e Spinelli offre una panoramica esauriente sulle modalità con cui il tema è stato affrontato nell’intera storia della filosofia. Con ciò non si deve intendere che vi sia stato, in un arco temporale che supera i due millenni, un solo problema del libero arbitrio: come premettono i curatori, la peculiarità di questo tema rispetto ad altre questioni che solcano l’intero cammino della storia della filosofia è quella di aver ricevuto non soltanto una miriade di diverse risposte, ma anche una serie di formulazioni diverse: libero arbitrio in relazione ora alla volontà, ora all’azione; avversario del determinismo o compatibile con esso; minacciato da fattori fisici (le leggi naturali; il fato), teologici (la provvidenza), logici (il problema della verità delle affermazioni sul futuro); e così via. L’esigenza ermeneutica di cogliere il problema nella formulazione specifica di ogni epoca storica in cui viene affrontato è tanto più cogente quanto più si risale indietro nel tempo: i capitoli riguardanti la filosofia antica, che considereremo in questa sede, si impegnano pertanto a fornire una ricostruzione, per quanto possibile, fedele ai testi in nostro possesso, senza proiettarvi illecitamente schemi mentali tipici della contemporaneità.

Nel primo capitolo Franco Trabattoni ripercorre la teoria platonica della libertà umana – che trova la sua più celebre e felice esposizione nel mito di Er della Repubblica – considerata come antitetica sia alla visione «pessimistica”dell’epica e degli autori tragici, secondo la quale l’uomo, per quanto si sforzi di impiegare al meglio la sua razionalità per perseguire la virtù, resta in ultima analisi soggiogato alla volontà arbitraria e insondabile degli dèi, che possono manovrarlo e ingannarlo a loro discrezione; sia alla tesi, di matrice soprattutto eraclitea, per cui l’agire umano, anche quando si affranchi dall’influenza degli dèi, resta ugualmente condizionato tanto dalla necessità interna costituita dal suo carattere e dai suoi desideri, quanto dai processi naturali, in cui le cicliche trasformazioni degli elementi sono regolate dal destino. Com’è noto, Platone risponde che ciascuna anima, prima della nascita, ha avuto la possibilità di scegliere il proprio demone, e che pertanto la responsabilità delle azioni che da esso conseguono non è della divinità, bensì dell’uomo stesso. Seppur libera, la scelta prenatale sembra tuttavia condizionare in toto le future azioni di chi l’ha compiuta, e ciò contrasta con l’intento pedagogico di plasmare e modificare il carattere, perseguito in altri luoghi della Repubblica stessa. Trabattoni osserva che «formalmente parlando» (p. 19) questo problema risulta «inaggirabile», ma insiste anche sulla necessità di stemperare l’apparente gravità di tale incoerenza tenendo presente il carattere metaforico e polemico dell’intero mito di Er: in quanto mito, esso è una rappresentazione approssimativa della realtà a cui si riferisce. Nella parte finale del capitolo, l’autore si impegna a ricostruire in cosa consista, di fatto, la libertà difesa negli scritti platonici: premesso che il fine della vita umana non può essere scelto, in quanto consiste per natura nel raggiungimento della felicità, la libertà deve riguardare la scelta dei mezzi adeguati a perseguire quel fine. La conseguenza, solo apparentemente paradossale, di questa tesi è che la libertà non consiste affatto nella possibilità di scegliere in modo arbitrario e indiscriminato ciò che si vuole: se, per esempio, al piccolo Liside del dialogo omonimo non venisse proibito di guidare il carro del padre, ed egli fosse perciò del tutto libero di farlo, ciò non contribuirebbe affatto alla sua felicità, bensì alla sua rovina. In tal senso, una libertà totale riguardo ai mezzi coincide con l’ignoranza: l’esito di questa riflessione sembra essere, pertanto, che minore è la libertà riguardo ai mezzi, ovvero le alternative fra cui è auspicabile scegliere, maggiore è la libertà di poter ottenere il fine.

Nel secondo capitolo Carlo Natali raccoglie innanzitutto i passi delle opere di Aristotele più significativi per ricostruire il suo pensiero sul libero arbitrio: la lettura diretta dei testi è, qui più che altrove, necessaria per offrire un quadro obiettivo della posizione aristotelica, poiché essa è stata oggetto, dall’antichità fino ad oggi, di interpretazioni disparate e spesso fra di loro contraddittorie. È noto infatti che gli scritti dello Stagirita enfatizzano in molti luoghi la contingenza di tutto ciò che riguarda il mondo sublunare (che può essere o non essere, e in cui gli eventi si verificano «per lo più», ma ammettono eccezioni), e la responsabilità dell’uomo per una classe di azioni che dipendono da lui, cioè non sono forzate da agenti esterni. I Peripatetici antichi interpretarono queste asserzioni in senso indeterministico, ma sono possibili altresì letture di stampo deterministico, e non si può neppure escludere che Aristotele non si fosse affatto posto il problema. I due punti problematici su cui si è incentrato il dibattito contemporaneo, messi in luce da Natali, sono la vaghezza del concetto di contingenza – che sembra riguardare più casi generici (l’acqua può bollire o meno), che le loro singole istanziazioni (in certe circostanze, per es. in presenza di una fonte di calore, l’acqua bolle necessariamente) – e soprattutto le ambiguità relative alla formazione del carattere: un agente è responsabile delle azioni che discendono dal suo carattere perché a lui è imputabile la formazione del carattere stesso; ma tale formazione è influenzata a sua volta da fattori esterni e culturali, e in ultima analisi non sembra perciò libera. Natali inclina per un’interpretazione cautamente indeterminista e conclude che Aristotele, pur non avendo impostato il problema in maniera del tutto rigorosa, rappresenta un momento importante nel dibattito sui rapporti fra libero arbitrio e determinismo.

In età ellenistica la questione assume un’importanza dirompente, benché – come osservano Emidio Spinelli e Francesco Verde, autori del capitolo sulle scuole ellenistiche – i termini in cui essa viene affrontata non debbano essere anacronisticamente sovrapposti a quelli del dibattito attuale, con cui pure presentano innegabili analogie. Il merito principale della sezione su Epicuro è quello di riportare l’attenzione sui frammenti del XXV libro dell’opera Sulla natura, oltre che sui più celebri passi in cui viene riferita la dottrina del clinamen: secondo Verde, quest’ultima sarebbe stata introdotta in una fase successiva alla redazione del XXV libro in cui infatti, stando almeno alle parti superstiti, non trova menzione alcuna. Nell’opera Sulla natura Epicuro avrebbe difeso la capacità della mente di potersi determinare autonomamente, nonostante la necessità dei moti degli atomi, non essendo totalmente soggetta ai condizionamenti esterni e a quelli della sua stessa struttura atomica. Con la successiva introduzione del clinamen, ovvero della possibilità degli atomi di deviare dalla propria traiettoria in un momento indeterminato spazio-temporalmente, Epicuro avrebbe offerto una spiegazione in termini fisici di quell’autonomia già precedentemente teorizzata. La seconda sezione del capitolo ripercorre sinteticamente i punti chiave della teoria degli Stoici, che costituiscono i deterministi par excellence dell’antichità. I presupposti che inducono ad ammettere che da ogni causa consegua inevitabilmente un solo effetto, e che il mondo costituisca una sorta di «rete”in cui infinite cause si intrecciano secondo modalità per lo più ignote all’osservatore umano, sono tuttavia di ordine metafisico ancor prima che scientifico: il cosmo è infatti, secondo gli Stoici, un intero le cui parti sono tutte correlate fra loro secondo un criterio razionale, sancito da un principio divino immanente al cosmo stesso. Spinelli ripercorre sinteticamente il diverso approccio con cui Cleante, Crisippo ed Epitteto si impegnarono a mostrare la compatibilità tra la loro fisica rigorosamente deterministica e, in campo etico, la responsabilità umana: al di là delle differenti formulazioni, la tesi comune è che le azioni provenienti dall’iniziativa umana, ancorché determinate in maniera univoca, siano tuttavia imputabili al soggetto agente, per il fatto stesso di provenire da facoltà a lui interne, e non da costrizioni esterne.

L’anello di congiunzione fra il terzo e il quarto capitolo è costituito da Carneade, di cui tuttavia vengono proposte due differenti letture: Spinelli e Verde insistono sugli aspetti scettici del pensiero di Carneade, ovvero sulla natura puramente dialettica delle sue critiche, vòlte a mostrare che ciascuna delle tesi contrastanti difese dalle scuole filosofiche è parimenti insoddisfacente; Trabattoni si appella invece all’appartenenza di Carneade all’Accademia per scorgere, dietro alle sue critiche, l’affermazione di una dottrina positiva di matrice platonica. La parte rimanente del quarto capitolo, curato sempre da Trabattoni, e l’intero capitolo successivo, curato ancora da Natali, sono dedicate a ricostruire le reazioni delle scuole dogmatiche – rispettivamente, l’Accademia e il Peripato – al determinismo stoico, tese a ritagliare uno spazio alla libertà dell’agire umano più ampio della mera provenienza da principî interni. Il cosiddetto «medio-platonismo”elaborò, sulla base del mito di Er, la dottrina del fato come legge condizionale, esprimibile nella forma: «se sceglierai una certa cosa, deriveranno certe conseguenze»; la scelta posta dall’apodosi è in nostro potere, e non è determinata dal fato, a cui sono imputabili invece gli esiti inevitabili che da essa scaturiscono. In Plotino e negli altri neoplatonici, invece, il problema del libero arbitrio è inquadrato nella prospettiva più schiettamente teologica del provvidenzialismo: la divinità agisce per il meglio e determina il ruolo che ciascun individuo riveste nel mondo; ma solo a l’individuo spetta il compito di recitare bene o male, come un buon o cattivo attore, la parte che la provvidenza gli ha assegnato. Infine, il Peripato, e in particolare Alessandro di Afrodisia, equiparava il fato alla natura individuale degli enti sublunari, ovvero a quel complesso di caratteristiche che, pur condizionando gli eventi con una certa regolarità, ammettono eccezioni.

In conclusione, il libro sul libero arbitrio, di cui abbiamo velocemente ripercorso le sezioni riguardanti la filosofia antica, ha il merito di fornire un quadro generale dell’approccio di ciascun autore o scuola filosofica alla questione, e nel contempo di dare una visione essenziale, ma precisa e aggiornata alla bibliografia più recente, degli aspetti problematici e delle più interessanti interpretazioni moderne.

Manuel Mazzetti – La Sapienza University of Rome – Roma, Itália – [email protected]

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