Insegnare storia: Il laboratorio storico e altre pratiche ative – MONDUCCI (Nv)

MONDUCCI, Francesco (a cura di). Insegnare storia: Il laboratorio storico e altre pratiche ative. Guida alla didattica del laboratorio storico. Resenha de: PAGANO, Enrico. Dalla parte dela Didattica ativa. Uno sguardo dentro al volume “Insegnare Storia”. MASTRETTA, Elena. Hanna non chiude mai gli occhi. Un libro per appassionare i ragazzi. Novecento.org – Didattica dela storia in rete, 29, lug.. 2019.

DALLA PARTE DELLA DIDATTICA ATTIVA

A dodici anni dalla prima e sei dalla seconda, nel 2018 è stata pubblicata la terza edizione di Insegnare storia curata da Francesco Monducci, che già aveva collaborato alla precedente con Paolo Bernardi. La novità del lavoro è annunciata dal sottotitolo, “Il laboratorio storico e altre pratiche attive” al posto di “Guida alla didattica del laboratorio storico”. L’architettura dell’opera propone una parte teorica, in continuità con le precedenti pubblicazioni, e due parti ampiamente rinnovate dedicate l’una agli strumenti e l’altra ai metodi e alle applicazioni.  Il testo, come afferma il curatore nella nota introduttiva, «entra senza ritrosie nella questione del come – e dunque inevitabilmente del cosa – insegnare e partecipa attivamente al dibattito in corso, stando dalla parte di chi esprime la necessità di una didattica attiva che guardi ai contenuti come oggetti da maneggiare».

LA PARTE TEORICA

Introduzione all’insegnamento della storia e funzione del laboratorio

Fra i contributi della parte teorica troviamo il saggio di Scipione Guarracino su “Le questioni dell’insegnare storia”, che affronta temi generali (perché e come insegnare storia, le finalità politiche ed etiche, le regole del mestiere di storico, i manuali messi in discussione, la storia che vale la pena di insegnare), e quello di Aurora Delmonaco focalizzato sul “laboratorio di storia”. Le ragioni della scelta di questa pratica rimandano a istanze didattiche, pedagogiche e storiografiche di indubbia efficacia; tuttavia oggi la sua fortuna – o la sua disgrazia – dipende dall’essere posto o meno in stretta connessione con la nozione di competenza e, più nello specifico, con le competenze-chiave per la cittadinanza.

Rientra in questa sezione teorica, benché collocato all’inizio della parte dedicata a metodi e applicazioni, il saggio “La mente laboratoriale” di Ivo Mattozzi. L’autore distingue la didattica genericamente operativa, vale a dire la “suggestione del laboratorio”, dall’adozione di un progetto consapevole di didattica laboratoriale; infatti questa strategia operativa, oltre a rinnovare la formazione storica degli studenti e degli insegnanti, consente di attualizzare il principio della trasmissività del sapere, nella convinzione che si possa giungere al pensiero astratto e alla sua formalizzazione anche attraverso la pratica e il saper fare.

La didattica per competenze

Un’importante novità della parte teorica è il saggio di Mario Pinotti su “La didattica per competenze nell’insegnamento della storia”, che ricostruisce in forma essenziale la plurima stratificazione semantica del concetto di “competenze”. Pinotti propone un percorso storico che va dall’attivismo pedagogico delle origini all’influenza esercitata sulla scuola novecentesca, fino all’esame delle potenzialità che i principi educativi derivati da questa tradizione mantengono nella didattica del nuovo millennio. Secondo Pinotti, la didattica delle competenze può diventare una prassi condivisa nella scuola italiana a condizione che dimostri di garantire l’apprendimento dei saperi meglio della didattica tradizionale, non essendo sufficienti alla sua affermazione le ragioni della psicologia e della pedagogia, né i riconoscimenti istituzionali o le condizioni normative. Inoltre l’autore, riferendosi alle competenze metodologiche delle Indicazioni nazionali del 2010, presenta un’articolata scheda di valutazione delle competenze di storia, adattabile ai vari livelli di istruzione. Infine analizza le parti relative alle competenze chiave di cittadinanza, accolte nelle Indicazioni nazionali del 2012, che hanno un più stretto contatto con il sapere storiografico. Il saggio è apprezzabile anche perché fornisce, con stile e linguaggio improntati alla massima comunicatività, un quadro sintetico ma completo dei percorsi legislativi fino alla Legge 107 del 2015 e un valido contributo orientativo per la progettazione didattica.

GLI STRUMENTI

Il manuale

La sezione si apre con il saggio di Francesco Monducci intitolato “Il manuale, per una didattica attiva”, in cui si esamina l’evoluzione ipertestuale e la compatibilità del manuale di storia con le esigenze di un insegnamento innovativo e partecipato e si forniscono indicazioni generali sui criteri della scelta. Un altro paragrafo è dedicato al lavoro con il libro di testo e quello conclusivo approfondisce il tema delle estensioni digitali dei manuali e della loro effettiva utilità didattica.

Insegnare e apprendere con il web

Segue un saggio scritto a quattro mani da Chiara Massari e Igor Pizzirusso, “Insegnare storia con il web”, che si rivela particolarmente utile per la proposta di un quadro di sintesi dei più recenti sviluppi tecnologici e per un’analisi delle modalità attraverso cui il web può diventare strumento ed ambiente di apprendimento. Corroborato da una seria analisi in chiave pedagogica e didattica e da importanti indicazioni per la ricerca, la selezione critica delle informazioni e l’uso delle fonti disponibili in rete, il contributo offre inoltre al lettore un repertorio aggiornato di metodologie e strumenti disponibili per la didattica laboratoriale. Tra questi, particolare attenzione è rivolta ai webware, accessibili per realizzare linee del tempo, carte tematiche o grafici, video, giochi, mappe e presentazioni.

Le fonti, dalla storiografia alla didattica

Chiude la sezione il saggio di Ermanno Rosso, prematuramente scomparso, su “Le fonti, dalla storiografia al laboratorio di didattica”. Il contributo è riproposto integralmente dalla prima edizione, fatti salvi gli aggiornamenti bibliografici e sitografici. Al centro c’è l’idea di un insegnamento della storia che sappia tenere unite e coerenti l’informazione storica, la conoscenza e il rispetto per l’epistemologia disciplinare, senza mai prescindere dall’utilizzo delle fonti che trovano la massima valorizzazione nella pratica laboratoriale. Particolare attenzione è dedicata alla fonte storica, esaminata dal punto di vista della sua origine, del concetto e della polivalenza che la caratterizza. L’autore si concentrata sul delicato passaggio dalla storiografia alla didattica, segnalando però l’opportunità – nelle sue pratiche – di guardarsi da eccessi e ritrosie. Si sofferma quindi sulle motivazioni, la tempistica e le modalità di utilizzo delle fonti: procede illustrando modelli di uso e di analisi e proponendo schemi di classificazione, sequenze analitiche e operazioni inerenti alla ricostruzione documentata del passato. Rosso sostiene che a scuola è possibile fare anche ricerche originali e indica negli archivi scolastici una risorsa importante che può essere utile allo scopo.

I METODI E LE APPLICAZIONI

La terza e ultima parte, preceduta dal saggio di Mattozzi di cui si è già parlato, si articola in otto contributi, nell’ordine: Tre modi di fare storia nella scuola primaria (Gianluca Gabrielli); Geostoria. Studiare lo spazio e il tempo (Emanuela Garimberti); Le fonti letterarie (Eugenia Corbino); Luoghi della memoria (Maria Laura Marescalchi); Fare storia con il CLIL (Paolo Ceccoli); Fare storia con l’EsaBac e Lo studio di caso con documenti di varia tipologia (Francesco Monducci); L’Alternanza scuola-lavoro e il laboratorio storico: temi problemi, proposte (Agnese Portincasa e Filippo M. Ferrara). Nelle precedenti edizioni questa sezione era organizzata secondo criteri molto più didascalici, nel senso che venivano proposte le varie modalità laboratoriali distinte per tipologia di fonti: materiali documentari, iconografici, letterari, cinematografici, testimonianze orali e luoghi della memoria, web e nuove tecnologie, giochi didattici, ecc. L’attuale impostazione, come spiega Monducci nella nota introduttiva, è stata pensata

«per dare ragione delle nuove opportunità offerte da settori in continua evoluzione […], per fare spazio ad attività riguardanti ambiti precedentemente non coperti […], per conferire agli esempi proposti un taglio più immediatamente spendibile nella pratica scolastica quotidiana».

Diamo sinteticamente conto dei contributi di questa sezione, prendendoci la licenza di non seguire precisamente l’ordine di pubblicazione.

Fare storia nella scuola primaria

Il saggio di Gianluca Gabrielli è l’unico appositamente dedicato alle modalità di didattica della storia nella scuola elementare. L’autore propone di mettere in atto tre distinte pratiche: l’uso delle fonti per trarne indicazioni sul passato; la conoscenza storica di una tra le prime e più importanti civiltà umane (l’antico Egitto), con attenzione alle connessioni sociali dell’epoca e i loro mutamenti nel tempo; infine, un percorso di conoscenza contestualizzata storicamente su una ricorrenza del calendario civile.

Fare storia con il CLIL[1]

Nel suo articolo, dopo una disamina degli aspetti normativi, Paolo Ceccoli illustra le caratteristiche della metodologia CLIL, che prevede l’insegnamento di una materia non linguistica in lingua straniera e promuove la convergenza didattica delle due discipline, senza prevalenza dell’una sull’altra. Successivamente, dopo avere affermato che una didattica della storia CLIL non può che avere un’impostazione laboratoriale molto vicina alla didattica degli EAS, propone alcune riflessioni indispensabili per la progettazione di un modulo specifico, ossia: la scelta dei materiali, lo sviluppo di una lezione, la misurazione e la valutazione. Infine, offre due esempi dettagliati di programmazione: l’uso di fonti letterarie inglesi per lo studio della prima guerra mondiale e i processi di decolonizzazione.

Fare storia nei programmi EsaBac[2]

Il contributo di Francesco Monducci ha per oggetto il percorso triennale EsaBac che dal suo avvio, nel 2009, ad oggi ha evidenziato una crescita costante di adesioni e consensi. Tra le sue caratteristiche didattiche si distinguono il costante lavoro con le fonti, modulato dai programmi francesi, e la naturale predisposizione all’interdisciplinarità. A titolo esemplificativo, l’autore propone un dossier documentario di approfondimento dedicato al tema della religiosità e delle credenze popolari fra XI e XIV secolo, che prevede un lavoro molto simile alle attività didattiche connesse con gli studi di caso.

Lo studio di caso

In un altro articolo, lo stesso Monducci, riprendendo la codificazione proposta da Antonio Brusa, si sofferma sullo studio di caso, strumento didattico sperimentato in varie edizioni della Summer School organizzata dall’Istituto nazionale “Ferruccio Parri” e ampiamente diffuso grazie alla rivista novecento.org e al lavoro dei responsabili della didattica della rete nazionale degli istituti. Monducci propone un esempio di lavoro pensato per una classe terza di scuola secondaria di primo grado e incentrato sul tema dell’alimentazione in Italia durante la seconda guerra mondiale. L’esemplificazione didattica è arricchita dall’assegnazione agli studenti di un compito di realtà attraverso la metodologia del webquest. Una volta terminata l’attività dello studio di caso, agli studenti si dà la consegna di sviluppare una ricerca autonoma e di realizzare un prodotto, ad esempio una presentazione in power point, da illustrare in una determinata occasione. Riprendendo la formalizzazione di Dodge e March (Università di San Diego, California, 1995), l’autore esamina le varie fasi dell’attività: la motivazione, la descrizione del risultato atteso, le indicazioni di lavoro, le risorse da utilizzare, la valutazione e il bilancio conclusivo dell’esperienza.

La geostoria

Il più ponderoso capitolo della terza parte è scritto da Emanuela Garimberti ed è dedicato alla geostoria, termine che, prima della declinazione didattica, fu proprio di una nobile tradizione storiografica che ebbe inizio con gli studi di Fernand Braudel. Purtroppo, nella scuola italiana, la geostoria continua ad essere percepita come la mera conseguenza della contrazione delle ore dedicate alla storia e alla geografia. Anche per questo motivo non pare aver prodotto grandi risultati sul piano della complementarietà tra le due discipline e dell’unitarietà dell’insegnamento. Eppure, come afferma l’autrice,

«un percorso di geostoria ben costruito può riuscire a tenere insieme la contemporaneità dell’approccio geografico e la diacronia di quello storico [restituendo] la percezione dell’alterità del passato, così spesso perduta nell’appiattimento sul presente contemporaneo o, viceversa, proiettata all’indietro in un passato a-storico».

L’ambiziosa proposta didattica che correda il saggio è dedicata alla storia sociale del paesaggio storico e consiste in una serie di attività laboratoriali sui paesaggi rurali tra tarda Antichità e pieno Medioevo.

Le fonti letterarie

Eugenia Corbino pubblica un saggio dedicato all’utilizzo della narrativa come fonte storica. L’autrice ravvisa in essa “uno strumento per avvicinare gli studenti alla storia in quanto conoscenza razionale del passato, indagata secondo metodi e tecniche storiografiche”, ma a condizione di tenere separati eventi ed elementi passionali della narrazione. Gli aspetti relativi alla progettualità illustrati nel saggio sono desunti dall’offerta didattica dell’Istituto storico di Firenze e attengono a percorsi realizzati da Paolo Mencarelli e dalla stessa Corbino. Essi hanno per oggetto l’analisi del rapporto tra la Resistenza e una narrativa che scaturisce da ricostruzioni di autori che non ne sono stati protagonisti o testimoni e che, a loro volta, hanno dovuto misurarsi con la ricerca e l’interpretazione dei documenti. Tali percorsi prevedono anche un laboratorio di scrittura collettiva che parte proprio dalla lettura delle fonti.

I luoghi della memoria

Maria Laura Marescalchi, già autrice nelle due precedenti edizioni di un saggio sui luoghi della memoria e i testimoni scritto con Marzia Gigli, ritorna a riflettere con taglio innovativo su questo tema. Il saggio, sul piano del metodo, ribadisce la funzione essenziale della mediazione dell’insegnante che, sola, è in grado di evitare la sovrapposizione tra il piano storico e quello della memoria. Sul piano didattico la proposta – pensata per la scuola superiore ma, secondo l’autrice, adattabile anche alla scuola primaria – verte sulla progettazione di una visita a un luogo della memoria. Viene quindi esemplificata una visita guidata a Monte Sole, supportata dall’esplicitazione dei prerequisiti, delle finalità, degli obiettivi e delle competenze di carattere generale connessi con il noto e prolungato eccidio avvenuto tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944.

L’Alternanza scuola-lavoro e il laboratorio storico

L’ultimo saggio della terza parte, scritto da Agnese Portincasa e Filippo M. Ferrara, riguarda l’Alternanza scuola-lavoro. Il tema è controverso. Sin dalla sua introduzione ha generato difformi valutazioni sulla sua opportunità formativa, originate in buona parte dalla tradizionale difficoltà di comunicazione fra scuola e mondo del lavoro. Aldilà delle questioni divisive di fondo, gli autori si pongono la domanda se e in che modo il modello del laboratorio storico risponda efficacemente alle esigenze dell’Alternanza scuola-lavoro. Quindi, a partire da esperienze realizzate presso l’Istituto per la storia e le Memorie del Novecento Parri E-R di Bologna, propongono un dettagliato piano di lavoro, che può essere assunto come traccia applicabile anche a progetti provenienti da altri contesti ed arricchito da una pregevole scheda individuale di valutazione delle competenze.

CONCLUSIONI E VALUTAZIONI

Siamo di fronte a un prodotto molto interessante per l’equilibrata balance fra aspetti teorici, adeguatamente aggiornati, ed esemplificazioni utili e, in buona parte, riproducibili in ambiente didattico a diversi livelli di istruzione. Certo, un bilancio complessivo delle indicazioni operative contenute nel manuale con particolare riguardo ai potenziali destinatari e fruitori non può ignorare il ruolo preponderante assunto in fase esemplificativa dall’istruzione superiore. Del resto, è proprio a questo livello che la pratica laboratoriale incontra le principali resistenze. Tuttavia, lo sforzo di tenere insieme i vari livelli di istruzione è davvero apprezzabile. Inoltre, i docenti della scuola primaria e secondaria inferiore vi potranno trovare elementi utili e spendibili in svariati contesti didattici. Ma, sempre sul piano della formazione, potranno trovare altrettanti elementi significativi anche tutti coloro che sono motivati all’insegnamento della storia e desiderano affrontarla con consapevolezza, convinti che, in una moderna azione didattica, i metodi e le pratiche non possano prescindere dalle finalità. Tra i vari pregi del manuale occorre infine ricordare anche le generose bibliografie e sitografie che corredano ciascun saggio.

Insomma, si tratta di un libro che stimola riflessioni e interrogazioni sul senso dell’azione didattica e sulla coerenza tra il mestiere di insegnante di storia e le sue finalità formative implicite ed esplicite; nel contempo invita a sperimentare, o quantomeno a misurarsi con gli esempi e le proposte presentate. Il volume dunque se – per un verso – costituisce un punto di partenza per successive ricerche, nello stesso tempo, offre un repertorio completo, sia teorico sia sperimentale, per chi vuole dedicarsi alle pratiche didattiche attive.

Note

[1] L’acronimo CLIL, introdotto da D. March e A. Maljers nel 1994, sta per Content and Language Integrated Learning (apprendimento integrato di contenuti disciplinari in lingua straniera veicolare) ed è stato introdotto nell’ordinamento scolastico italiano dalla Legge di Riforma della Scuola Secondaria di secondo grado avviata nel 2010.

[2] EsaBac è il duplice diploma di istruzione secondaria superiore istituito il 24 febbraio 2009 grazie all’Accordo tra il Miur e il Ministero francese per l’istruzione.  L’accordo prevede che l’Italia e la Francia nei loro sistemi scolastici promuovano un percorso bilingue triennale, attivo nel secondo ciclo di istruzione. Tale percorso permette di conseguire contemporaneamente il diploma di Esame di Stato italiano e il Baccalauréat francese.

Enrico Pagano

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Hanna non chiude mai gli occhi – BALLERRINI (Nv)

BALLERRINI, Luigi. Hanna non chiude mai gli occhi. Narrativa San Paolo Ragazzi, 2015. Resenha de: MASTRETTA, Elena. Hanna non chiude mai gli occhi. Un libro per appassionare i ragazzi. Novecento.org – Didattica dela storia in rete, 24 apr. 2018.

ABSTRACT

Il libro di Luigi Ballerini, Hanna non chiude mai gli occhi, è stato pubblicato nella collana Narrativa San Paolo Ragazzi nel dicembre 2015, raccogliendo da allora consensi di pubblico e critica, oltre a importanti premi[1]. Il testo si caratterizza per essere un romanzo di formazione a tema storico, la Shoah, adatto a giovani ed adulti.

SALONICCO 1943

Hanna e Yosef, due ragazzi ebrei, devono confrontarsi con i progressivi divieti che vengono imposti agli israeliti. Per via di queste disposizioni, la famiglia di Yosef va a vivere in casa della famiglia di Hanna. Dopo un’iniziale diffidenza, i due sviluppano un forte senso di amicizia, che li aiuterà ad affrontare i mutamenti alle loro vite, imposti dalla discriminazione razziale, e – al tempo stesso – i momenti difficili della crescita personale. Le loro storie, scopriranno imparando a conoscersi, sono corse parallele fino a quel momento, quando la reclusione nel ghetto di Kalamaria li ha messi uno accanto all’altra. Ad esempio, hanno entrambi assistito al raduno di uomini, tra cui i loro fratelli maggiori, avvenuto l’11 luglio 1943 in piazza Libertà. Allora reagirono in modo diverso. Mentre Yosef si allontana abbastanza presto non riuscendo ad assistere al terribile spettacolo, Hanna resta fino alla fine. Yosef ammette, infatti, tradendo un senso di vergogna «Appena hanno iniziato a picchiarli io sono scappato via»[2].L’atteggiamento di Hanna in quella situazione invece, restare senza risparmiarsi la vista degli uomini umiliati e sopportando il caldo, chiarisce da subito il titolo del libro, Hanna non chiude mai gli occhi.

GUELFO ZAMBONI E LUCILLO MERCI: LA SCELTA DI ESSERE UMANI

Il libro rende bene la progressione delle difficoltà degli ebrei e delle violenze cui sono sottoposti. Inoltre mette in risalto due personaggi poco conosciuti: il console Guelfo Zamboni e il capitano Lucillo Merci,  che lavorava in consolato in qualità di interprete. Zamboni, compresa la gravità della situazione, si adoperò, avvalendosi anche dell’appoggio e delle capacità di Merci, per salvare quante più vite possibile attraverso i mezzi che l’incarico di console gli metteva a disposizione.

Quando si rese conto di che cosa davvero stesse accadendo agli ebrei arrestati dai tedeschi, il console chiese ai suoi superiori in Italia la possibilità di “largheggiare” nell’attestare la cittadinanza italiana. Risultarono così in possesso di un certificato anche persone che avevano un cognome italiano o che potevano in qualche modo dimostrare un legame con l’Italia. Il tutto nel rispetto di una legge, che il console non violò mai, tutelandosi, per non perdere di credibilità di fronte ai tedeschi, con l’aggiunta dell’aggettivo “provvisorio” sui certificati rilasciati in quei mesi[3].

Questo non sarebbe stato possibile, se chi lavorava a stretto contatto con Zamboni in consolato non avesse approvato questa scelta. In particolare, nel corso della narrazione si cita spesso la scrittura di un diario da parte di Merci, diario effettivamente redatto dal capitano in quei mesi, di cui nel corso degli anni sono stati pubblicati alcuni stralci e oggi conservato a Yad Vashem. Proprio di questi materiali si è servito Ballerini per rendere al lettore la forte collaborazione dei due uomini nel salvataggio degli ebrei, resa in uno scambio tra i due:

«Dobbiamo fare di più». Il proposito di Zamboni gli uscì di bocca perentorio.

«Si. Dobbiamo portare in salvo tutti gli ebrei italiani, senza perderne nemmeno uno»

«Gli italiani, certo, ma non solo…»

Merci lo guardò con profonda ammirazione. Aveva capito perfettamente.

«Sono con lei signor console, ritengo anch’io che non possiamo stare a guardare. Abbiamo un’unica arma nelle nostre mani, la burocrazia! Ci proveremo con i nostri certificati di cittadinanza e i lasciapassare verso Atene. Lei sa di avermi al suo fianco, in piena fedeltà…»[4]

Sono due figure, quelle dei diplomatici italiani, ben delineate e fedelmente riprodotte, accanto a quelle – altrettanto vivide, anche se inventate dei due ragazzi – collegate proprio dal rilascio dei documenti che le loro famiglie chiedono al consolato italiano. [5].

Il racconto si conclude con la partenza dell’ultimo treno di ebrei italiani da Salonicco verso Atene. Un viaggio diverso da quello che molti altri ebrei dovettero affrontare in quel periodo, perché significava la messa in salvo. Un treno sul quale, però, Hanna sale senza Yosef. La mancanza di lieto fine mette i lettori di fronte alla drammaticità delle vicende storiche che fanno da sfondo alla narrazione.

UNA NARRAZIONE EQUILIBRATA

Uno dei pregi del testo, oltre alla scrittura particolarmente piacevole, è “l’equilibrio” con cui la vicenda della persecuzione ebraica viene trattata: sono rappresentati vittime, carnefici, spettatori, ma anche giusti. Questo, accanto all’ambientazione a Salonicco con continui riferimenti alla situazione italiana permette di affrontare, nella lettura con i ragazzi, la complessità della Shoah.

Vengono infatti presentate nel dettaglio due delle numerose famiglie che cercano di salvarsi dalla deportazione tramite i certificati di cittadinanza italiana, quelle di Hanna e Yosef, ma anche la folla di coloro che si accalcano ogni giorno davanti al consolato italiano dopo che si è sparsa la voce della possibilità di essere qui aiutati.

Sono numerosi i passi del testo in cui si descrivono le persone in attesa di entrare al Consolato Italiano per la richiesta di cittadinanza:

«Anche in quella mattina d’inizio aprile, come faceva ormai da tempo, il capitano Merci salì le scale del Consolato che erano appena le sette. Fuori, davanti al cancello, alcune persone si erano già concentrate in attesa. Appena lo avevano visto arrivare, si erano precipitate su di lui. Aveva faticato a tenerle a bada, a convincerle di attendere che Villa Olga, sede del Consolato, aprisse anche per loro »[6].

L’alto numero di certificati di cittadinanza rilasciati dal consolato italiano non passa inosservato e sono descritti anche i tentativi messi in atto dai tedeschi, in questi passaggi descritti a tutti gli effetti come “carnefici”, per vanificarne l’esistenza:

«Il console Zamboni convocò con urgenza Lucillo Merci, di primo mattino. Era stato informato che le autorità militari tedesche non permettevano la partenza verso Atene di un gruppo di ebrei italiani. Eppure era stato tutto predisposto per tempo e con cura. I certificati di cittadinanza erano stati emessi, i tedeschi avevano ricevuto la lista come da protocollo e la tradotta militare era arrivata dall’Italia in orario». […] «Diventerà sempre più dura, si disse Merci mentre procedeva verso la stazione con sottobraccio tutti i fascicoli relativi al gruppo di italiani in partenza. Fra un po’ non ce lo permetteranno più, pensò con dispiacere e un pizzico di preoccupazione, anche per sé»[7].

Allo stesso modo diverse delle figure che lavorano in consolato, non solo quella di Zamboni e Merci, vengono descritte e si mette il luce il ruolo di ognuno di essi[8]. Per la ricostruzione del “sentire” dei personaggi storici presenti nel romanzo, Ballerini si è servito come già accennato delle parti già pubblicate del diario di Lucillo Merci, dell’intervista rilasciata da Zamboni su questi fatti nel 1992, delle parole di suo nipote Luigi Zazzeri ed ha avuto un lungo colloquio telefonico con Dritta Giorno, residente a Salonicco, che nel 1943 lavorava al consolato italiano come interprete[9].

UN EPISODIO POCO CONOSCIUTO: LA STRAGE DI MEINA

La lettura di questo testo è utile anche per affrontare un episodio particolare della Shoah in Italia: quella dell’Olocausto del Lago Maggiore. Tra coloro che sfuggirono alla persecuzione razziale a Salonicco, infatti, ci sono alcuni di coloro che nell’autunno del 1943 vennero assassinati in quella che è la prima strage di ebrei in Italia.

Nella parte del diario di guerra di Lucillo Merci già pubblicata da Marco Nozza[10] si apprende Merci lasciò la Grecia per l’Italia con

«gli ebrei Dottor Modiano Luigi, la moglie Ernestina, il figlio Claudio, il signor Torres Raul e signora Valeria, l’ing. Elia Modiano, l’avvocato Mosseri, la signora Picollo e altri, complessivamente dodici, compreso (dimenticavo) Elia Saias e famiglia, due signore italiane ariane. […] Accompagnai i miei ospiti fino a Venezia, meta del treno. La famiglia Modiano partì per Firenze, gli altri per il Nord.»

Dopo la chiusura del Consolato Generale d’Italia di Salonicco, avvenuta nel dicembre 1943, il capitano continuò a interessarsi della sorte delle persone che aveva cercato di salvare, per quanto non riuscisse, spesso, a recuperare loro notizie o a verificarle[11].  Scrive ancora nel suo diario

“Gli ebrei italiani o dichiarati tali, da me accompagnati in Italia il 1 agosto 1943 fino a Venezia capolinea del treno, si salvarono. La famiglia del Dott. Luigi Modiano medico (moglie e figlio Claudio), proseguì per Firenze, dove si stabilì. Gli altri nove andarono a Meina sul lago di Como. Con l’occupazione dell’Italia settentrionale da parte dei tedeschi dopo l’8 settembre, il 23 settembre furono arrestati dalle SS, trucidati e chiusi in sacchi buttati nel lago. Le salme furono recuperate durante la guerra.”[12]

Merci non poteva controllare queste informazioni. E oggi sappiamo che erano imprecise [13], come risulta dalle più recenti ricerche storiografiche che hanno ricostruito i profili biografici e i percorsi verso la (mancata) salvezza di molte delle 57 vittime dell’Olocausto del Lago Maggiore.

Il libro ci permette quindi di aprire nuovi spazi di riflessione sui temi della responsabilità personale e della persecuzione: oltre a presentarci nel dettaglio episodi della Shoah che hanno stretti legami con la storia italiana prova a dare una risposta alla domanda che spesso ci si pone di fronte all’immensità della tragedia del popolo ebraico: “era possibile fare qualcosa?”. La risposta viene fornita in modo indiretto, facendoci conoscere le azioni di aiuto messe in atto da due italiani che lavoravano in quel momento per il regime fascista, mossi semplicemente dalla constatazione che stava accadendo qualcosa nei confronti di altri essere umani su cui non si potevano chiudere gli occhi, dimostrando che un comportamento dettato dalla coscienza non solo era possibile, ma in alcuni casi fu anche messo in atto.

Note

[1] Ci si riferisce al Premio Fenice, Europa, XIX edizione, attribuito il 3 settembre 2016 a Losanna. Il testo era stato proposto insieme ad altri come finalista da una giuria tecnica composta da Younis Tawfik, Claudio Toscani e Adriano Cioci. 460 lettori residenti in Italia e all’estero (Europa, America e Antartide) hanno decretato il “supervincitore” in presenza di un numeroso pubblico e di tutti gli autori.

[2] Hanna non chiude mai gli occhi, pag. 34

[3] Zamboni rese noto quanto aveva fatto a Salonicco in una intervista solo nel 1992, ormai molto anziano. https://www.youtube.com/watch?v=D2UhszAASME. Quello stesso anno aveva ricevuto una lettera da Yad Vashem. Una lettera ufficiale di ringraziamento per il suo operato. Dal 12 aprile 2010 a Guelfo Zamboni sono dedicati un albero e un cippo al Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano. Rispetto al riconoscimento dell’operato di Zamboni esistono tuttavia delle incertezze. Ci sono fonti giornalistiche che attribuiscono al console il titolo di “Giusto tra le nazioni”, ma il suo nome non risulta nell’elenco pubblicato da Yad Vashem a gennaio 2017.

[4] Hanna non chiude mai gli occhi, pag. 73

[5] Ballerini stesso spiega nella postfazione che le due figure di ragazzi sono frutto della sua fantasia, ma ispirate a personaggi realmente esistiti: Ester Saporta, l’Hanna che dà il titolo al romanzo, e Alberto Modiano, suo coetaneo e amico, che nel libro diventa Yosef, alunni della scuola italiana “Umberto I” di Salonicco.

[6] Hanna non chiude mai gli occhi, pagina 53.

[7] Hanna non chiude mai gli occhi, pagine 75 e 76.

[8] Un rilievo particolare viene dato alla figura di Carolina, che lavora in consolato come segretaria e di cui vengono descritti il carattere e la modalità di lavoro “ Carolina rispose senza distogliere lo sguardo dal fascicolo dove stava archiviando  i telespressi. . Negli ultimi giorni se ne erano accumulati alcuni che andavano ancora protocollati; era stata troppo occupata con le altre pratiche e non sopportava di vedere quel disordine nelle comunicazioni” pag. 55  […]” «si sieda e mi dica come possiamo aiutarla» ripeté Carolina. Il suo tono dolce aveva il dono di mettere a proprio agio chi parlava con lei”. Pag 60.

[9] A settembre 2016 la famiglia di Lucillo Merci, per il tramite di Luigi Ballerini che fornì l’indirizzo, ha avuto uno scambio epistolare con Dritta Giorno, che nella risposta dimostra di ricordare benissimo il capitano e che rafforza, con una grafia chiara e senza incertezze, l’importanza del ruolo che l’uomo rivestì nel tentativo di dare salvezza agli ebrei di Salonicco. Le lettere sono oggi custodite dal ramo della famiglia che vive a Bolzano. Nei diari di Merci la figura femminile presente in consolato ha il nome di Carolina, che nel testo è stato mantenuto. Il capitano potrebbe però avere usato in questo caso un nome diverso per cautela nei confronti della donna, che non si esclude potrebbe essere proprio Dritta.

[10] Marco Nozza, Hotel Meina, Mondadori, 1994

[11] Anche a Lucillo Merci Gariwo ha recentemente tributato il ricordo https://it.gariwo.net/dl/201702281221_merci.pdf

[12] Marco Nozza, Hotel Meina, Mondadori, 1994, pag. 300.

[13] In vari passaggi del libro di Nozza “Lucillo” è riportato come “Fucillo”, ma non vi sono dubbi sul fatto che l’autore si riferisca al capitano in servizio presso il Consolato italiano a Salonicco. Tra le affermazioni non corrette di Merci rileviamo che Meina si trova sul Lago Maggiore, non sul Lago di Como ed è una delle nove località coinvolte nella strage definita “Olocausto del Lago Maggiore”. Le modalità di occultamento dei cadaveri delle 16 vittime locali, dopo le ultime ricerche storiche, risultano essere differenti da quelle descritte da Merci nel suo diario, così come le date del loro ritrovamento ( alcuni corpi riemersero subito dopo le uccisioni, uno, femminile, parecchi anni dopo. Su questo aspetto si sofferma la testimonianza di Piero Ragazzoni nel documentario Even) . Lucillo Merci è mancato nel 1983 e il testo di Nozza, che riprende in larga misura quanto emerso dal processo di Osnabrück nel 1968 è stato pubblicato nel 1994, quindi Merci non poté consultarlo. Fino a questa pubblicazione e a quella di Toscano dell’anno precedente sul Bollettino Storico Novarese sono mancati studi organici e critici sulla strage, di cui molti aspetti restano ad oggi da indagare. Lo stesso coinvolgimento di Merci nella messa in salvo degli ebrei di Salonicco è del resto rimasto praticamente sconosciuto fino al 2007, quando la direttrice dell’Archivio Storico della città di Bolzano, l’ha scoperto ha dedicato alla sua figura due conferenze pubbliche, una il 24 gennaio 2007 appunto, e l’altra il 24 gennaio 2013. Come tanti, il capitano non aveva comunicato nemmeno ai familiari i dettagli di quanto successo a Salonicco.

Elena Mastretta

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