Histórias do vestir masculino: narrativas de moda, beleza e elegância | Guilherme Ivana Simili e Maria Cláudia Bonadio

BONADIO Maria Claudia Histórias do vestir
Maria Claudia Bonadio é uma das organizadoras do livro “Histórias do vestir masculino – narrativas de moda, beleza, elegância”, lançado nesta terça no IAD/UFJF | Foto: Divulgação

BONADIO Historias do vestir Histórias do vestirAs construções de sentidos para as virilidades e as masculinidades, em diferentes tempos e espaços, norteiam as discussões do livro História do vestir masculino: narrativas de moda, beleza e elegância. O livro, sob organização das historiadoras Ivana Guilherme Simili e Maria Claúdia Bonadio, objetiva trazer reflexões acerca das concepções de homem, de masculinidade, de virilidade e de outros adjetivos, e suas relações com as indumentárias. Para tanto a obra, composta por onze capítulos, um prefácio e uma apresentação, conta com a contribuição das seguintes pesquisadoras e pesquisadores: Maria Cristina Volpi, Ivana Guilherme Simili e Alessandra Vaccari, Fernanda Theodoro Roveri, Jefferson Queler, Marko Monteiro, Maria Claudia Bonadio, Taisa Vieira Sena, Wagner Xavier de Camargo, Elisabeth Murilho, Maria Eduarda Araujo Guimarães e Wladimir Silva Machado. Leia Mais

Culture del consumo – CAPUZZO (BC)

CAPUZZO, Paolo. Culture del consumo. Bologna: Il Mulino, 2006. 334p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.179-183, giu./nov., 2019.

Paolo Capuzzo, docente di storia contemporanea presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà  dell’Università di Bologna, ricostruisce in questo libro la nascita, lo sviluppo della società dei consumi e le modificazioni culturali che ne accompagnano l’espansione in Europa tra il Seicento e l’inizio del Novecento. L’esperienza europea è collocata all’interno del processo che dalle prime conquiste coloniali ha portato alla formazione dell’economia mondiale.

Si mettono a fuoco da un lato la progressiva acquisizione di forza politico-economica della società europea, in particolare di quella dell’Europa urbana del Nord, dall’altro la sua capacità di democratizzarsi, nel momento in cui le classi subalterne si appropriano di beni inizialmente appartenenti alla sfera del lusso.

Il libro è suddiviso in 5 capitoli preceduti da un’Introduzione nella quale vengono delineate le linee di forza dell’intero percorso e le tematiche centrali:  • il rapporto tra consumi europei e commercio mondiale  • la dimensione etica del consumo  • la costruzione della sfera privata  • la regolazione dei rapporti di classe  • la costruzione di uno spazio pubblico del consumo   “Ricostruendo la storia della diffusione dello zucchero, del caffè, del tabacco, del tè, della cioccolata è possibile- scrive l’autore- mettere in evidenza i rapporti tra la domanda europea, la conquista di basi e monopoli commerciali, l’organizzazione della produzione di questi beni.

La diffusione delle nuove bevande mostra poi come, una volta approdate nei grandi porti commerciali europei, queste merci subissero un variegato processo di appropriazione da parte dei consumatori […]. Le nuove culture del consumo che si costruiscono in Europa attraverso queste bevande non sono, insomma, un epifenomeno dell’espansione coloniale, ma rispondono a un processo di produzione della quotidianità, nella quale agiscono soggetti che si appropriano di tali risorse.” (p. 10).

Nel momento in cui la ricchezza e il potere non derivano più dall’appartenenza ad un ceto sociale, ma dal successo del mercato sono i modi del consumo a decidere dell’inclusione o dell’esclusione da una determinata cerchia sociale.

Il lusso si popolarizza sovvertendo le tradizionali gerarchie sociali. E’ dunque evidente il legame tra la diffusione dei liberi consumi e il progresso della democrazia.

I processi di consumo appartengono ad una sfera dotata di autonomia, ma sono in stretta relazione con la definizione delle identità, con la costruzione dei rapporti sociali e di genere.

Il consumatore non è visto come un terminale passivo di un processo di manipolazione dei suoi desideri, ma come individuo capace di attribuire un significato al consumo, pur all’interno di un habitus, cioè di un insieme di principi legati all’estrazione sociale e interiorizzati fin dall’infanzia che ne orientano l’azione attribuendo un determinato valore alle cose.

Tale habitus viene progressivamente messo in crisi dal processo di commercializzazione, dalla logica del profitto, che utilizza la moda e la pubblicità come criterio di valore di una merce.

“La forza semiotica della commercializzazione contemporanea, scrive ancora l’autore, è certamente un carattere inedito nella creazione dell’immaginario, cosa che distingue la nostra società da quelle precedenti […] tuttavia i consumatori continuano a far udire la loro presenza […]”. (p. 15 ).

Ciascuno dei cinque capitoli in cui si articola il volume offre una sintesi ragionata degli studi prodotti dalla storiografia internazionale sui vari temi, corredata da un’ampia bibliografia.

Capitolo 1. Consumi europei e globalizzazione del commercio tra XVII e XVIII secolo

Si analizza in queste pagine l’espansione del commercio europeo all’inizio dell’Età moderna, la nascita di una prima globalizzazione collegata al colonialismo e ad una grande disponibilità di risorse materiali.

Si sottolinea il fatto che gli sviluppi e il rinnovamento dei consumi in Europa sono intimamente connessi ad un nuovo assetto del potere mondiale ottenuto con la disponibilità finanziaria, la superiorità tecnologica, con la forza delle armi e con la deportazione della manodopera africana impegnata nelle miniere di metalli preziosi e nelle piantagioni americane.

Le colonie sono luogo da cui prelevare materie prime come zucchero, caffè, legname, tabacco, cotone da trasformare e rivendere poi come prodotti finiti a prezzi ben più alti.

Sulle tavole europee arrivano nuovi prodotti (patate, pomodori, cacao, fagioli, frutta tropicale, mais, zucche) inizialmente utilizzati solo dalle classi sociali più alte, ma accessibili poi anche ad altre classi sociali, quando la produzione col sistema delle piantagioni e la commercializzazione su larga scala ne abbassano i prezzi.

Caffè, tè e tabacco (il primo dei prodotti esotici ad essere consumato dalle masse) vengono subito apprezzati per la loro capacità di garantire lucidità, al contrario del vino.

Il consumo di questi prodotti si associa anche a una specifica ritualità praticata in nuovi spazi pubblici come le coffee e le tea houses, fattori formidabili di “sociabilità”, o nelle case private, nell’ambito di un mondo soprattutto femminile.

I primi locali detti caffè, dal nome della bevanda che vi si consumava, nascono a Venezia alla metà del Seicento e diventano di moda nel secolo successivo in tutte le grandi città europee. Sono frequentati da un’ élite di uomini d’affari che leggono i giornali, discutono di politica. Vi si aggiungono poi artisti e scrittori.

Capitolo 2. Lusso, moda e ordine sociale tra XVIII e XIX secolo

Il capitolo è dedicato nella prima parte ad una riflessione sul lusso, alla sua funzione nella società di corte, in particolare quella francese, e alla sua progressiva “popolarizzazione”.

Nelle società di corte il consumo designa un modello particolare di sociabilità, quello dei cortigiani e delle cortigiane, che si afferma poi come modello anche nelle grandi città europee come Parigi, la capitale del gusto, soprattutto per le donne che frequentano i salotti dell’alta società. Quello dell’apparire, grazie all’uso di cosmetici, gioielli, abiti eleganti, diventa un valore sempre più ricercato dai nuovi ricchi, da esibire sia nella sfera privata che in quella pubblica dei teatri, delle sale da musica, dei ristoranti.

Nei contesti cittadini è lo stile del consumo a decretare l’inclusione o l’esclusione da una certa schiera di persone. La ricchezza derivante dal mercato ha sostituito la nobiltà di nascita nella costruzione della posizione sociale e pubblica, soppiantando anche qualunque codice etico nell’accumulazione del reddito.

Nasce in questi anni la categoria di “povertà” dove la miseria materiale è strettamente connessa a quella morale.

La questione dell’apparire contrapposto all’essere è al centro di molti dibattiti nel Settecento: c’è chi critica il lusso in nome di un ideale di uguaglianza sociale, chi lo considera un’opportunità per scardinare un rigido ordinamento sociale.

Molti autori concordano sul fatto che la grandezza delle nazioni si fonda sul lusso, sulla forza economica, non sulle virtù dei cittadini: è impossibile controllare e organizzare una società in base a dei valori condivisi che restano appannaggio della sfera privata.

Il dibattito proseguirà nei secoli successivi accanto al filone della critica moralistica del lusso considerato responsabile della decadenza culturale.

La seconda parte del capitolo affronta la questione della moda come nuova dimensione del consumo a partire dalla fine del Settecento. L’ostentazione del lusso cede il passo alla sobrietà, alla scelta di un abbigliamento regolato da specifici galatei, diversificato in base all’età, alle differenze di genere e ai vari contesti.

La diffusione della moda è legata agli spazi urbani delle città, alle vetrine dei negozi, alle illustrazioni colorate e alla pubblicità sui giornali.

Essere bella, elegante, consona alle varie situazioni sociali è una precisa missione sociale per la donna borghese dell’Ottocento: è occasione di legittimazione sociale e anche indiretta dimostrazione del successo economico maschile.

Le classi sociali inferiori subiscono il fascino della moda e sono spinte a imitare quelle superiori che, dal canto loro, cambiano spesso abbigliamento per mantenere la distinzione.

Si innesca così un meccanismo di continua emulazione. Lo sviluppo della moda in Inghilterra alla fine del Settecento può essere considerato come una delle cause della rivoluzione industriale favorita anche dall’importazione del cotone, usato per produrre tessuti meno costosi.

Nel corso dell’Ottocento la produzione del vestiario si diversifica in base a due segmenti di mercato: quella industriale di massa sia per i lavoratori delle grandi città che per le uniformi dell’esercito e quella dei laboratori di sartoria che, grazie all’uso delle macchine da cucire, confezionano abiti su misura per la clientela più ricca.

Il Novecento vede poi l’allargamento della classe media e la nascita dei grandi magazzini che propongono abiti colorati, in fibre sintetiche, standardizzati, ma anche diversificati in base alle varie esigenze della vita moderna.

Capitoli 3 e 4. Culture del consumo delle classi medie e della classe operaia

Questa parte del libro è centrata sull’analisi e sul confronto fra queste due classi sociali in un periodo che va dal 1700 all’inizio del 1900.

Le descrizioni sono declinate al plurale tenendo conto delle variabili geografiche, delle trasformazioni nel corso del tempo, delle dinamiche di distinzione, conflitto, emulazione.

Della classe media si sottolinea l’importante funzione di separare lo spazio pubblico da quello domestico, luogo della convivenza familiare, al riparo dalla corruzione della città.

Le famiglie borghesi in Olanda e in Inghilterra hanno il compito di ricostruire una sfera morale che l’economia e la politica non sono in grado di proporre.

Il lavoro femminile si sposta all’interno della casa dove la moglie si dedica all’amministrazione, all’arredamento, alla cucina e alla cura dei figli lasciando al marito il compito di provvedere alle necessità economiche della famiglia.

La classe operaia valorizza molto meno la sfera privata della casa, dove molte donne non possono inizialmente svolgere un ruolo simile a quelle della borghesia. Sono spesso costrette a lavorare in fabbrica assieme ai mariti e ai figli, con i quali condividono anche momenti di tempo libero fuori casa: in spazi pubblici, pub e taverne, luoghi di consumo di alcol, gioco e scommesse.

Le tipologie abitative delle due classi sociali sono ampiamente descritte e messe a confronto per quanto riguarda il numero di stanze, l’arredamento, le spese destinate ai consumi domestici.

Tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento la classe media, fatta di commercianti, imprenditori, professionisti e funzionari statali, assume un ruolo sempre più importante nell’Europa nord-occidentale dove si affermano il capitalismo industriale e lo stato moderno.

Il processo di privatizzazione dello spazio abitativo diventa uno dei principi che regolano i consumi nel XX° secolo per quanto riguarda la tipologia delle case e l’arredamento: nasce l’industria di massa del mobile e dei beni durevoli.

La separazione fra spazio privato e pubblico è alla base anche dell’edilizia seriale del Novecento, secolo nel quale gli stili di consumo della classe operaia cominciano ad avvicinarsi a quelli della classe media.

La riduzione dei tempi di lavoro nelle fabbriche lascia spazio a partire dalla fine dell’Ottocento a momenti di divertimento: il gioco del calcio, le vacanze, favorite anche dai mezzi pubblici di trasporto come ferrovie e tram.

La Grande Guerra rappresenta un ulteriore momento di profonda trasformazione della società europea per quanto riguarda la massificazione degli stili di vita, trasformazione che si compie pienamente negli anni Cinquanta dello stesso secolo.

L’industria della cultura di massa è fondamentale nel Novecento: è strumento per regolare il tempo libero, ma anche terreno di eversione identitaria.

Capitolo 5. Lo spazio pubblico del consumo: geografia urbana e reincanto del mondo

Si affronta il tema del consumo come forma di evasione dalla quotidianità, momento da vivere in grandi città quali Londra e Parigi, negli spazi che allestiscono lo spettacolo delle merci dove è possibile sognare ad occhi aperti.

L’autore sottolinea in particolare le trasformazioni della geografia urbana e dei flussi di traffico provocati dalla nascita dei grandi magazzini, strutture sviluppate su più piani, dotate di grandi vetrine e insegne luminose. Questi nuovi spazi pubblici del consumo sono frequentati soprattutto dalle donne della classe media, libere di muoversi anche non accompagnate dagli uomini.

Interessanti le osservazioni a proposito della nuova figura delle commesse che anticipano stili di vita femminili del Novecento.

La commercializzazione dei prodotti riceve un grande impulso nella seconda metà dell’Ottocento dalle grandi esposizioni di Londra, Vienna, Parigi che nel 1900 totalizza quasi 50 milioni di visitatori.

Livia Tiazzoldi

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O Espírito das Roupas: A Moda no Século XIX | Gilda de Mello e Souza

A presente resenha não possui pretensões de trazer novas interpretações da obra de Souza, que é bastante conhecida no meio intelectual da disciplina de sociologia, especialmente quando tratamos das grandes universidades paulistas como a Universidade de São Paulo (USP) e a Universidade Estadual de Campinas (UNICAMP). Porém, pretendemos trazer uma contribuição historiográfica ao propor a leitura de “O Espírito das Roupas” também pelos historiadores, proporcionando uma nova dimensão às discussões de moda e estética, campos em constante crescimento na historiografia da cultura.

Gilda de Mello e Souza (1919-2005) nasceu em São Paulo, ingressou na Faculdade de Filosofia, Ciências e Letras da USP graduando-se em filosofia em 1940, ano em que obteve licenciatura e passou a dar aulas na mesma instituição. Em 1943 foi assistente do sociólogo francês Roger Bastide na cadeira de Sociologia I. Sob a orientação do mesmo, defendeu a tese de doutorado “A moda no Século XIX: Ensaio de Sociologia Estética” em Ciências Sociais na USP em 1950.

A tese referida trata-se do mesmo texto aqui resenhado, porém, publicado 37 anos depois da defesa, momento em que a autora recebe o devido reconhecimento. Isso dá elementos para considerarmos esse trabalho “bastante aferente de sua época”. É evidente que suas reflexões estavam inseridas no contexto de seu mundo cotidiano, porém, a academia brasileira ainda não enfatizava os estudos culturais, dando preferência aos estudos políticos e econômicos.

Em 1951, ao conseguir publicar um artigo com o mesmo titulo da tese na Revista do Museu Paulista, recebe alguns comentários favoráveis, mas ainda cheios de críticas. Dentre eles está o de Florestan Fernandes:

Poder-se-ia lamentar, porém, a exploração abusiva da liberdade de expressão (a qual não se coaduna com a natureza de um ensaio sociológico) e a falta de fundamentação empírica de algumas das explanações mais sugestivas e importantes. (FERNANDES apud PONTES, 2004, pp. 02)

Através dessa severa crítica mostra-se evidente que a autora foi na contramão de toda a corrente historiográfica e sociológica da época. Segundo a comentadora Heloisa Pontes, é possível interpretar algumas nuances dessa crítica de Fernandes. A primeira é de nível estilístico. Souza, antes de entrar para a academia, tentou carreira como escritora [2], isso lhe rendeu uma fluência particular com o uso das palavras muitas vezes assemelhando suas assertivas a um escrito literário. Essa capacidade, atualmente louvável, foi muito criticada na época da publicação de seu artigo, uma vez que seu estilo de escrita dava às suas publicações “um tom de ensaio”. Por isso a crítica de Florestan se mostra tão enfática uma vez que sua preocupação era de consolidar um panorama intelectual que desse à sociologia um potencial de “explicar” os fatos em sua veridicidade, longe da subjetividade e da hermenêutica como nos textos de Souza.

A partir das críticas recebidas pela autora podemos perceber certa tendência a uma abordagem cultural, porém não posso afirmar que ela negue categoricamente a interpretação materialista, embora que tece críticas ao materialismo histórico especialmente o de teor frankfurtiano [3]. Para a autora, há sim um elemento de “fetichização” e “mercadorificação” também na moda, mas isso não afeta seu status de arte ou de passível de ser estudada enquanto uma manifestação cultural.

Por isso, se é possível situar a autora em alguma “corrente historiográfica” me parece coerente inscrevê-la como uma historiadora da cultura. Suas influências são claramente visíveis: citações de Jacob Burkhardt são constantes em sua obra, porem ela parte de uma interpretação mais refinada que a do historiador da cultura do século XIX, muito mais semelhante com a de Carlo Ginzburg. Essa aproximação é comprovada por Otília Beatriz Fiori Arantes:

Há exatamente vinte anos saía o livro do historiador italiano Carlo Ginzburg, “Mitos, emblemas, sinais”. Lembro-me de Gilda comentar o quanto se sentiu lisonjeada reencontrando num autor famoso uma explicação erudita de dois métodos de abordagem da obra de arte que lhe eram por assim dizer desde sempre como que congenitamente próprios e que, além do mais, não gozavam de muito prestígio entre os críticos locais, a saber: a arqueologia visual dos mestres da escola de Warburg e o método indiciário praticado pelos connaisseurs, notadamente pelo mais conhecido deles, o médico italiano do século XIX, Giovanni Morelli (ARANTES, 2006, pp.1)

Não que eu me permita analisar a escola de Warburg ou o método indiciário dos connaisseurs, mas essa afirmação mostra a afinidade teórica da autora com o historiador italiano.

Além da presente obra, Souza se concentrou em diversos outros estudos, publicando obras de estética, crítica literária e sociologia como “O tupi e o alaúde: uma interpretação de Macunaíma” (1979), “Exercícios de leitura” (1980) e “A idéia e o figurado” (2005), esse último publicado no ano de sua morte aos 86 anos.

Tratando mais especificamente do livro “O Espírito das Roupas”, delinearei alguns detalhes que me pareceram interessantes. A obra, como o próprio nome explica, busca interpretar a moda no século XIX e suas significações sociais.

Sua abordagem é pautada em fontes das mais diversas e próprias, a utilização de pranchas de moda, ilustrações, pinturas e inúmeras fotografias permitem que a autora demonstre ao leitor os detalhes e as configurações da moda no século XIX. Outra metodologia, portadora de muita inovação para a época, é a utilização de trechos literários e testemunhos de romancistas enquanto fontes históricas ou sociológicas. Passagens de José de Alencar, Machado de Assis, Balzac, Proust são magistralmente utilizados para descrever de forma mais detalhada possível as nuances daquela sociedade. Dessa forma, utilizando-se de um extenso e detalhado corpo documental a autora – diferentemente do que afirma Fernandes – faz sim uma rigorosa pesquisa sociológica e histórica ao abordar a moda no século XIX.

No primeiro capítulo, intitulado “A Moda como Arte” a autora lança seus pressupostos teóricos acerca da moda classificando-a como uma arte, com suas próprias nuances e particularidades, que se liga com as outras artes da época, especialmente a arquitetura, a escultura e a pintura, graças à espacialidade, às texturas e às cores em comum. Com isso, baseada no sociólogo e historiador da moda Cunnington, Souza traça os quatro vetores que expressariam a linguagem da moda, a saber: a forma, a cor, o tecido e a mobilidade. Através da articulação desses elementos é possível estabelecer as geometrias estéticas que definiram o belo masculino e o feminino do século XIX, sendo o primeiro definido pela proximidade de aparências a uma letra “H” onde os ternos, as calças e a sobriedade das roupas lhe dão essa aparência. Já as mulheres cada vez mais se vestiam em um formato semelhante à letra “X”, sendo influenciadas pelos vestidos, chapéus e espartilhos. A autora encerra seu capítulo com uma afirmação bastante instigante:

Não é possível estudar uma arte, tão comprometida pelas injunções sociais como é a moda, focalizando-a apenas nos seus elementos estéticos. Para que a possamos compreender em toda sua riqueza, devemos inseri-la no seu momento e no seu tempo, tentando descobrir as ligações ocultas que mantém com a sociedade (SOUZA, 1987, pp. 50-51)

É interessante essa afirmação, pois demonstra uma influência historicista da necessidade de contextualizar historicamente a arte “no seu momento e no seu tempo”. Outro aspecto interessante é a afirmação de tentar descobrir “as ligações ocultas que mantém com a sociedade”: trata-se de interpretar as significações da cultura muito semelhantemente com o que postula Clifford Geertz em sua obra “A Interpretação das Culturas”. Segundo ele, a função do antropólogo seria de interpretar a cadeia de significados sociais – passiveis de ser observada através dos diversos signos sociais – de forma a perceber os significados expressos por eles. É uma teorização muito próxima da prática de Souza, me parece ser exatamente uma “descrição densa” que a autora faz no decorrer de seu livro, pois cada traço\detalhe das roupas, dos comportamentos ou dos sinais sociais são interpretados pela autora que busca “compreender [a sociedade] em toda sua riqueza”.

Já no segundo capítulo intitulado “O Antagonismo” a autora se centra na diferenciação sexual [4] ocorrida no século XIX onde a moda mostrou-se como um dos principais índices de tal separação. Antecipando diversos estudos de gênero feitos atualmente, a autora tratou de forma relacional os modelos de representação da masculinidade e da feminilidade através da significação da vestimenta. Embora mal compreendida pela primeira geração de estudiosas de gênero (décadas de 70 e 80), foi receber seu devido valor no fim da década de 80, justamente por abordar os sexos de forma complementar, e não contraditória, em suas palavras “Cada sexo é a imagem dos desejos do sexo oposto […] Os grupos masculino e feminino acabam se completando. A barreira que os separa não é intransponível”. (SOUZA, 1987, pp. 83). Trata-se de uma abordagem de gênero inédita até o final da década de 80.

Em sua argumentação, a roupa masculina no século XIX foi perdendo todos os traços de exibicionismo centrando-se cada vez mais na seriedade dos tons de preto e cinza. Em completa oposição o traje feminino se enriquece com rendas, enfeites, babados e fitas, perpassando as mais diversas cores, em especial o branco e os tons claros. Refletindo nas próprias nuances daquela sociedade e das distinções de gênero já que os homens incorporavam a seriedade e o ascetismo nessas sóbrias roupas escuras e a mulher incorporava a docilidade da esposa e mãe através das vestimentas claras.

Em seu terceiro capítulo intitulado “A Cultura Feminina” [5], a autora se delonga na moda e nos sinais da vestimenta feminina. Parece-me que é precisamente essa abordagem que fez com que seu estudo tenha sido tão mal aceito pela academia da época e ao mesmo tempo com que ele tenha sido editado e reeditado 37 anos depois de sua defesa. Segundo Pontes (2004), na década de 40 a USP ainda estava criando o curso de sociologia que era orientado pela escola francesa. Baseada em modelos estruturalistas e muitas vezes positivistas, buscava atingir uma suposta cientificidade no conhecimento sociológico. Os temas privilegiados eram as grandes estruturas sociais, tirando a prioridade aos aspectos mais peculiares da cultura, como as relações de gênero ou a moda. Já no fim da década de 80, com a renovação dos “woman studies” sua obra foi reconhecida enquanto portadora de uma refinada análise de gênero. Isso permitiu que seu estudo fosse publicado e que sofresse diversas edições, lançadas até o ano de 2005, sendo que todas já se encontram esgotadas.

Em seu quarto capítulo, intitulado “A Luta das Classes”, a autora se opõe à historiografia marxista ortodoxa ao estudar a diferenciação das classes do século XIX não por fatores econômicos, mas por uma peculiaridade cultural: a moda. Outro aspecto de oposição a essa historiografia é com relação a sua interpretação das classes enquanto diversas, maleáveis e portadores de uma “identidade, de usos e costumes, de hábitos e mentalidade” não sendo uma estrutura dicotômica binária exploradores-explorados. Trata-se, no meu ver, de uma sensibilidade analítica somente proposta posteriormente pela terceira geração da escola dos Annales, com sua “História das Mentalidades” ou pela “New Left Revew” de estudos de classe focados por perspectiva cultural.

Outra sensibilidade ímpar da autora foi a de perceber a transitoriedade das influências estéticas da moda entre o meio urbano e o rural. Para a autora, tradicionalmente a sociedade rural não havia se distinguido socialmente através das vestimentas, mas o contato com as elites urbanas proporcionou uma mudança nesse padrão e a sociedade rural passou a adquirir esse “espírito das roupas” que, antes de um princípio estético, servia como um índice de distinção social. Ou melhor, a moda é interpretada por Souza em duas utilidades aparentemente antagônicas, a primeira é que a moda poderia servir como índice de distinção social, mostrando quem tem capacidade e polimento de possuir um traje caro e desconfortável [6] e ao mesmo tempo a moda poderia aproximar as classes, que agora se vestiam cada vez mais semelhantes, a ponto de muitas vezes serem confundidas graças aos trajes usados.

A autora comenta sobre a reação da nobreza que, ao ver a “confusão” de classes ocasionadas pela vestimenta, se apega em novos distintores sociais como a auto-contenção, a utilização das “boas maneiras”, na elaboração dos gestos e no polimento das palavras. Isso dá pressupostos para seu capítulo seguinte, intitulado “O Mito da Borralheira”. Segundo Souza, talvez baseada em teorias psicanalíticas, comenta que o ascetismo do século XIX precisava encontrar escapes para sua seriedade, talvez o principal deles fosse a festa, local onde as pessoas poderiam, nesse momento de exceção, exaltarem a fantasia e a imaginação. O erotismo era expressado por sutilezas na vestimenta feminina, inspirando os galanteios ou as trocas de olhares e suspiros. É nesse momento de exceção que havia a possibilidade das classes não nobres se inserirem nesse desejado meio, pois o uso apropriado das roupas possibilitava o encontro entre as mais diversas classes em um espaço de sociabilidade comum a todas: os salões. Nesse momento a autora se utiliza da argumentação antropológica para considerar a festa enquanto um ritual de reorganização da sociedade. A expressividade das roupas, unidas aos gestos apropriados, permitiam que em raros momentos houvesse a incorporação de algum membro pela classe alta, possibilitando a reorganização e a permanência das elites pela introdução de novos membros considerados capazes. A boa utilização da moda dentro de uma festa pode-se entender como uma “tática” [7] das classes não nobres, pois isso lhes dá a possibilidade astuta de ascensão social. São aliviadas as tensões sociais graças à possibilidade dos membros das classes menos nobres de tornarem-se nobres. Não por acaso o capítulo chama-se “O Mito da Borralheira”, pois uma vez descidas as cortinas da festa, o rigor do distanciamento entre as classes retornava e a antiga “ordem” social era restabelecida, lançando de volta os considerados “não aptos” das classes não nobres à obscura realidade de seu mundo cotidiano.

A inovação da abordagem e da problemática que essa obra representa é muito expressiva, dado suas opções teóricas e metodológicas. Isso dá um impressionante ar de juventude e contemporaneidade a um trabalho com mais de 50 anos de idade. A erudição da autora pode ser uma chave pela qual alguns comentaristas consideram que “O Espírito das Roupas” conseguiu suspender o tempo e “no lugar de envelhecer, ganhou um frescor e uma atualidade inquietantes” (PONTES, 2004, pp. 10). Trata-se de uma clara demonstração do que Henri-Irenée Marrou quis dizer com: “a riqueza do conhecimento histórico é diretamente proporcional à da cultura pessoal do historiador”. A vida intelectual de Souza transparece em uma linguagem fluida e bem direcionada, segundo Alexandre Eulalio o livro “não consegue esconder […] a sensibilidade literária perspicaz” (EULALIO apud SOUZA, 1987, pp.14). Suas referências: Simone de Beauvoir, Johann Huizinga, Bronislaw Malinowski, Marcel Mauss, Michel de Montaigne, Georg Simmel (todos citados no original) mostram a sensibilidade teórica da autora pelas tendências teóricas da época. É uma das formas mais brilhantes de se utilizar de sua bagagem intelectual para escrever uma obra ainda hoje digna de exclamações como as de Pontes: “é uma jóia de ensaio estético e sociológico” (2004, pp. 10).

Notas

1. Trabalho apresentado quando o autor estava na graduação em História – UFPR.

2. Incentivada por seu primo Mário de Andrade.

3. que considera uma parte das artes do século XX, inclusive a moda, enquanto “indústria cultural”.

5. Numa evidente referência ao estudo de Georg Simmel que possui o mesmo título.

6. Apontando que o usuário não labora e tem posses para pagar.

7. Uso o termo “tática” na concepção de de Certeau (1994) quando o autor se refere à forma astuta de resistência do mais fraco.

Referências

ARANTES, Otília Beatriz Fiori. Notas sobre o método crítico de Gilda de Mello e Souza. In: Estudos Avançados, São Paulo, v. 20, n. 56, 2006. Acessado em: 6/11/2008

CERTEAU, Michel De. A invenção do Cotidiano vol.1. Petrópolis: Vozes, 1994. GEERTZ, Clifford. Uma descrição densa: por uma teoria interpretativa da cultura. In: A Interpretação das Culturas. Rio de Janeiro: Zahar, 1978. Capitulo 1.

MARROU, Henri-Irenée. Sobre o Conhecimento Histórico. Rio de janeiro: Zahar Editores, 1978.

PONTES, Heloisa. Modas e Modos: uma leitura enviesada de o espírito das roupas. In: Hildete Pereira de Melo, Adriana Piscitelli, Sônia Weidner Maluf, Vera Lucia Puga (organizadoras). Olhares Feministas. Brasília: Ministério da Educação: UNESCO, 2006. 510 p. Acessado em: 6/11/2008

______ A paixão pelas formas: Gilda de Mello e Souza”, In: Novos Estudos Cebrap, n.74, março de 2006, pp.-87-105. Acessado em: 6/11/2008

SOUZA, Gilda de Mello e. O Espírito das Roupas: A Moda no Século XIX. São Paulo: Companhia das Letras, 1987.

Fernando Bagiotto Botton – Graduação em História – UFPR.


SOUZA, Gilda de Mello e. O Espírito das Roupas: A Moda no Século XIX. São Paulo: Companhia das Letras, 1987. Resenha de: BOTTON, Fernando Bagiotto. Cadernos de Clio. Curitiba, v.3, p.343-356, 2012. Acessar publicação original [DR]