La peste nella storia / William McNeill

McNEILL William H La peste nella storia
William Hardy McNeill  / Foto: Wikipedia /

McNEILL W La Peste nella storia La peste nella storiaQuesto libro di William Hardy McNeill, scrittore canadese, storico ed esponente della global history (1917-2016), propone un’ampia ricostruzione degli incontri dell’umanità con le malattie infettive al fine di dimostrare come il variare della circolazione epidemica abbia da sempre influito sulle vicende umane e come il ruolo di tali malattie sia stato e rimanga fondamentale per l’equilibrio della Natura.

L’ analisi è basata sul parallelismo tra il microparassitismo degli agenti patogeni e il macroparassitismo dei grossi predatori, i più importanti fra i quali sono sempre stati gli esseri umani. Sia i micro che i macroparassiti hanno interesse a spremere risorse dalle loro vittime. Ma quando esagerano e le uccidono, finiscono per soccombere, a loro volta, per mancanza di cibo.

Le civiltà devono dunque trovare e mantenere il giusto equilibrio tra queste due categorie di parassiti, ripristinandolo quanto prima, in caso di alterazioni dall’esterno, pena la loro estinzione.

Le sofferenze e l’annientamento di intere popolazioni a causa delle pandemie sono documentate fin dai tempi più antichi da fonti provenienti da civiltà come quelle mesopotamiche, quella egizia e quella cinese. McNeill ne fa un’analisi approfondita compensando con ipotesi e speculazioni ben argomentate la mancanza di sufficienti prove relative ad alcune aree del mondo e scegliendo una periodizzazione che dal Paleolitico si articola in sei fasi, corrispondenti ad altrettanti capitoli del testo, corredati ciascuno da un notevole apparato di citazioni bibliografiche. Un’interessante introduzione spiega la genesi del libro a partire dagli interrogativi posti dalla conquista spagnola dell’impero Azteco da parte di un esiguo gruppo di uomini. In appendice un elenco di epidemie verificatesi in varie zone della Cina dal 243 a.C.al 1911 d.C.

L’uomo cacciatore

L’habitat naturale dei primi uomini del Paleolitico era quello delle foreste pluviali africane, popolate da molti parassiti monocellulari capaci di vivere in modo indipendente, senza bisogno di sfruttare l’organismo di un qualunque ospite. Tali ambienti mantennero un buon equilibrio naturale tra predatori e prede, fino all’acquisizione da parte degli esseri umani di nuove tecniche che, condivisibili grazie all’acquisizione del linguaggio, permettevano loro di organizzarsi in gruppo e di cacciare i grossi predatori erbivori delle savane africane. Lo sfruttamento di risorse prima inaccessibili proiettò gli esseri umani al vertice della catena alimentare, senza mutare radicalmente il sistema dentro al quale si erano evoluti. Risultati molto più evidenti si verificarono quando si spostarono in ambienti caratterizzati da climi freddi e asciutti, dove il problema non era rappresentato dai microparassiti, molto meno numerosi ma dai macroparassiti.

I cacciatori riuscirono a sopravvivere imparando ad addomesticare il fuoco e a coprirsi con le pelli degli animali, ma quando le risorse di selvaggina si esaurirono, inevitabili furono le crisi di sopravvivenza in varie parti del mondo, crisi rese ancor più gravi da radicali mutamenti climatici a partire dal 20.000 a.C. L’ingegnosità umana trovò allora nuove strategie per vivere: lo sfruttamento delle coste marine con lo sviluppo della pesca e la raccolta di semi commestibili diede poi vita all’agricoltura, permettendo un rapido aumento demografico e favorendo in breve tempo la nascita di centri urbani.

L’affiorare alla storia

Pastori e agricoltori alterarono gradualmente i diversi ambienti, riducendone la varietà biologica ed accorciando le catene alimentari con il conseguente aumento dei microorganismi patogeni, invisibili all’occhio umano, a differenza dei macrorganismi.

Le colture irrigue ad esempio crearono una situazione climatica simile a quella delle foreste pluviali favorevole alla trasmissione di parassiti patogeni alla popolazione rurale.

L’intelligenza umana si attivò anche in questo caso elaborando prescrizioni dietetiche, come il divieto di mangiare carne di maiale presso ebrei e musulmani, e sanitarie, come l’espulsione dei lebbrosi dai villaggi, nel tentativo di arginare le malattie infettive.

La maggior parte di esse, il morbillo ad esempio, il vaiolo o l’influenza, furono trasmesse alle popolazioni umane da animali domestici oppure furono la conseguenza dell’inserirsi degli umani in un processo patologico presente fra gli animali selvatici, come nel caso della peste bubbonica, della febbre gialla e dell’idrofobia.

Dopo un lungo e continuativo contatto tra gli agenti patogeni e l’uomo, le infezioni virali e batteriche divennero endemiche in alcune società che acquisirono la capacità di resistere ai contagi (immunità di gregge), ottenendo in tal modo un grande vantaggio nell’ incontro con altri gruppi umani più semplici e sani destinati a soccombere per l’azione associata della malattia e della guerra.

Fusione dei serbatoi di virus delle aree civili dell’Eurasia: 500 a.C. -1200 d.C.

Durante il primo millennio a.C. si verificò una stabile condizione di equilibrio fra macro e microparassitismo nei tre più importanti centri di insediamento umano: la Cina, l’India e il bacino del Mediterraneo. Ciò permise una costante crescita demografica e un’espansione territoriale a ciascuna di queste civiltà, che avevano sviluppato un proprio serbatoio di virus capace di diventare letale solo se libero di diffondersi presso popolazioni prive di immunità.

Questo accadde a partire dal I secolo d.C. quando i viaggi di terra e di mare dalla Cina e dall’India fino al Mediterraneo divennero sempre più frequenti, con il conseguente scambio non solo di merci, ma anche di infezioni tra le varie civiltà. L’esposizione a nuovi agenti patogeni ebbe ben poco effetto in India, in Cina o anche nelle zone insulari del mondo, mentre l’incessante verificarsi di scoppi di gravi pestilenze fu una delle concause ad esempio della caduta dell’Impero Romano d’Occidente.

Il Mediterraneo, i cui porti furono regolarmente colpiti dalle pestilenze, fu successivamente sostituito come centro di civiltà dai paesi europei più settentrionali, meno depauperati delle proprie risorse e avvantaggiati da una serie di innovazioni delle tecniche agricole che favorirono un notevole aumento della popolazione.

L’influsso dell’impero mongolo sul mutamento degli equilibri delle malattie:1200-1500

La peste nera del 1346 ridusse di un terzo la popolazione europea. Responsabile di tale infezione era la Pasteurella pestis, bacillo scoperto solo nel 1894, trasmesso agli umani dalle pulci dei roditori presenti nelle steppe euroasiatiche che ne erano cronicamente infette.

La peste giunse in Europa grazie alle piste carovaniere che attraversavano l’Asia, percorse da mercanti, corrieri postali ed eserciti. Dalla Crimea il bacillo salì poi a bordo delle navi, si diffuse in tutti i porti del Medio Oriente e d’Europa e da lì verso l’entroterra.

Molte furono le conseguenze di questa epidemia: psicologiche (paura della morte, colpevolizzazione degli Ebrei, ricorso a rituali o processioni come quelle dei flagellanti), culturali (la decadenza del latino in seguito alla morte di molti chierici e la diffusione delle lingue vernacolari, la danza macabra come tema ricorrente in pittura, una nuova spinta al misticismo), economiche (aspri scontri fra classi sociali).

Ebbe inoltre inizio un nuovo processo culturale attraverso il quale gli uomini impararono a ridurre al minimo i rischi dell’infezione: norme sulla quarantena da rispettare nei porti e altre regole introdotte dai governi delle città-stato specialmente in Italia e Germania. La stessa cosa non accadde nel mondo musulmano che, condizionato da una visione fatalista della malattia, guardava con diffidenza alle misure sanitarie proposte dai cristiani.

Le infezioni bubboniche continuarono ciclicamente a manifestarsi nell’Europa orientale determinando un progressivo disgregamento sociale e una spartizione delle steppe euroasiatiche fra gli imperi agricoli confinanti di Russia e Cina.

Scambi transoceanici tra il 1500 e il 1700

Gli incontri con le malattie infettive, irrilevanti prima dell’arrivo delle popolazioni europee e africane nel Nuovo Mondo, provocarono un imponente disastro demografico fra gli Amerindi sterminati dal vaiolo più che dalle armi degli invasori.

Senza questa malattia, sconosciuta alle popolazioni del Nuovo Mondo e interpretata come punizione divina, gli Spagnoli non sarebbero riusciti a conseguire la vittoria sugli Aztechi in Messico e sugli Inca in Perù. Dio sembrava favorire i bianchi e arrendersi alla superiorità spagnola, convertendosi poi alla loro religione, era la sola reazione possibile.

Altre epidemie si succedettero in quei territori che non raggiunsero mai una stabilità epidemiologica.

In Europa invece, tra 1300 e il 1700, si giunse a un progresso fondamentale: la “domesticazione” delle malattie epidemiche, che si trasformarono in malattie infantili, divenendo progressivamente endemiche e garantendo un regolare aumento della popolazione.

Va considerato inoltre il fatto che l’introduzione di piante e animali del Vecchio Mondo danneggiò gli equilibri ecologici preesistenti nelle Americhe, mentre le piante da lì esportate verso l’Europa garantirono la possibilità di produrre quantità supplementari di cibo.

McNeill insiste nel sottolineare come questa sia una vicenda esemplare per dimostrare il ruolo avuto dalle malattie infettive nel modellare la storia umana. Gli Europei acquisirono la tecnica della navigazione transoceanica e conquistarono molte regioni del mondo, ma la batteriologia fu importante almeno quanto la tecnologia nel decretare la loro supremazia.

L’influsso della scienza medica e dell’organizzazione sanitaria sull’ecologia a partire dal 1700

La creazione di nuovi equilibri ecologici si verificò soltanto nelle aree del mondo caratterizzate da stabilità politica e dalla possibilità di espandere la propria produzione agricola in modo da garantire un regolare aumento demografico.

Un maggiore ricorso all’allevamento del bestiame comportò ad esempio una maggiore assunzione di proteine nella dieta umana e un potenziamento nella formazione di anticorpi contro le infezioni.

Fra il 1200 e il 1700 i medici europei acquisirono nuove competenze grazie alle scuole di medicina e agli ospedali dove potevano osservare ripetutamente i sintomi e il decorso di una patologia.

Ma fu solo a partire dalla fine del XIX secolo che la ricerca medica riuscì ad isolare i germi delle varie malattie infettive ancora capaci di provocare milioni di morti come ad esempio il colera, procedendo anche alla realizzazione dei vaccini, come quello del vaiolo.

I primi decenni del XX secolo videro poi la nascita della medicina preventiva che perseguiva soprattutto il miglioramento delle condizioni igieniche delle case, dei servizi sociali, delle riserve idriche.

Va sottolineato l’importante ruolo dell’amministrazione sanitaria militare preoccupata di tutelare la salute degli eserciti, elemento fondamentale per l’affermazione dello Stato nel continente europeo.

Nonostante i continui progressi, la tecnica e la scienza non hanno ancora liberato l’umanità dalla sua antichissima condizione che la rende vulnerabile ai microparassiti e per il futuro immediato rimane evidente che stiamo attraversando uno dei più grandi sconvolgimenti ecologici mai conosciuti dal nostro pianeta.

Livia Tiazzoldi


McNEILL, William Hardy. La peste nella storia. L’impatto delle pestilenze e delle epidemie nella storia dell’umanità. Milano: Res Gestae, 2012 (1975). 282p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.14, p.149-152, dic., 2020. Acessar publicação original 

La mamma, Collana L’identità italiana – D’AMELIA (BC)

D’AMELIA, Marina. La mamma, Collana L’identità italiana. Bologna: Il Mulino, 2005. 311p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.13, p.124-127, lug., 2020.

Marina d’Amelia, docente di storia moderna all’Università “La Sapienza ” di Roma e appartenente alla Società Italiana delle Storiche, si propone con questo libro di rispondere a un interrogativo ben preciso: quando nasce in Italia lo stereotipo della mamma responsabile della mancanza di senso civico da parte di cittadini educati al protagonismo individuale più che al senso del bene comune? Un rapporto madre-figlio per descrivere il quale, negli anni ’50, Corrado Alvaro introduce il termine mammismo.

L’autrice si propone di dimostrare che questa immagine materna nasce col nuovo stato italiano, poco più di due secoli fa. Non vi è traccia infatti di madri iperprotettive nella civiltà romana, caratterizzata dalla centralità del padre, dove le donne delle famiglie più ricche si facevano sostituire dalle balie nella cura dei figli e ne affidavano l’educazione a istitutori e maestri. La tradizione giurid ica romana della patria potestà si è tramandata per un lunghissimo periodo informando di sé i codici di comportamento delle strutture familiari medievali e moderne.

Solo a partire dal tardo Settecento la mentalità collettiva comincia a guardare in modo nuovo alla relazione madre-figlio. Si fa strada una nuova visione del matrimonio, della famiglia e la consapevolezza dell’importanza del legame materno soprattutto con il figlio maschio.

Nel corso dell’Ottocento la cultura romantica, centrata sulla rivalutazione del sentimento e degli affetti privati, riscopre il femminile, attribuendo alla madre un ruolo privilegiato nella formazione sentimentale dei figli e anche un importante ruolo pubblico.

Nel volume, corredato da un’amp ia bibliografia illustrata e commentata, l’autrice delinea i tratti dell’immagine della madre italiana ripercorrendo i momenti fondamenta li del suo definirsi dal Risorgimento alla II guerra mondiale, rievocando molte figure femminili, molte testimonianze, scritture pubbliche e private.

Le madri risorgimentali

L’identità della madre italiana nasce nel Risorgimento ed è caratterizzata da un rapporto quasi simbiotico con il figlio, dall’ammirazione per tutto ciò che fa, da un eccesso di protezione nei suoi confronti e dall’intromissione nella sua vita privata.

È importante ricordare come il matrimo nio per le donne di quell’epoca non fosse frutto di una libera scelta, ma dell’obbedienza a una decisione paterna. La maternità invece era vista come vocazione e missione legata alla “rigenerazione della patria” attraverso l’educazione dei figli agli ideali di libertà, dedizione e senso del sacrificio, valori che saranno alla base della nuova Italia.

La figura della madre del patriota risorgimentale, dedita a sostenerlo durante l’esilio o nelle guerre di indipendenza, nasce negli ambienti patriottici mazziniani.

Dopo il 1848 si registra un maggio re coinvolgimento delle madri a favore dell’indipendenza italiana: organizzano campagne di propaganda con giornali e manifesti volti a mobilitare l’opinio ne pubblica.

Maria Drago, madre di Giuseppe Mazzini, e Adelaide Cairoli e i suoi numerosi figli si affermano come l’asse portante del mito di un Risorgimento che ne riconosce l’importanza pubblica in quanto capaci di mettere in moto grandi emozioni collettive.

Dopo l’Unità d’Italia, nel momento in cui si tratta di riscrivere la storia, l’icona della madre sacrificale viene posta alla base di un nuovo sentimento nazionale: diviene mito fondativo, emblema di una comune madre patria che unisce tutti i suoi figli in un comune vincolo di fratellanza.

La madre angelo del focolare nell’età liberale

In un momento storico in cui la maggioranza della popolazione italiana viveva in precarie condizioni di vita il pensiero positivista assegna alle madri il compito di rigenerare il patrimonio fisico e razziale della nazione, facendosi promotric i dell’allenamento ginnico sia dei figli che delle figlie e garantendo l’igiene dell’ambiente in cui li crescono. Si tratta di abbassare il tasso di mortalità infantile e di innalzare quello di alfabetizzazione.

Il nuovo modello è dunque quello della madre totalmente dedita alla casa, al benessere familiare, disponibile ad accogliere le indicazioni degli esperti sull’allevamento e sull’educazione dei bambini.

Le materie di igiene ed economia domestica entrano a far parte del currico lo scolastico dal 1899; proliferano inoltre manuali, riviste dedicate al pubblico femminile che insegnano alle donne come fare le madri.

In tal modo, osserva giustamente l’autrice, la presenza e l’ingerenza della madre nella vita del figlio diventa ancor più indiscutibile, fondata com’è su basi scientifiche.

Lo Stato si premura comunque di ribadire la preminenza della volontà paterna nella vita dei figli, ma questo non impedisce di perpetuare in altra forma l’idea di una relazione materna appagante di per se stessa, all’interno della quale le donne possono sublimare una vita fatta di subalternità e insoddisfazione coniugale.

L’amore materno è insomma un sentimento esclusivo, molto diverso da quello paterno, che non lascia spazio ad altro. Deriva da un compito preciso assegnato dalla Natura alla donna in quanto conservatrice della specie e somiglia ad una lava sempre rovente che ribolle continua nel vulcano del cuore. Solo dopo Freud, aggiunge l’autrice, ci si interrogherà su quali ambivalenze si nascondano dietro tanta dedizione materna.

Ben radicata rimane la centralità della maternità nel primo decennio del Novecento e se ne trovano molte testimonianze nelle riviste femminili che, pur riconoscendo il diritto all’emancipazione femminile , insistono sulla specificità della donna latina , contenta di essere donna grazie alla missio ne ricevuta dalla Natura di mettere al mondo un figlio.

La maternità si impone dunque come elemento fondante e irrinunciab ile dell’identità femminile, contrappo sto all’egomania che connota l’unive rso mentale maschile.

La madre cattolica

La Chiesa cattolica non si sottrae al compito di indicare le caratteristiche della madre ideale, incaricata dell’educazione religiosa dei figli, chiamata a difendere il suo sacerdozio d’amore, così lo definisce Beppe Fenoglio nel libro La vera madre di famiglia, dalle richieste di uguaglianza e parità, dalla pericolosa concorrenza di dottrine laiche , dalla tentazione di seguire le mode straniere del tempo.

Caratteristica peculiare della madre cattolica è quella di dover essere una presenza silenziosa, capace di controllare le proprie emozioni. Le parole che non siano preghiere sono giudicate superflue e immodeste. Va coltivata anche la virtù del non rivendicare mai le proprie ragioni, pur sapendo di averle, ma di soffocare gli scontri in un sospiro, di nascondere e dissimulare le pene. Il Papa Pio X nel 1906 dichiara che la donna non deve votare, ma deve votarsi a un’alta idealità di bene umano.

Degli ideali di emancipazione femmin ile si fanno carico nel frattempo associazioni e movimenti di ispirazione socialista che si battono per l’istruzione, la parità salaria le fra uomo e donna e il suo diritto al voto.

I primi anni del Novecento vedono un importante cambiamento nelle direttive cattoliche che incoraggiano sia l’istruz io ne che la partecipazione femminile alla vita pubblica. Si riconosce alle donne il ruolo missionario di difesa dei valori cristia ni nella società.

Madri e Grande guerra

In piena continuità con il modello sacrificale proposto in età risorgimentale, la guerra chiede alle madri italiane di appellarsi al proprio senso del dovere e di sostenere i figli impegnati nello sforzo bellico, sintonizzandosi con il loro vissuto emotivo soprattutto attraverso lo scambio epistolare che raggiunge quasi i quattro miliardi di lettere e cartoline, con una media di circa tre milioni al giorno. Ne risulta un’immagine di madre disposta a penare silenziosamente, centrata sul desiderio di rispecchiare le aspirazioni dei figli e percepita come un talismano, come presenza salvifica, ultimo rifugio dallo smarrimento.

La guerra attiva inoltre molti organismi di solidarietà e di mobilitazione civile che riconoscono un ruolo centrale alle madri, ruolo ribadito alla fine del conflitto quando lo Stato italiano decide di celebrarne l’eroismo e il sacrificio con un monume nto , La Pietà di Libero Andreotti, collocato nella Chiesa di Santa Croce a Firenze e idealmente collegato con quello del Milite Ignoto a Roma.

L’enfatizzazione di questo specifico ruolo della donna lascia troppo nell’omb ra , secondo l’autrice, alcuni elementi chiave della vita femminile di questi anni come le manifestazioni contro la guerra, la diffusione del lavoro femminile, la crescente fatica di sopravvivere di molte donne diventate capifamiglia e l’impossibilità di dare voce a sentimenti e angosce repressi in nome della coerenza.

La figura della madre in epoca fascista

Alla celebrazione della maternità il fascismo dedica una festa particolare: la Giornata della madre e del fanciullo, grande “rito di amore e orgoglio nazionale” avente lo scopo di sollecitare l’incremento della popolazione.

Vi si celebra l’immagine della donna sposa e madre prolifica esemplare, tenace custode della morale sessuale tradiziona le , soprattutto nei confronti delle figlie femmine, anche se i confini di ciò che è lecito vengono definiti dal padre. Il comportamento autoritario della famiglia ha come conseguenza quella di reprimere il desiderio di affermazione e indipendenza delle figlie.

Il partito fascista cerca in ogni modo di evitare qualunque possibile commistione fra maschi e femmine sia in ambito scolastico che durante le manifestazioni pubblic he riservate ai giovani.

Comunque, grazie alle adunanze, alla divisa, alle decorazioni, le ragazze scoprono la possibilità di una sia pur piccola liberazione dal controllo familia re , alimentando in se stesse il desiderio di un’emancipazione futura.

Il modello ideale proposto dal regime fascista è quello di Rosa Maltoni, la madre del Duce, donna semplice ma ricca di spiritualità , trasformata nel mito celebrativo della donna capace di sostenere l’ascesa sociale dei figli, opponendo un fermo rifiuto a tutti i mali che possono disgregare la famiglia. Predappio, luogo natale di Mussolini diviene meta di pellegrinaggi per onorare in lei tutte le madri della Nuova Italia.

La figura della madre nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza

Mentre il Risorgimento e la Grande guerra avevano fatto leva sull’ero ismo silenzioso delle madri comuni disposte al sacrificio pur di sostenere la causa patriottica, la seconda guerra mondiale ne esalta questa caratteristica soltanto fino all’ 8 settembre 1943 che vede il disgregarsi improvviso dell’esercito.

Le madri non vengono risparmiate dall’orrore di quanto accade successivamente ed è difficile per loro superare la barriera delle opposte appartenenze dei propri figli.

Alcune si ritrovano ad essere madri di partigiani o partigiane esse stesse pronte ad impegnarsi e lottare nella Resistenza, altre si schierano con il fronte dei Repubblichini di Salò arruolandosi nel servizio ausilia rio femminile.

Il pensiero della madre percepita come rifugio rassicurante accomuna invece il sentire dei due schieramenti, a conferma di una fratellanza che la logica di guerra nega, ma anche di uno stretto collegamento fra istinto di sopravvivenza e bisogno di protezione.

Livia Tiazzoldi

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Culture del consumo – CAPUZZO (BC)

CAPUZZO, Paolo. Culture del consumo. Bologna: Il Mulino, 2006. 334p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.179-183, giu./nov., 2019.

Paolo Capuzzo, docente di storia contemporanea presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà  dell’Università di Bologna, ricostruisce in questo libro la nascita, lo sviluppo della società dei consumi e le modificazioni culturali che ne accompagnano l’espansione in Europa tra il Seicento e l’inizio del Novecento. L’esperienza europea è collocata all’interno del processo che dalle prime conquiste coloniali ha portato alla formazione dell’economia mondiale.

Si mettono a fuoco da un lato la progressiva acquisizione di forza politico-economica della società europea, in particolare di quella dell’Europa urbana del Nord, dall’altro la sua capacità di democratizzarsi, nel momento in cui le classi subalterne si appropriano di beni inizialmente appartenenti alla sfera del lusso.

Il libro è suddiviso in 5 capitoli preceduti da un’Introduzione nella quale vengono delineate le linee di forza dell’intero percorso e le tematiche centrali:  • il rapporto tra consumi europei e commercio mondiale  • la dimensione etica del consumo  • la costruzione della sfera privata  • la regolazione dei rapporti di classe  • la costruzione di uno spazio pubblico del consumo   “Ricostruendo la storia della diffusione dello zucchero, del caffè, del tabacco, del tè, della cioccolata è possibile- scrive l’autore- mettere in evidenza i rapporti tra la domanda europea, la conquista di basi e monopoli commerciali, l’organizzazione della produzione di questi beni.

La diffusione delle nuove bevande mostra poi come, una volta approdate nei grandi porti commerciali europei, queste merci subissero un variegato processo di appropriazione da parte dei consumatori […]. Le nuove culture del consumo che si costruiscono in Europa attraverso queste bevande non sono, insomma, un epifenomeno dell’espansione coloniale, ma rispondono a un processo di produzione della quotidianità, nella quale agiscono soggetti che si appropriano di tali risorse.” (p. 10).

Nel momento in cui la ricchezza e il potere non derivano più dall’appartenenza ad un ceto sociale, ma dal successo del mercato sono i modi del consumo a decidere dell’inclusione o dell’esclusione da una determinata cerchia sociale.

Il lusso si popolarizza sovvertendo le tradizionali gerarchie sociali. E’ dunque evidente il legame tra la diffusione dei liberi consumi e il progresso della democrazia.

I processi di consumo appartengono ad una sfera dotata di autonomia, ma sono in stretta relazione con la definizione delle identità, con la costruzione dei rapporti sociali e di genere.

Il consumatore non è visto come un terminale passivo di un processo di manipolazione dei suoi desideri, ma come individuo capace di attribuire un significato al consumo, pur all’interno di un habitus, cioè di un insieme di principi legati all’estrazione sociale e interiorizzati fin dall’infanzia che ne orientano l’azione attribuendo un determinato valore alle cose.

Tale habitus viene progressivamente messo in crisi dal processo di commercializzazione, dalla logica del profitto, che utilizza la moda e la pubblicità come criterio di valore di una merce.

“La forza semiotica della commercializzazione contemporanea, scrive ancora l’autore, è certamente un carattere inedito nella creazione dell’immaginario, cosa che distingue la nostra società da quelle precedenti […] tuttavia i consumatori continuano a far udire la loro presenza […]”. (p. 15 ).

Ciascuno dei cinque capitoli in cui si articola il volume offre una sintesi ragionata degli studi prodotti dalla storiografia internazionale sui vari temi, corredata da un’ampia bibliografia.

Capitolo 1. Consumi europei e globalizzazione del commercio tra XVII e XVIII secolo

Si analizza in queste pagine l’espansione del commercio europeo all’inizio dell’Età moderna, la nascita di una prima globalizzazione collegata al colonialismo e ad una grande disponibilità di risorse materiali.

Si sottolinea il fatto che gli sviluppi e il rinnovamento dei consumi in Europa sono intimamente connessi ad un nuovo assetto del potere mondiale ottenuto con la disponibilità finanziaria, la superiorità tecnologica, con la forza delle armi e con la deportazione della manodopera africana impegnata nelle miniere di metalli preziosi e nelle piantagioni americane.

Le colonie sono luogo da cui prelevare materie prime come zucchero, caffè, legname, tabacco, cotone da trasformare e rivendere poi come prodotti finiti a prezzi ben più alti.

Sulle tavole europee arrivano nuovi prodotti (patate, pomodori, cacao, fagioli, frutta tropicale, mais, zucche) inizialmente utilizzati solo dalle classi sociali più alte, ma accessibili poi anche ad altre classi sociali, quando la produzione col sistema delle piantagioni e la commercializzazione su larga scala ne abbassano i prezzi.

Caffè, tè e tabacco (il primo dei prodotti esotici ad essere consumato dalle masse) vengono subito apprezzati per la loro capacità di garantire lucidità, al contrario del vino.

Il consumo di questi prodotti si associa anche a una specifica ritualità praticata in nuovi spazi pubblici come le coffee e le tea houses, fattori formidabili di “sociabilità”, o nelle case private, nell’ambito di un mondo soprattutto femminile.

I primi locali detti caffè, dal nome della bevanda che vi si consumava, nascono a Venezia alla metà del Seicento e diventano di moda nel secolo successivo in tutte le grandi città europee. Sono frequentati da un’ élite di uomini d’affari che leggono i giornali, discutono di politica. Vi si aggiungono poi artisti e scrittori.

Capitolo 2. Lusso, moda e ordine sociale tra XVIII e XIX secolo

Il capitolo è dedicato nella prima parte ad una riflessione sul lusso, alla sua funzione nella società di corte, in particolare quella francese, e alla sua progressiva “popolarizzazione”.

Nelle società di corte il consumo designa un modello particolare di sociabilità, quello dei cortigiani e delle cortigiane, che si afferma poi come modello anche nelle grandi città europee come Parigi, la capitale del gusto, soprattutto per le donne che frequentano i salotti dell’alta società. Quello dell’apparire, grazie all’uso di cosmetici, gioielli, abiti eleganti, diventa un valore sempre più ricercato dai nuovi ricchi, da esibire sia nella sfera privata che in quella pubblica dei teatri, delle sale da musica, dei ristoranti.

Nei contesti cittadini è lo stile del consumo a decretare l’inclusione o l’esclusione da una certa schiera di persone. La ricchezza derivante dal mercato ha sostituito la nobiltà di nascita nella costruzione della posizione sociale e pubblica, soppiantando anche qualunque codice etico nell’accumulazione del reddito.

Nasce in questi anni la categoria di “povertà” dove la miseria materiale è strettamente connessa a quella morale.

La questione dell’apparire contrapposto all’essere è al centro di molti dibattiti nel Settecento: c’è chi critica il lusso in nome di un ideale di uguaglianza sociale, chi lo considera un’opportunità per scardinare un rigido ordinamento sociale.

Molti autori concordano sul fatto che la grandezza delle nazioni si fonda sul lusso, sulla forza economica, non sulle virtù dei cittadini: è impossibile controllare e organizzare una società in base a dei valori condivisi che restano appannaggio della sfera privata.

Il dibattito proseguirà nei secoli successivi accanto al filone della critica moralistica del lusso considerato responsabile della decadenza culturale.

La seconda parte del capitolo affronta la questione della moda come nuova dimensione del consumo a partire dalla fine del Settecento. L’ostentazione del lusso cede il passo alla sobrietà, alla scelta di un abbigliamento regolato da specifici galatei, diversificato in base all’età, alle differenze di genere e ai vari contesti.

La diffusione della moda è legata agli spazi urbani delle città, alle vetrine dei negozi, alle illustrazioni colorate e alla pubblicità sui giornali.

Essere bella, elegante, consona alle varie situazioni sociali è una precisa missione sociale per la donna borghese dell’Ottocento: è occasione di legittimazione sociale e anche indiretta dimostrazione del successo economico maschile.

Le classi sociali inferiori subiscono il fascino della moda e sono spinte a imitare quelle superiori che, dal canto loro, cambiano spesso abbigliamento per mantenere la distinzione.

Si innesca così un meccanismo di continua emulazione. Lo sviluppo della moda in Inghilterra alla fine del Settecento può essere considerato come una delle cause della rivoluzione industriale favorita anche dall’importazione del cotone, usato per produrre tessuti meno costosi.

Nel corso dell’Ottocento la produzione del vestiario si diversifica in base a due segmenti di mercato: quella industriale di massa sia per i lavoratori delle grandi città che per le uniformi dell’esercito e quella dei laboratori di sartoria che, grazie all’uso delle macchine da cucire, confezionano abiti su misura per la clientela più ricca.

Il Novecento vede poi l’allargamento della classe media e la nascita dei grandi magazzini che propongono abiti colorati, in fibre sintetiche, standardizzati, ma anche diversificati in base alle varie esigenze della vita moderna.

Capitoli 3 e 4. Culture del consumo delle classi medie e della classe operaia

Questa parte del libro è centrata sull’analisi e sul confronto fra queste due classi sociali in un periodo che va dal 1700 all’inizio del 1900.

Le descrizioni sono declinate al plurale tenendo conto delle variabili geografiche, delle trasformazioni nel corso del tempo, delle dinamiche di distinzione, conflitto, emulazione.

Della classe media si sottolinea l’importante funzione di separare lo spazio pubblico da quello domestico, luogo della convivenza familiare, al riparo dalla corruzione della città.

Le famiglie borghesi in Olanda e in Inghilterra hanno il compito di ricostruire una sfera morale che l’economia e la politica non sono in grado di proporre.

Il lavoro femminile si sposta all’interno della casa dove la moglie si dedica all’amministrazione, all’arredamento, alla cucina e alla cura dei figli lasciando al marito il compito di provvedere alle necessità economiche della famiglia.

La classe operaia valorizza molto meno la sfera privata della casa, dove molte donne non possono inizialmente svolgere un ruolo simile a quelle della borghesia. Sono spesso costrette a lavorare in fabbrica assieme ai mariti e ai figli, con i quali condividono anche momenti di tempo libero fuori casa: in spazi pubblici, pub e taverne, luoghi di consumo di alcol, gioco e scommesse.

Le tipologie abitative delle due classi sociali sono ampiamente descritte e messe a confronto per quanto riguarda il numero di stanze, l’arredamento, le spese destinate ai consumi domestici.

Tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento la classe media, fatta di commercianti, imprenditori, professionisti e funzionari statali, assume un ruolo sempre più importante nell’Europa nord-occidentale dove si affermano il capitalismo industriale e lo stato moderno.

Il processo di privatizzazione dello spazio abitativo diventa uno dei principi che regolano i consumi nel XX° secolo per quanto riguarda la tipologia delle case e l’arredamento: nasce l’industria di massa del mobile e dei beni durevoli.

La separazione fra spazio privato e pubblico è alla base anche dell’edilizia seriale del Novecento, secolo nel quale gli stili di consumo della classe operaia cominciano ad avvicinarsi a quelli della classe media.

La riduzione dei tempi di lavoro nelle fabbriche lascia spazio a partire dalla fine dell’Ottocento a momenti di divertimento: il gioco del calcio, le vacanze, favorite anche dai mezzi pubblici di trasporto come ferrovie e tram.

La Grande Guerra rappresenta un ulteriore momento di profonda trasformazione della società europea per quanto riguarda la massificazione degli stili di vita, trasformazione che si compie pienamente negli anni Cinquanta dello stesso secolo.

L’industria della cultura di massa è fondamentale nel Novecento: è strumento per regolare il tempo libero, ma anche terreno di eversione identitaria.

Capitolo 5. Lo spazio pubblico del consumo: geografia urbana e reincanto del mondo

Si affronta il tema del consumo come forma di evasione dalla quotidianità, momento da vivere in grandi città quali Londra e Parigi, negli spazi che allestiscono lo spettacolo delle merci dove è possibile sognare ad occhi aperti.

L’autore sottolinea in particolare le trasformazioni della geografia urbana e dei flussi di traffico provocati dalla nascita dei grandi magazzini, strutture sviluppate su più piani, dotate di grandi vetrine e insegne luminose. Questi nuovi spazi pubblici del consumo sono frequentati soprattutto dalle donne della classe media, libere di muoversi anche non accompagnate dagli uomini.

Interessanti le osservazioni a proposito della nuova figura delle commesse che anticipano stili di vita femminili del Novecento.

La commercializzazione dei prodotti riceve un grande impulso nella seconda metà dell’Ottocento dalle grandi esposizioni di Londra, Vienna, Parigi che nel 1900 totalizza quasi 50 milioni di visitatori.

Livia Tiazzoldi

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Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta – FILIPPINI (BC)

FILIPPINI, Nadia Maria. Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta. Roma: Viella, 2017. 349p. Resenha de: TIAZZOLDI, Livia. Il Bollettino di Clio, n.9, p.75-78, feb., 2018.

Nadia Maria Filippini, già docente di Storia delle donne presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e socia fondatrice della Società Italiana delle Storiche, propone un’articolata analisi diacronica di lunga durata sul tema della maternità nella cultura occidentale, all’insegna della continuità nella trasformazione.

Ne sottolinea la complessità, evidenziandone le molteplici sfaccettature culturali, sociali, scientifiche che stanno alla base di rituali, pratiche terapeutiche, norme civili e religiose, forme di controllo e potere.

La storia del parto è un capitolo fondamentale della storia delle donne, sostiene l’autrice nell’introduzione, ed è strettamente legato alla codificazione del genere dato che, per secoli, l’essere donna ha coinciso con l’essere madre e l’essere madre è stato criterio di misura del valore femminile. “Su questa capacità si concentravano dunque aspettative individuali, familiari, sociali, ma anche forme di tutela, controllo, disciplinamento che avevano il loro epicentro nella famiglia (con le sue interne gerarchie), nell’istituzione ecclesiastica e in quella politica.”  Luoghi, figure, rituali e pratiche terapeutiche riguardanti la gravidanza e il parto vengono proposti come osservatorio privilegiato per analizzare sia la storia delle donne che quella sociale e culturale con le sue trasformazioni: dalla progressiva costruzione del discorso medico-scientifico nel mondo antico, alle innovazioni del cristianesimo, all’affermarsi della figura del chirurgo-ostetricante nel Settecento, alla medicalizzazione del parto, fino alla rivoluzione delle tecnologie riproduttive del Novecento.

L’idea presente già nel titolo è quella di mettere a fuoco i vari soggetti coinvolti: alla capacità della donna di partorire è stata opposta per secoli quella maschile di generare, mentre il verbo nascere mette in evidenza il punto di vista del feto/neonato la cui importanza varia in base al modificarsi delle rappresentazioni che lo connotano nel tempo, condizionando di conseguenza pratiche e principi deontologici.

Grande centralità è data alla scena del parto che permette di analizzare i luoghi (la casa e poi l’ospedale), le pratiche adottate, i soggetti coinvolti (la madre, la levatrice, il medico) i cui ruoli cambiano nel tempo in un continuo confronto professionale e di genere fatto di collaborazione, ma anche di contrapposizione.

Il libro è suddiviso in quattro parti. La prima parte (Rappresentazioni culturali) mi sembra particolarmente interessante e spendibile sul piano didattico, nel caso si voglia attivare una riflessione su come sia cambiata nel corso del tempo l’idea di generazione e nascita.

Vi si analizzano le grandi rappresentazioni fondanti la differenza di genere nella cultura occidentale e che si ritrovano nei miti, nel linguaggio con le sue metafore e proverbi, nella filosofia, nelle raffigurazioni artistiche, nella religione pagana e cristiana.

Ci si rende subito conto della dicotomia maschile/femminile; di come esista una continuità di lunghissima durata dell’idea dell’uomo come seminatore, come principio attivo della generazione, e della donna come un campo da seminare, passivo, posseduto da un contadino-padrone che lo rende fertile.

Questa impostazione è alla base di una tradizione di pensiero che attraversa la cultura greca con Ippocrate e Aristotele, quella araba, il pensiero di Tommaso d’Aquino ripreso poi da Dante Alighieri, fino al Settecento.

La superiorità del maschile sul femminile è sottesa anche all’idea del “partorire con la mente” (Platone), appannaggio esclusivo dell’universo maschile. Socrate parla di maieutica e si paragona in quest’arte alla madre ostetrica, con la differenza che, mentre lei fa nascere i bambini, lui aiuta i suoi allievi a partorire i prodotti della mente (arte, letteratura, filosofia) che garantiscono fama immortale.

Il parto di Atena dalla testa di Zeus esemplifica come il mito e la religione abbiano attribuito ad un Dio maschile perfino la capacità di generare e di partorire. Le dee madri di antica tradizione vengono dimenticate e la coppia Zeus-Atena sostituisce quella preindoeuropea di Demetra-Core, provocando una forte rottura di identità e di alleanze nella storia delle donne.

La Medea di Euripide propone una stretta analogia fra parto e guerra, due prove dolorose da superare, ad alto rischio di morte, che si giocano in aree separate: gli uomini vanno in guerra, le donne partoriscono con l’aiuto di altre donne (levatrici, vicine di casa, familiari). Però, mentre la guerra dei maschi ha carattere fondativo di una civiltà, viene raccontata ed esaltata nella figura dell’eroe, la guerra delle donne (il parto) resta confinata nel chiuso delle pareti domestiche ed è esclusa dal racconto pubblico.

A differenza di quanto accadeva nel mondo antico, il cristianesimo pone al centro il momento della nascita, valorizzando il rapporto madre-figlio, ma, nel corso del tempo, priva sempre più la Vergine (anche nelle rappresentazioni artistiche) delle tracce di maternità corporea. La Madonna è una madre spirituale più che fisica, esente non solo dal peccato originale, ma dagli stessi dolori del parto (dogma dell’Immacolata Concezione del 1854).

La corporeità del parto, sinonimo di impurità, viene invece attribuita ad un’altra figura femminile: Eva, responsabile dell’introduzione della morte nel mondo e incaricata di espiare con le doglie il peccato originale.

L’idea cristiana del dolore come espiazione del peccato distoglierà per molto tempo la ricerca medico-scientifica dall’indagine sulle cause del dolore e sui farmaci per contrastarlo.

L’influenza del pensiero cristiano ha determinato nelle donne un vissuto molto contraddittorio in bilico tra orgoglio e vergogna, tra fierezza e silenzio: da un lato la maternità viene esaltata come realizzazione di un dovere e di un comandamento divino (il modello è la Madonna), dall’altra viene mortificata sul versante corporeo (oggetto di scandalo, segregazione in casa ed esonero dalla messa). Il parto è diventato un tabù, cancellato perfino dal linguaggio: si racconta che i bambini nascono sotto ai cavoli o li porta la cicogna.

Nella seconda parte (Partorire e venire al mondo dall’antichità al Settecento), utilizzabile sul piano didattico per ragionare sul potere declinato al femminile (subìto, agito, condiviso, invidiato), si descrive la gravidanza come esperienza peculiare della donna, il cui corpo è sottoposto a forme di controllo sociale con divieti e obblighi rituali, oggetti scaramantici. Interessante la questione introdotta dal cristianesimo relativa al momento in cui Dio infonde l’anima nel feto: il quarantesimo giorno se è maschio, l’ottantesimo se è femmina. Dopo la Controriforma la data si sposta al terzo giorno dal concepimento.

Varie pagine sono dedicate al parto, al puerperio, alla nascita, alle credenze ed ai rituali connessi prima nel mondo antico, poi nel mondo cristiano, quando la Chiesa impone il suo controllo sulla sfera della sessualità e della riproduzione.

Si evidenziano permanenze di lunga durata e rielaborazioni simili in tutta Europa (Francia, Germania e paesi anglosassoni con vari esempi di storia veneziana). A questo discorso si intreccia poi la descrizione della nascita del pensiero medico antico e della sua lunga continuità nell’occidente medievale e moderno.

Attenzione particolare è data alla figura della levatrice, presenza fondamentale sulla scena del parto sia nel mondo antico che nell’Occidente cristiano, ma anche figura di riferimento in caso di problemi legati al ciclo mestruale, all’allattamento, in casi di sterilità o stupro o per indurre un aborto attraverso pozioni particolari, incantesimi e amuleti. Per questa sua partecipazione sia alla sfera della vita che a quella della morte, questa donna appariva ambigua allo sguardo degli uomini, esclusi da quel mondo di conoscenze e pratiche. Alla levatrice si collega anche il concetto di nascita sociale che sancisce, attraverso un rituale, l’ingresso del nuovo nato nella famiglia e nella società. Essa infatti assiste alla nascita naturale, ma consegna poi il neonato al padre e lo affianca, assieme alla madrina, nel rito del battesimo, da cui la madre è esclusa. Talvolta è lei stessa a fare da madrina, diventando la madre spirituale del bimbo, ed è comunque autorizzata ad amministrare il battesimo “sotto condizione” in caso di pericolo di vita del neonato al momento della nascita.

La terza parte (Lo snodo del Settecento) si confronta col XVIII secolo, un periodo di profonda trasformazione nella storia della nascita per i cambiamenti che investono sia la scienza che il contesto socio-politico.

Si impongono nuove teorie sulla fecondazione e sullo sviluppo fetale e si afferma la figura del chirurgo-ostetricante che modifica la secolare tradizione di presenza esclusivamente femminile sulla scena del parto.

Emerge da parte degli Stati un interesse specifico per il controllo della popolazione e nasce il biopotere il cui fine è quello di potenziare e gestire la vita, il corpo stesso delle persone, controllando salute, natalità mortalità.

In linea con questa nuova concezione si colloca il processo di personificazione dell’embrione-feto e l’affermarsi dell’idea del feto-cittadino, che giustifica l’intervento pubblico nel settore della nascita. Vengono istituite le scuole ostetriche, nascono gli ospedali per partorienti.

L’ultima parte (Le molteplici rivoluzioni del Novecento) affronta l’età contemporanea quando il biopotere si afferma sempre di più fino ad arrivare alle politiche eugenetiche e demografiche dei regimi totalitari, in particolare del nazismo, e quando il parto diventa sempre più soggetto alla medicalizzazione e all’ospedalizzazione.

Si affermano nuove tecniche come l’ecografia, definita un “nuovo rito conoscitivo”, la psicoprofilassi e l’analgesia.

Dal punto di vista legale si arriva progressivamente, in un numero crescente di paesi, alla legalizzazione della contraccezione e dell’interruzione volontaria di gravidanza, al varo di leggi a tutela della maternità.

Si fa sempre più strada, sulla spinta delle rivendicazioni femministe, l’idea dell’autodeterminazione della donna e della maternità come libera scelta e viene messo in discussione l’automatismo del legame sessualità-procreazione. Anche la figura del padre acquista un ruolo più partecipe, sia durante la gravidanza che al momento della nascita.

La fecondazione artificiale infine apre nuovi orizzonti coniugando il termine di maternità con quello di diritto, mentre si diffondono nella società nuovi modelli genitoriali e familiari (famiglie arcobaleno).

La crioconservazione di ovuli e spermatozoi sembra assicurare una specie di immortalità biologica all’individuo, non più legata alla filiazione reale, ma già realizzata nell’idea di filiazione possibile.

Alle soglie del terzo millennio, l’autrice sottolinea la presenza di aspetti contraddittori: le gerarchie di genere alla nascita sono state scardinate nei paesi occidentali, ma l’applicazione della tecnologia ha portato all’alterazione del rapporto naturale tra i sessi in molte parti del mondo; l’applicazione di alcune leggi a favore della donna non è sempre praticata, la fecondazione assistita rimane un privilegio per gli alti costi; la maternità è certamente una scelta, non più un obbligo o un destino, ma la crisi economica e la precarietà dei contratti di lavoro compromettono a volte una effettiva libera scelta.

In estrema sintesi si può dire che queste stimolanti pagine evidenziano la continuità nel tempo di quattro nodi fondamentali: l’idea di impurità legata alla sessualità femminile; il carattere ambivalente sul piano sociale e culturale dell’esperienza del parto (sacro, ma anche indicibile); la connotazione culturale di parto e nascita, definiti dall’ambiente in cui avvengono, dai rapporti fra i generi, dalle conoscenze mediche e anatomiche; il corpo femminile al centro di continui scontri di potere.

Il libro, che si conclude con un’ampia bibliografia ragionata in cui si valorizzano gli studi femminili, fornisce agli insegnanti una grande ricchezza di elementi per un approccio didattico ampio e articolato anche sul piano interdisciplinare. Potrebbe essere interessante un percorso sul tema dei diritti umani (acquisiti in alcune parti del mondo, non ancora in altre dove sopravvivono situazioni simili a quelle descritte nel testo e riferite al passato dei paesi occidentali), con collegamento agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU.

Livia Tiazzoldi

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