I sepolti vivi / Gianni Rodari e Silvia Rocchi

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Giane Rodari nell’ URSS, 1979. La Repubblica /

RODARI G I sepolti vivi sepolti vivi“Sotto terra va il minatore, /Dove è buio a tutte le ore “. Sono versi di Gianni Rodari inseriti in I luoghi dei mestieri, ( Torino, Einaudi, 1960), una filastrocca fatta per i bambini, per la scuola, per imparare e anche per divertire. Ma alle spalle di quei versi, come spesso gli accadeva, c’era una storia vera. Alcuni anni prima, nel 1952, nelle vesti di cronista del settimanale “Vie nuove”,  egli aveva raccontato lo sciopero dei minatori di Cabernardi, provincia di Ancona, la più grande miniera di zolfo d’Europa. Lì 300 persone si erano asserragliate a 500 metri di profondità per difendere il loro lavoro.  Con la diligenza del cronista il giovane Rodari indica i fatti, elenca i numeri,  traccia un quadro della politica industriale del colosso Montecatini nel contesto della nuova Europa: produttività, modernizzazione…

Ma a un certo punto del racconto abbandona il filo della cronaca e segue la storia di Ernesto e Maria, due giovani sposi, separati dallo sciopero. Lui chiuso nelle viscere della terra, lei tenuta lontana dalle cure per il loro bambino e per il vecchio padre, ma anche dalla pressione delle forze dell’ordine che impedivano contatti diretti, rendendo pesante perfino la consegna del cibo. Rodari concentra l’attenzione su come quei giovani stessero vivendo non un’avventura, né una disgrazia, ma l’impegno per fare del proprio lavoro il mezzo con cui costruire Il loro futuro. Ma anche il loro disperato bisogno di vedersi, solo per uno sguardo, per una parola e immagina Ernesto rischiare la lunga, faticosa e pericolosa risalita per una ’uscita di sicurezza’ dalla miniera, non controllata dalla polizia perché ritenuta impraticabile. Un cunicolo da percorrere a tratti strisciando, fatto di gradini appena accennati e addirittura di arrampicate con funi, lungo un percorso che sembrava non finire mai e sempre con un rischio incombente.  Scrive Rodari : “Cinque ore di strada per nulla fece Ernesto Donini, un giovane minatore di Pergola, domenica, ventidue giugno. Voleva rivedere la moglie, dopo ventiquattro giorni, almeno per un istante. Maria non c’era. Ernesto gridò a qualcuno che l’andasse a chiamare, forse stava attorno alla miniera. Ma  alla fine dovette rassegnarsi e ridiscendere”. Per trovarsi all’appuntamento convenuto, la giovane moglie aveva lasciato il bambino di un anno al vecchio padre dalla salute malferma e aveva percorro 12 km a piedi. Ma, al momento opportuno, la polizia impedì loro di incontrarsi e anche solo di parlarsi.

Così Rodari racconta ciò che non era visibile della lotta operaia: l’umiliazione, con cui chi ha il potere cerca di sfibrare la resistenza di chi potere non ne ha.Hanno fatto bene Ciro Saltarelli e Silvia Rocchi a riprendere e valorizzare questo vecchio reportage, costruendo un libro ( Gianni Rodari, Sepolti vivi, da un’idea di Ciro Saltarelli e illustrazioni di Silvia Rocchi, con un pensiero di Gad Lerner, Torino, Einaudi, 2020)  che grazie ai disegni di Silvia Rocchi permette di tornare a riflettere con più calma sul senso del lavoro di Rodari. Perché questo libro non parla del passato. L’umiliazione come strumento di oppressione, oggi più che mai, è all’ordine del giorno in tutte le latitudini della terra. Ma attuale è anche l’impegno per combatterla. E su questo versante l’opera di Rodari è preziosa.  Per comprendere l’importanza di quello che era pur sempre uno dei tantissimi episodi di conflittualità economico-sociale dei cruciali anni 50, occorre ricordare che erano passati solo pochi anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana con al primo articolo il suo fondamento nel lavoro.Se per difendere il salario era necessario ricorrere a forme di lotta che mettevano a rischio la salute e la vita; se la polizia interveniva rendendo più difficile la resistenza, parteggiando così per una delle parti in conflitto, allora cos’era cambiato rispetto al fascismo? Quale discontinuità aveva introdotto l’assetto repubblicano? Qual era il senso vero della Repubblica fondata sul lavoro?Era chiaro che le recenti conquiste politiche non erano la fine, ma solo l’inizio di un nuovo cammino. Di un lungo cammino, per il quale necessitavano forze nuove e nuovi strumenti. Era questo il fronte su cui Rodari impegnò tutta la sua forza creativa. Lo disse espressamente presentando La grammatica della fantasia (1972): insegnare “tutte le parole a tutti, non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.

Il senso politico del lavoro narrativo dedicato ai bambini di Rodari non sta nel denunciare ingiustizie dolore e umiliazione di chi lavora, né di dare voce a chi non l’ha mai avuta. Molto più radicalmente egli elabora strumenti di lotta, mezzi che servano a chi li usa per difendersi e contrastare chi fa della parola e della cultura uno strumento di dominio. E come campo di battaglia scelse, lui maestro elementare, la scuola e i bambini che la vivevano. A loro ha dedicato la vita, scrivendo cose la cui bellezza da sola testimonia amore e dedizione. Così come, in questo testo, le tavole di Silvia Rocchi.

Franco Martina

Link per acquisto del libro: https://www.edizioniel.com/prodotto/i-sepolti-vivi-9788866566243/


RODARI, Gianni. I sepolti vivi. Da un’idea di Ciro Saltarelli. Illustrazioni di Silvia Rocchi. Resenha de: MARTINA, Franco. L’attualità di Gianni Rodari: “Insegnare le parole a tutti, perché nessuno sia schiavo”. Clio’92, 13 dic. 2020. Acessar publicação original

Marghera 1971: l’inizio di una fine. Un anno di lotta alla Sava – PUPPINI (CN)

PUPPINI, Chiara. Marghera 1971: l’inizio di una fine. Un anno di lotta alla Sava. Portogruaro (VE): Nuova dimensione editore, 2015. 191p. Resenha de: GUANCI, Enzo. Clio’92, 7 ago. 2019.

All’inizio del Novecento, cent’anni fa, il porto di Venezia era il secondo in Italia dopo quello di Genova, ma con spazi ormai insufficienti agli importanti traffici di petrolio e carbone necessari all’industria italiana da poco decollata. Di qui l’esigenza di creare un nuovo porto; si scelse l’area di Marghera. Si iniziò a scavare i canali per le navi e a costruire i collegamenti ferroviari con la vicina stazione di Mestre. Dieci anni dopo quell’area era diventata geograficamente strategica: un notevole porto industriale, con una buona rete ferroviaria e stradale alle sue spalle. Tra i protagonisti della realizzazione ci fu il conte Volpi, capitano d’industria e futuro ministro di Mussolini che nel 1926 riunì l’intero territorio nell’amministrazione comunale di Venezia. Era ormai nato quello che nel secondo dopoguerra diventerà il più grande polo industriale italiano, arrivando ad occupare, nel 1965, fino a 35 000 addetti, senza contare l’indotto.  Un polo chimico integrato, ma non solo: cantieri navali, vetrerie, fabbriche per fertilizzanti e materie plastiche, l’alluminio.

Stabilimenti enormi. Tanti.

Oggi, cinquant’anni dopo, “Marghera è un enorme spazio che pare senza confini, abbandonato (in apparenza), punteggiato da impianti lontani e spenti.” (Jacopo GilibertoPorto Marghera volta pagina. E prova a ripartire con l’industria ‘verde’, Il Sole 24ore, 8 gennaio 2015).

Qual è stato il processo che ha così trasformato questo territorio in solo mezzo secolo? Com’è successo?

Qualsiasi risposta rischia di essere semplificatoria. Chiara Puppini consegna con il suo libro l’inizio di questo processo. O meglio, uno degli inizi. E’ la crisi della Sava, un’azienda che nel 1966 produce il 36% dell’alluminio nazionale e possiede: 2 miniere di bauxite in Abruzzo e Puglia, 1 fabbrica di allumina, 2 fabbriche di alluminio, 1 centrale termoelettrica, 5 centrali idroelettriche, 3 navi da trasporto, 1 fabbrica per prodotti chimici, 50% di una fabbrica che produce polvere e pasta di alluminio, 1 istituto di ricerca.

Ebbene, nel 1971 “i dirigenti della Sava di Porto Marghera [comunicano alle organizzazioni sindacali] la decisione del Consiglio di Amministrazione della Alusuisse [proprietaria della Sava] di chiudere il 15 ottobre la fabbrica Allumina e di licenziare circa 800 lavoratori tra operai e impiegati” (p. 69) che, sommati ai 200 posti precedentemente in cassa integrazione, fanno 1000 licenziamenti!

Il libro racconta la lotta sindacale dei lavoratori per salvare l’azienda e con essa il loro posto di lavoro. La narrazione presenta gli avvenimenti attraverso le cronache giornalistiche dell’epoca, i volantini sindacali e i comunicati aziendali, le fotografie delle manifestazioni sindacali e quelle delle trattative tra sindacati e azienda, le interviste ai dirigenti aziendali e sindacali di allora. In quelle pagine si respira l’aria dell’epoca: la solidarietà operaia, la vicinanza effettiva delle istituzioni e delle forze politiche con chi lavora e produce ricchezza. Si sente – siamo agli inizi degli anni Settanta – una cultura che mette al centro il lavoro. Ciò nonostante, il 26 gennaio 1972 l’Allumina chiude. Nel 1973  l’area Sava di Marghera viene suddivisa con altre società e negli anni successivi l’intera produzione dell’alluminio a Marghera viene dismessa. Il 12 settembre 1991 ci sarà l’ultima colata di metallo.

Insomma.

La storia della Sava è paradigmatica: il primo episodio della crisi di Porto Marghera. Assistiamo in questi anni a cambiamenti rapidissimi: all’epoca si parlava di decenni, comunque un cambiamento era ineludibile. Lo stabilimento di Allumina di Marghera veniva rifornito di bauxite che proveniva dall’Istria, dalla Puglia, tutte miniere che negli anni Settanta non avevano più senso – se si pensa come veniva estratta la bauxite in Australia a cielo aperto. Era l’inizio di un certo tipo di globalizzazione.” (p.98)

Chi parla è Giorgio Berner, allora giovane dirigente della Sava.

“Allora c’era qualcuno che pensava che Porto Marghera per i successivi cinquant’anni potesse restare sempre così, invece purtroppo la realtà è in continuo movimento. Quando l’Alusuisse ha scoperto che in Australia non era più necessario andare sottoterra a ottocento metri per cercare quel minerale dal quale poi si ricavava l’allumina, ma c’erano miniere a cielo aperto, bastava andare con i bulldozer… da lì è incominciata ad andare in crisi … Porto Marghera” (p. 101)

Chi parla è Bruno Geromin, allora segretario dei metalmeccanici CISL a Marghera.

In conclusione.

La Puppini non vuole nascondersi dietro una falsa oggettività da ricercatrice ma prova a tirare delle conclusioni per il presente e per il futuro:

“Nell’ottica delle responsabilità occorre ripensare ai doveri/diritti di ciascuno; da una parte il dovere di rispettare l’ambiente e di garantire la produttività, dall’altra – cioè dalla parte operaia – il dovere di fare bene il proprio lavoro, ma il diritto di non morire sul posto di lavoro, il diritto di vivere in un ambiente sano, i cui tempi siano modulati sull’uomo e non sulla macchina, il diritto di trovare anche soluzioni migliorative, cioè di dare il proprio contributo di esperienze per un’umanizzazione dell’organizzazione del lavoro. Questo vuol dire riappropriarsi del proprio lavoro e responsabilità per le parti che competono a ciascuno; al finanziatore, al produttore, all’esecutore, al fruitore.” (p. 125)

La nostra autrice si accorge, però, che sta chiedendo tanto, forse troppo.

“Un sogno? Alle volte sognare aiuta a cambiare la realtà, poi, però, bisogna attrezzarsi per realizzare i sogni.”

Enzo Guanci

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