Minería y mundo festivo en el Norte Chico. Chile/1840-1900 | Milton Godoy Orellana

Milton Godoy ha estudiado a lo largo de la última década una metáfora que, en palabras del mismo autor, fue utilizada frecuentemente por viajeros y connacionales para referirse a un país fragmentado y con escasos grados de integración1. El presente libro logra entregar nuevas miradas respecto a esta región, desde una comprensión cultural, social y política, nutriendo la historiografía en cuanto a las relaciones sociales y la sociabilidad popular, que el siglo XIX amerita. Leia Mais

I sepolti vivi / Gianni Rodari e Silvia Rocchi

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Giane Rodari nell’ URSS, 1979. La Repubblica /

RODARI G I sepolti vivi sepolti vivi“Sotto terra va il minatore, /Dove è buio a tutte le ore “. Sono versi di Gianni Rodari inseriti in I luoghi dei mestieri, ( Torino, Einaudi, 1960), una filastrocca fatta per i bambini, per la scuola, per imparare e anche per divertire. Ma alle spalle di quei versi, come spesso gli accadeva, c’era una storia vera. Alcuni anni prima, nel 1952, nelle vesti di cronista del settimanale “Vie nuove”,  egli aveva raccontato lo sciopero dei minatori di Cabernardi, provincia di Ancona, la più grande miniera di zolfo d’Europa. Lì 300 persone si erano asserragliate a 500 metri di profondità per difendere il loro lavoro.  Con la diligenza del cronista il giovane Rodari indica i fatti, elenca i numeri,  traccia un quadro della politica industriale del colosso Montecatini nel contesto della nuova Europa: produttività, modernizzazione…

Ma a un certo punto del racconto abbandona il filo della cronaca e segue la storia di Ernesto e Maria, due giovani sposi, separati dallo sciopero. Lui chiuso nelle viscere della terra, lei tenuta lontana dalle cure per il loro bambino e per il vecchio padre, ma anche dalla pressione delle forze dell’ordine che impedivano contatti diretti, rendendo pesante perfino la consegna del cibo. Rodari concentra l’attenzione su come quei giovani stessero vivendo non un’avventura, né una disgrazia, ma l’impegno per fare del proprio lavoro il mezzo con cui costruire Il loro futuro. Ma anche il loro disperato bisogno di vedersi, solo per uno sguardo, per una parola e immagina Ernesto rischiare la lunga, faticosa e pericolosa risalita per una ’uscita di sicurezza’ dalla miniera, non controllata dalla polizia perché ritenuta impraticabile. Un cunicolo da percorrere a tratti strisciando, fatto di gradini appena accennati e addirittura di arrampicate con funi, lungo un percorso che sembrava non finire mai e sempre con un rischio incombente.  Scrive Rodari : “Cinque ore di strada per nulla fece Ernesto Donini, un giovane minatore di Pergola, domenica, ventidue giugno. Voleva rivedere la moglie, dopo ventiquattro giorni, almeno per un istante. Maria non c’era. Ernesto gridò a qualcuno che l’andasse a chiamare, forse stava attorno alla miniera. Ma  alla fine dovette rassegnarsi e ridiscendere”. Per trovarsi all’appuntamento convenuto, la giovane moglie aveva lasciato il bambino di un anno al vecchio padre dalla salute malferma e aveva percorro 12 km a piedi. Ma, al momento opportuno, la polizia impedì loro di incontrarsi e anche solo di parlarsi.

Così Rodari racconta ciò che non era visibile della lotta operaia: l’umiliazione, con cui chi ha il potere cerca di sfibrare la resistenza di chi potere non ne ha.Hanno fatto bene Ciro Saltarelli e Silvia Rocchi a riprendere e valorizzare questo vecchio reportage, costruendo un libro ( Gianni Rodari, Sepolti vivi, da un’idea di Ciro Saltarelli e illustrazioni di Silvia Rocchi, con un pensiero di Gad Lerner, Torino, Einaudi, 2020)  che grazie ai disegni di Silvia Rocchi permette di tornare a riflettere con più calma sul senso del lavoro di Rodari. Perché questo libro non parla del passato. L’umiliazione come strumento di oppressione, oggi più che mai, è all’ordine del giorno in tutte le latitudini della terra. Ma attuale è anche l’impegno per combatterla. E su questo versante l’opera di Rodari è preziosa.  Per comprendere l’importanza di quello che era pur sempre uno dei tantissimi episodi di conflittualità economico-sociale dei cruciali anni 50, occorre ricordare che erano passati solo pochi anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana con al primo articolo il suo fondamento nel lavoro.Se per difendere il salario era necessario ricorrere a forme di lotta che mettevano a rischio la salute e la vita; se la polizia interveniva rendendo più difficile la resistenza, parteggiando così per una delle parti in conflitto, allora cos’era cambiato rispetto al fascismo? Quale discontinuità aveva introdotto l’assetto repubblicano? Qual era il senso vero della Repubblica fondata sul lavoro?Era chiaro che le recenti conquiste politiche non erano la fine, ma solo l’inizio di un nuovo cammino. Di un lungo cammino, per il quale necessitavano forze nuove e nuovi strumenti. Era questo il fronte su cui Rodari impegnò tutta la sua forza creativa. Lo disse espressamente presentando La grammatica della fantasia (1972): insegnare “tutte le parole a tutti, non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.

Il senso politico del lavoro narrativo dedicato ai bambini di Rodari non sta nel denunciare ingiustizie dolore e umiliazione di chi lavora, né di dare voce a chi non l’ha mai avuta. Molto più radicalmente egli elabora strumenti di lotta, mezzi che servano a chi li usa per difendersi e contrastare chi fa della parola e della cultura uno strumento di dominio. E come campo di battaglia scelse, lui maestro elementare, la scuola e i bambini che la vivevano. A loro ha dedicato la vita, scrivendo cose la cui bellezza da sola testimonia amore e dedizione. Così come, in questo testo, le tavole di Silvia Rocchi.

Franco Martina

Link per acquisto del libro: https://www.edizioniel.com/prodotto/i-sepolti-vivi-9788866566243/


RODARI, Gianni. I sepolti vivi. Da un’idea di Ciro Saltarelli. Illustrazioni di Silvia Rocchi. Resenha de: MARTINA, Franco. L’attualità di Gianni Rodari: “Insegnare le parole a tutti, perché nessuno sia schiavo”. Clio’92, 13 dic. 2020. Acessar publicação original

Unearthing Conflict: Corporate Mining, Activism and Expertise in Peru – LI (A-RAA)

LI, Fabiana. Unearthing Conflict: Corporate Mining, Activism and Expertise in Peru. Durham y Londres: Duke University Press, 2015. Resenha de: CARMONA, Susana. Antípoda – Revista de Antropolgía y Arqueología, Bogotá, n.26, set./dez., 2016.

En Unearthing Conflict: Corporate Mining, Activism and Expertise in Peru (Desenterrando el conflicto: minería corporativa, activismo y experticia en Perú1), Fabiana Li explora la proliferación de conflictos en torno a la minería en el Perú desde una perspectiva que pone énfasis en la agencia de elementos no humanos en las controversias. El texto parte de una contextualización histórica para desarrollarse a través de una rica etnografía de agradable lectura, en la cual se analizan con detalle los conflictos mineros en los cuales los más diversos actores entran en escena.

Al igual que otros países en América Latina, las reformas neoliberales de los noventas en el Perú significaron un énfasis en las actividades extractivas y su vinculación con la idea de “desarrollo” y “progreso”. Al mismo tiempo, la oposición social a la minería se incrementó a pesar de los esfuerzos de gobiernos y corporaciones por manejar los conflictos con planes de manejo, estudios técnicos y un despliegue de conocimiento experto que se analiza en el texto. El libro está escrito a partir de dos casos específicos: primero, el de la ciudad de La Oroya en donde se encuentra desde hace más de noventa años un complejo metalúrgico, caso que se desarrolla en el primer capítulo; segundo, la minera Yanacocha en la región de Cajamarca, caso que ocupa el resto del libro.

Unearthing conflict es el resultado de dos años de trabajo etnográfico de la autora en Perú, principalmente en la ciudad de Cajamarca. Como es usual con este tipo de estudios etnográficos, los lugares de observación son muy variados e incluyen no solo la tradicional permanencia con las comunidades, sino también la asistencia a reuniones entre comunidades, empresas y Estado, la visita de inspección a un canal de riego, los espacios de revisión y difusión de un Estudio de Impacto Ambiental (EIA), entre otros. La autora habla de un vínculo especial con la organización social Grufides, que tuvo un papel importante en los conflictos con la minera Yanacocha. El seguimiento a esta organización le permite a la autora dar cuenta de la criminalización de la protesta por parte del Estado, de la separación entre lo “técnico” y lo “político” y, finalmente, de las críticas -externas, pero también desde adentro- a la transformación de una organización social en un partido político.

El objetivo del libro es analizar los elementos que las tecnologías de minería “moderna” (representadas en la minera Yanacocha) han traído al escenario político peruano y que se diferencian de la “vieja” minería (representada en el libro con el caso de La Oroya). La autora se pregunta por la forma en que elementos no-humanos, como la contaminación (pollution) y el agua, se han convertido en los principales puntos contenciosos en los conflictos entre comunidades locales y corporaciones mineras.

Li retoma el concepto de controversias de Latour (2004), que se define como el momento en que las cosas dejan de ser “hechos” (matters of fact) para convertirse en “asuntos de preocupación” (matters of concern). Esto ocurre con la contaminación, con el agua y con otra serie de entidades que son desenterradas por la minería. Según la autora, estos elementos no-humanos se entienden mejor como elementos que no se agotan en un único punto de vista, sino que son construidos desde múltiples perspectivas. Esta construcción es el efecto de relaciones entre actores y su existencia se debe a prácticas específicas que los producen, como por ejemplo estudios técnicos, foros de debate, alianzas y mesas de concertación, movilizaciones sociales, entre otros.

La autora devela en su etnografía lo ambiguas y contradictorias que resultan ser las relaciones entre las empresas y las comunidades, llenas de alianzas, colaboraciones inesperadas y rupturas. Esto la lleva a ampliar la noción de conflicto y a reformularla como relaciones cambiantes entre lugares, personas y cosas, así busca trascender la noción que los conflictos en torno a la minería son un resultado de la falla del Estado o de la actuación corporativa. En palabras de la autora: “no trato a las redes de activistas y a las redes corporativas como antagonistas ideológicas, sino que enfatizo en las alianzas cambiantes entre varios actores y las maneras en que trabajan al mismo tiempo con y en contra de intereses corporativos” (2015, 6). Para su análisis la autora retoma los Estudios de Ciencia y Tecnología (ECT), la ecología política y los estudios críticos del paisaje; de este último, se incluye una perspectiva del paisaje no solo en sus cualidades materiales sino también como agente. Retoma igualmente la idea de los conflictos por extracción de recursos naturales como conflictos ontológicos sobre la producción de mundos y, de esta forma, logra “examinar el cómo cosas como la polución toman forma y se vuelven tangibles, cuándo estas importan y para quién son políticamente significativas” (Li 2015, 21).

El libro es un interesante ejercicio etnográfico en que se contemplan elementos poco comunes a la hora de pensar conflictos mineros en América Latina. Lo más interesante es la atención que pone la autora a las prácticas corporativas que se enmarcan dentro de la “Responsabilidad Social Corporativa” y que incluyen la participación comunitaria, los estudios de impacto ambiental, la rendición de cuentas, la adhesión a estándares internacionales, entre otras. Estas prácticas surgen como respuesta a los movimientos de oposición a la minería y a un interés global en asuntos ambientales y de derechos humanos, sobre los cuáles la antropología apenas recientemente ha posado su interés. Li describe estas prácticas como parte de una “lógica de equivalencia” que busca, mediante procesos de conmensuración y con un despliegue de conocimiento experto técnico-científico, saldar deudas sociales y ambientales. Las equivalencias tienen el efecto de desparecer el aspecto político de los conflictos y poner en términos técnicos las soluciones. Sin embargo, se trata de acuerdos temporales y negociaciones constantes en que las comunidades no se sienten compensadas, pues son intentos de conmensurar lo inconmensurable. Las prácticas corporativas, el activismo y la lógica de equivalencia son rastreados etnográficamente a lo largo de cinco capítulos y un apartado final de conclusión.

La primera sección del libro se titula “Minería, pasado y presente” y en su primer capítulo “Legados tóxicos, activismo naciente” se concentra en el caso de la ciudad de La Oroya, que le permite a la autora presentar la historia minera del país y la agencia de elementos no-humanos, en este caso “los humos”, en el surgimiento de conflictos. Cuando en 2006 una organización norteamericana nombró a La Oroya como uno de los diez lugares más contaminados del mundo, la contaminación en esta ciudad se convirtió en un “asunto de preocupación” global. Para este momento la compañía incrementó sus programas con el fin de contrarrestar las emisiones toxicas, se llevaron a cabo estudios por parte de ONG activistas y de la misma compañía, se implementaron mesas de concertación y se involucró a la comunidad en el manejo de los problemas ambientales.

Muy interesante en este capítulo es la descripción de la forma en que la compañía transforma su obligación de rendir cuentas por sus acciones (corporate accountability) en “responsabilidades compartidas”. Esto último se logra al concentrar esfuerzos en el monitoreo de la salud de los habitantes, el control del riesgo en los puestos de trabajo, el monitoreo comunitario y la promoción de “hábitos saludables”. Estas acciones hacen parte de nueva dinámica en la cual las empresas buscan posicionarse como representantes de la minería moderna y sostenible. La trasformación de elementos no-humanos en asuntos de preocupación y por lo tanto en objetos de conocimientos, se repite a lo largo de los distintos conflictos analizados en el texto: una montaña, canales de irrigación o lagunas. La diversidad de visiones frente a estos elementos es lo que analiza la autora en el resto del libro, al poner énfasis en las prácticas corporativas de generación de equivalencia y en las prácticas de activistas que apelan a argumentos no técnicos.

En este punto la autora pasa al caso de la minera de oro Yanacocha, en cuyo contexto se enfoca en el resto del libro. El capítulo dos “mega-minería y conflictos emergente” narra la historia de la minería en el Perú y su giro hacia la mega-minería. A pesar de las promesas de progreso y de pertenecer al nuevo paradigma de “Responsabilidad Social Corporativa” que generaron enormes expectativas en las comunidades, los efectos de Yanacocha sobre el agua han disparado una enorme oposición a la empresa y a la minería.

A través del análisis de un estudio de la calidad del agua elaborado por una mesa de concertación entre la industria minera, el Estado y las comunidades la autora muestra cómo se producen colaboraciones entre actores y cómo los resultados son usados e interpretados de formas diversas. En este contexto se comienza a hacer evidente que la “percepción” de las personas no se considera un argumento legítimo y que solamente en el marco de un discurso técnico, desde el Estado y la empresa, se habla de compensación y de las preocupaciones sociales, políticas y éticas por el agua.

Tras haber introducido el agua como elemento central de la disputa, la autora pasa en la segunda parte del libro “Agua y Vida” a analizar la forma en que el agua se convierte en un elemento central de la política, generando protestas y movilización internacional en contra de la minería. En el capítulo tres, “La hidrología de una montaña sagrada”, la autora muestra la controversia por el proyecto de explotación a cielo abierto en el Cerro Quilish. Tras mostrar que el cerro es un objeto múltiple que carga al mismo tiempo identidades como depósito de oro, acuífero y montaña sagrada, la autora concluye que en este tipo de conflictos la multiplicidad con que se miran elementos de la naturaleza permiten dar al cerro relevancia política de forma que se “excede la política tal como la conocemos” (De la Cadena 2010). Sin embargo, los argumentos técnicos relacionados con la importancia del cerro como depósito de agua predominaron en la disputa. Esto lleva a la autora a profundizar, en el siguiente capítulo, sobre la lógica con que opera la compañía minera.

En el capítulo cuatro, “Irrigación y equivalencias impugnadas”, la autora analiza de forma detallada la “lógica de equivalencia”. A partir de la historia de unos canales de irrigación afectados por la minería de oro, se narra cómo la empresa llegó a acuerdos de compensación con los campesinos que consistían en dinero en efectivo, contratos de trabajo y asistencia para el desarrollo. La autora muestra el choque de formas de conocimiento y la imposición de los criterios técnico-científicos en las negociaciones. Expone también cómo la equivalencia discrepa con los arreglos políticos preexistentes y por tanto genera conflictos internos a las comunidades. Además, presenta cómo aparecen nuevas dinámicas que hacen proliferar los conflictos, por ejemplo el incremento inusitado del número de usuarios del canal que buscan compensaciones.

No obstante, hace falta un mayor énfasis etnográfico en el cara a cara de la negociación entre los campesinos y los funcionarios de la empresa, así como incorporar el análisis de uno de los elementos más intrigantes de los modelos de desarrollo que llegan con la Responsabilidad Social Corporativa y que la autora no menciona en el texto: el deseo de las personas de hacer parte de sus proyectos. Sin desconocer que efectivamente la lógica de equivalencia opera en la negociación y que los criterios técnicos predominan frente a otras formas de conocimiento, no se explicita el por qué y el cómo los campesinos llegan a este tipo de acuerdos, los aceptan y desean su continuidad.

La forma en que está escrito el texto y los elementos sobre los que se hace énfasis, dejan la sensación de que se trata de una imposición de la corporación malévola y desestiman la agencia de los campesinos en esta negociación. Sin embargo, la etnografía es rica en mostrar el cambio de las relaciones de la gente con el canal de riego y las desigualdades que genera la presencia de la mina en la comunidad.

Finalmente, en la última parte del libro “activismo y experticia”, la autora se concentra en el análisis de un dispositivo corporativo que ha entrado a dominar la escena política en torno a la minería: el EIA. Según Li, los EIA forman parte de una estructura regulatoria que facilita la extracción de recursos y son una de las banderas de la rendición de cuentas corporativas. La autora se concentra en los efectos del EIA y concluye que los impactos identificados son solo aquellos que pueden ser manejados técnicamente, que los procesos de participación y divulgación circunscriben los espacios de oposición al documento y que los procedimientos y formatos asociados al documento son más importantes que su mismo contenido. Esto último lleva a las personas a buscar nuevas estrategias políticas como “salirse del documento”, mediante la no-participación en las instancias oficiales. Una versión preliminar de dicho capítulo de encuentra publicada en Li (2009).

En la conclusión del libro se retoma otro conflicto en torno a la minera Yanacocha. Se trata del proyecto “Minas Conga”, el cual afectaría cuatro lagunas que emergen como los focos de la disputa. Según la autora, el conflicto por Minas Conga encapsula la política de la extracción que se ha mostrado a lo largo del libro, situación que es aprovechada para resumir las conclusiones principales de cada capítulo. Las reflexiones finales se refieren a la hegemonía del conocimiento experto, en este punto la autora deja entrever cierto desconcierto y en un tono de resignación afirma que no se puede negar la fuerza del Estado y el rol de la violencia corporativa y estatal para suprimir la oposición y limitar las posibilidades de acción política; sin embargo, el libro concluye con una reflexión sobre las posibilidades del activismo. Para Li los actores no humanos que se desentierran con la minería moderna, han permitido a los opositores hacer oír sus demandas y desestabilizar visiones dominantes en que la naturaleza es vista como un conjunto de “recursos” que deben ser administrados. Estos objetos, en casos como los que se presentan en el libro y se observan cotidianamente en muchos contextos mineros de América latina, abren nuevos espacios de resistencia.

El libro es una interesante reconstrucción de las dinámicas en torno a la minería desde una perspectiva que permite ver más allá de una tradicional lucha entre actores hegemónicos y no hegemónicos. La atención a las relaciones entre personas y cosas evidencia cómo elementos no humanos llevan a los actores -tanto comunitarios como corporativos- a movilizarse, ya sea para defender un modo de vida tradicional que se ve amenazado o para hacer viable por medio de lógicas de equivalencia una actividad económica extractiva.

Comentario

1 Traducción propia.

Referencias:

De la Cadena, Marisol. 2010. “Indigenous Cosmopolitics in the Andes: Conceptual Reflections beyond ‘politics.’” Cultural Anthropology25 (2): 334–370.         [ Links]

Latour, Bruno. 2004. Politics of Nature: How to Bring the Sciences into Democracy. Cambridge: Harvard University Press.         [ Links]

Li, Fabiana. 2009. “Documenting Accountability: Environmental Impact Assessment in a Peruvian Mining Project.” PoLAR: Political and Legal Anthropology Review32 (2): 218–236.         [ Links]

Li, Fabiana. 2015. Unearthing Conflict: Corporate Mining, Activism, and Expertise in Peru. Durham y Londres: Duke University Press.         [ Links]

Susana Carmona – Antropóloga, magíster en Estudios Socioespaciales de la Universidad de Antioquia, magíster en Antropología y estudiante del doctorado en Antropología en la Universidad de los Andes. Entre sus últimas publicaciones están: coautora en “Números, Conmensuración y Gobernanza en los Estudios de Impacto Ambiental”. Revista Iberoamericana de Ciencia, Tecnología y Sociedad 10 (30), 2015. “La Percepción de los Impactos Sociales de la Producción de Petróleo: el Caso de Casanare, Colombia”. Southern Papers Series/Working Papers Sur-Sur 21, 2015. E-mail: [email protected]

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Cidades da mineração: memória e práticas culturais: Mato Grosso na primeira metade do século XX – GUIMARÃES NETO (RBH)

GUIMARÃES NETO, Regina Beatriz. Cidades da mineração: memória e práticas culturais: Mato Grosso na primeira metade do século XX. Cuiabá: Editora da UFMT; Carlini & Caniato Editorial, 2006. 272p. Resenha de: RODRIGUES, Antonio Edmilson Martins. Revista Brasileira de História, São Paulo, v.28 n.55  jan./jun. 2008.

Alguns encargos constituem fardos pesados e são resolvidos com má vontade; outros são tão prazerosos que gostaríamos de prolongá-los. Bom exemplo deste segundo caso é a leitura de Cidades da mineração, de Regina Beatriz Guimarães Neto. Construído inicialmente como tese de doutorado, o livro se destaca por ampliar os horizontes e o quadro de reflexões sobre a modernidade brasileira para fora do eixo que comumente os historiadores e cientistas sociais tomam como exemplaridade desse processo de mudanças. A escolha de Mato Grosso como tema de estudo sobre a expansão da urbanização no Centro-Oeste é instigante porque parte das referências teóricas comuns aos estudos da modernidade no Sudeste e, de saída, estabelece com eles um diálogo crítico que alcança o modo pelo qual até agora vem sendo tratada a questão da modernização no Brasil. O diálogo proposto aponta para a periodização que solicita de todas as áreas brasileiras os mesmos elementos para dar-lhes a condição de progresso. Regina Beatriz é dura nas suas críticas ao processo de exclusão de regiões desse horizonte de desenvolvimento.

Para dar ao diálogo crítico maior corpo, transforma o seu estudo em uma busca incessante de compreensão do que estaria para além das estruturas econômicas, sempre apresentadas como elemento definidor da inclusão, ou não, de regiões. Avança introduzindo na análise os elementos culturais, vistos da perspectiva da diversidade de contatos e entendidos como formalizadores de novos traços culturais capazes de dar identidade à região, considerada freqüentemente como uma região de passagem. Disso resulta uma contribuição significativa para os estudos culturais, por sua heterogeneidade, e abre-se caminho para que o trabalho possa ser integrado aos estudos sobre expansão de fronteiras, com a singularidade de colocar em jogo as referências da vida, o movimento dos sentimentos e a genealogia da conquista.

É nesse ponto que o livro de Regina Beatriz se mostra mais audacioso. Revela, na linha de Euclides da Cunha, em Os sertões, como a poeira possui traços que podem servir de rastros para a compreensão da realidade.

Mas o desbravamento realizado pela autora vai além e constitui uma das apostas interessantes numa área, ainda desértica, que é a dos estudos de frentes de expansão do Brasil central. Se isso não bastasse, ainda nos oferece outra lição sobre a utilização de fontes produzidas pela metodologia da história oral. A autora nos fornece elementos que, de um lado, nos ajudam a compreender as linhas de ponta dessa metodologia e, de outro, mostram exemplarmente como devemos trabalhar as memórias para que o resultado não seja apenas uma narrativa que tenta atar pontos comuns entre aqueles que falam. Temos aí um instrumento de produção de uma história singular das conquistas e da ocupação do espaço, e seus resultados, combinados com as leituras teóricas — que vão de Deleuze a Ginzburg —, oferecem um ‘desenho’ do Centro-Oeste. Desenho esse que ultrapassa as formas de simplificação explicativa oferecidas pelas interpretações tradicionais da região.

Com isso, a autora inclui o Centro-Oeste em uma discussão que elimina a sua condição de apêndice de uma economia maior, complemento ou periferia de transformações históricas que construíram a nação brasileira. Nesse sentido, as reflexões contidas no livro auxiliam no entendimento das variadas formas e projetos que estiveram presentes no processo de institucionalização do nacional no Brasil.

Outro ponto de destaque é a forma da narrativa adotada por Regina Beatriz, que nos dá a sensação de vivenciar os fatos e de entendermos os processos, mas que também nos lembra que o historiador deve, antes de tudo, narrar os modos de compreensão de determinado tema. O historiador deve antes compreender para depois indicar elementos explicativos. Nesse aspecto, a autora oferece uma narrativa que nos envolve no processo de expansão da região, das rotas iniciais de deslocamento, não só de São Paulo e de Minas Gerais, como também de outras áreas. Expõe, assim, a potencialidade da história ali presente, principalmente introduzindo como premissa a constituição das fazendas para logo a seguir mostrar como se estabelecem os caminhos de expansão dos nortistas. Isso é feito com o intuito de demonstrar como esses caminhos definidos pelos tropeiros vão dar origem a cidades, onde predomina a diversidade de culturas. Tais cidades contêm um imaginário fértil que decorre exatamente dessa multiplicidade de presenças, motivo pelo qual elas solicitam a presença da modernização e da civilização.

Esse percurso é realizado no capítulo final do livro, onde estão apresentados “os artifícios da civilidade” e os caminhos que essa solicitação de civilização toma, através das memórias de famílias. Essa linha de reflexão faz que o livro de Regina Beatriz possa se aproximar do texto de referência para a modernidade fora do Sudeste, intitulado Trem Fantasma, a modernidade na selva. Como Francisco Foot Hardmann, a autora desvenda o ‘espetáculo’ da modernização na selvageria inóspita de espaços conquistados e, com perícia, combina a multiplicidade cultural daqueles que para essa região se dirigiram, reforçando esse processo de compreensão com relação às histórias de vida da região.

Ao final da leitura temos a sensação de que aprendemos algo, de que tivemos contato com novas questões. Isso em um universo editorial em que os livros arriscam cada vez menos, são menos audaciosos e mais despossuídos de teses.

Por isso, Cidades da mineração é uma leitura obrigatória não só para quem pretende ampliar o seu horizonte de conhecimentos sobre a modernidade brasileira e o processo de constituição das cidades da mineração no Mato Grosso da primeira metade do século XX, mas também para quem quer observar como se pode combinar análise e síntese, lembrando a velha, mas cada vez mais oportuna, proposição de Lucien Febvre.

Antonio Edmilson Martins Rodrigues – Universidade do Estado do Rio de Janeiro (Uerj) – Pontifícia Universidade Católica – Rio de Janeiro (PUC-Rio). Rua Marquês de São Vicente, 225, Sala 512 F – Gávea. 22453-900 Rio de Janeiro – RJ – Brasil. E-mail: [email protected]

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