Marghera 1971: l’inizio di una fine. Un anno di lotta alla Sava – PUPPINI (CN)

PUPPINI, Chiara. Marghera 1971: l’inizio di una fine. Un anno di lotta alla Sava. Portogruaro (VE): Nuova dimensione editore, 2015. 191p. Resenha de: GUANCI, Enzo. Clio’92, 7 ago. 2019.

All’inizio del Novecento, cent’anni fa, il porto di Venezia era il secondo in Italia dopo quello di Genova, ma con spazi ormai insufficienti agli importanti traffici di petrolio e carbone necessari all’industria italiana da poco decollata. Di qui l’esigenza di creare un nuovo porto; si scelse l’area di Marghera. Si iniziò a scavare i canali per le navi e a costruire i collegamenti ferroviari con la vicina stazione di Mestre. Dieci anni dopo quell’area era diventata geograficamente strategica: un notevole porto industriale, con una buona rete ferroviaria e stradale alle sue spalle. Tra i protagonisti della realizzazione ci fu il conte Volpi, capitano d’industria e futuro ministro di Mussolini che nel 1926 riunì l’intero territorio nell’amministrazione comunale di Venezia. Era ormai nato quello che nel secondo dopoguerra diventerà il più grande polo industriale italiano, arrivando ad occupare, nel 1965, fino a 35 000 addetti, senza contare l’indotto.  Un polo chimico integrato, ma non solo: cantieri navali, vetrerie, fabbriche per fertilizzanti e materie plastiche, l’alluminio.

Stabilimenti enormi. Tanti.

Oggi, cinquant’anni dopo, “Marghera è un enorme spazio che pare senza confini, abbandonato (in apparenza), punteggiato da impianti lontani e spenti.” (Jacopo GilibertoPorto Marghera volta pagina. E prova a ripartire con l’industria ‘verde’, Il Sole 24ore, 8 gennaio 2015).

Qual è stato il processo che ha così trasformato questo territorio in solo mezzo secolo? Com’è successo?

Qualsiasi risposta rischia di essere semplificatoria. Chiara Puppini consegna con il suo libro l’inizio di questo processo. O meglio, uno degli inizi. E’ la crisi della Sava, un’azienda che nel 1966 produce il 36% dell’alluminio nazionale e possiede: 2 miniere di bauxite in Abruzzo e Puglia, 1 fabbrica di allumina, 2 fabbriche di alluminio, 1 centrale termoelettrica, 5 centrali idroelettriche, 3 navi da trasporto, 1 fabbrica per prodotti chimici, 50% di una fabbrica che produce polvere e pasta di alluminio, 1 istituto di ricerca.

Ebbene, nel 1971 “i dirigenti della Sava di Porto Marghera [comunicano alle organizzazioni sindacali] la decisione del Consiglio di Amministrazione della Alusuisse [proprietaria della Sava] di chiudere il 15 ottobre la fabbrica Allumina e di licenziare circa 800 lavoratori tra operai e impiegati” (p. 69) che, sommati ai 200 posti precedentemente in cassa integrazione, fanno 1000 licenziamenti!

Il libro racconta la lotta sindacale dei lavoratori per salvare l’azienda e con essa il loro posto di lavoro. La narrazione presenta gli avvenimenti attraverso le cronache giornalistiche dell’epoca, i volantini sindacali e i comunicati aziendali, le fotografie delle manifestazioni sindacali e quelle delle trattative tra sindacati e azienda, le interviste ai dirigenti aziendali e sindacali di allora. In quelle pagine si respira l’aria dell’epoca: la solidarietà operaia, la vicinanza effettiva delle istituzioni e delle forze politiche con chi lavora e produce ricchezza. Si sente – siamo agli inizi degli anni Settanta – una cultura che mette al centro il lavoro. Ciò nonostante, il 26 gennaio 1972 l’Allumina chiude. Nel 1973  l’area Sava di Marghera viene suddivisa con altre società e negli anni successivi l’intera produzione dell’alluminio a Marghera viene dismessa. Il 12 settembre 1991 ci sarà l’ultima colata di metallo.

Insomma.

La storia della Sava è paradigmatica: il primo episodio della crisi di Porto Marghera. Assistiamo in questi anni a cambiamenti rapidissimi: all’epoca si parlava di decenni, comunque un cambiamento era ineludibile. Lo stabilimento di Allumina di Marghera veniva rifornito di bauxite che proveniva dall’Istria, dalla Puglia, tutte miniere che negli anni Settanta non avevano più senso – se si pensa come veniva estratta la bauxite in Australia a cielo aperto. Era l’inizio di un certo tipo di globalizzazione.” (p.98)

Chi parla è Giorgio Berner, allora giovane dirigente della Sava.

“Allora c’era qualcuno che pensava che Porto Marghera per i successivi cinquant’anni potesse restare sempre così, invece purtroppo la realtà è in continuo movimento. Quando l’Alusuisse ha scoperto che in Australia non era più necessario andare sottoterra a ottocento metri per cercare quel minerale dal quale poi si ricavava l’allumina, ma c’erano miniere a cielo aperto, bastava andare con i bulldozer… da lì è incominciata ad andare in crisi … Porto Marghera” (p. 101)

Chi parla è Bruno Geromin, allora segretario dei metalmeccanici CISL a Marghera.

In conclusione.

La Puppini non vuole nascondersi dietro una falsa oggettività da ricercatrice ma prova a tirare delle conclusioni per il presente e per il futuro:

“Nell’ottica delle responsabilità occorre ripensare ai doveri/diritti di ciascuno; da una parte il dovere di rispettare l’ambiente e di garantire la produttività, dall’altra – cioè dalla parte operaia – il dovere di fare bene il proprio lavoro, ma il diritto di non morire sul posto di lavoro, il diritto di vivere in un ambiente sano, i cui tempi siano modulati sull’uomo e non sulla macchina, il diritto di trovare anche soluzioni migliorative, cioè di dare il proprio contributo di esperienze per un’umanizzazione dell’organizzazione del lavoro. Questo vuol dire riappropriarsi del proprio lavoro e responsabilità per le parti che competono a ciascuno; al finanziatore, al produttore, all’esecutore, al fruitore.” (p. 125)

La nostra autrice si accorge, però, che sta chiedendo tanto, forse troppo.

“Un sogno? Alle volte sognare aiuta a cambiare la realtà, poi, però, bisogna attrezzarsi per realizzare i sogni.”

Enzo Guanci

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Che storia! La storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro – PALLOTTI (CN)

PALLOTTI, Gabriele; CAVADI, Giorgio. Che storia! La storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro. Formello (Roma): Bonacci editore, 2012. Resenha de: GUANCI, Enzo. Clio’92, 7 ago. 2019.

A cura di Enzo Guanci.

“Mangiare non era l’unico intrattenimento. Nel Rinascimento infatti ci si divertiva in molti modi e anche questo ci fa capire come ci si sentisse più liberi. Nel Medioevo la Chiesa controllava tutta la vita delle persone e considerava i giochi come una specie di peccato: quindi non si giocava molto e chi lo faceva doveva un po’ vergognarsi. Invece nel Rinascimento il gioco diventa una parte importante della vita: tutti, ricchi e poveri, giocano in ogni luogo, in casa, nei negozi , nelle osterie, nelle strade e nelle piazze.” (p. 86)

Questa è una notizia tratta dalle ventisette pagine dedicate al Rinascimento nella “storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro” da Gabriele Pallotti e Giorgio Cavadi.  L’informazione sui  giochi si trova nella pagina dedicata al “divertirsi ” nel paragrafo “La vita nel Rinascimento”, che costituisce la parte più corposa  del capitolo; gli altri paragrafi sono dedicati alla geopolitica (gli Stati nazionalile signorie, piccoli stati regionali) e a fornire informazioni di contesto che consentano di comprendere il Rinascimento italiano nel quadro europeo. La scelta degli autori è appunto quella di incentrare il loro manuale sulle condizioni di vita, sui costumi, sulle abitudini sociali degli italiani piuttosto che sugli avvenimenti della politica nel corso dei secoli. La selezione dei contenuti quindi affranca il manuale dalla congerie dei numerosissimi eventi del tempo breve della politica, concentrandosi sulla descrizione delle strutture delle società italiane presentate in cinque “epoche”, come programmaticamente esplicitato nell’introduzione:   Roma, il Medioevo, il Rinascimento, l’Ottocento, il Novecento.  Ciò consente di “raccontare” l’Italia dall’VIII sec. a. C.  alla fine del XX secolo in poco più di centoquaranta pagine! E per chi volesse approfondire ci sono tre pagine di riferimenti bibliografici.

In realtà, la storia non viene “raccontata”: non ci sono, per esempio, i personaggi  e gli episodi che tradizionalmente punteggiano la storia d’Italia dei nostri manuali scolastici, che generalmente fanno della storia politica e delle istituzioni un genere storiografico noioso e poco comprensibile agli studenti della scuola secondaria. Gli autori segnalano fin dal titolo lo sforzo di descrivere la carrellata dei ventotto secoli di storia italiana “in modo semplice e chiaro”. Non era facile. Loro ci sono riusciti. Sulla base di due idee-forza: costruire un linguaggio piano, controllato al punto da riuscire “semplice”; costruire un affresco del passato d’Italia sulla base delle conoscenze essenziali a comprendere le trasformazioni delle società e dei popoli italiani dall’epoca romana al Novecento. E, siccome il libro è pensato per comprendere l’Italia di oggi, l’intero testo è punteggiato frequentemente da riferimenti e riflessioni sull’attualità, anche con un apposita rubrica titolata “ieri e oggi” (Per esempio, nelle pagine in cui si parla della repubblica romana e della figura istituzionale del dictator la rubrica viene usata per sollecitare una riflessione sul mondo attuale:

“Anche in tempi più recenti qualcuno ha pensato che un dittatore solo con tutto il potere riesca a governare lo Stato meglio di un’assemblea di rappresentanti. Ad esempio in Italia, durante il fascismo, Mussolini…. Uno Stato in cui decide una persona sola si chiama assoluto o autoritario. Uno Stato in cui le decisioni sono prese dai rappresentanti eletti da tutti i cittadini si chiama democratico. Hai mai pensato cosa si guadagna e cosa si perde in ciascuno di questi sistemi?”).

Leggendo attentamente il libro a noi pare emerga chiara la difficoltà di raccontare la storia politica “in modo semplice e chiaro” senza cadere nella banalizzazione. Un esempio, a noi sembra, possa essere fornito dalle due-tre pagine dedicate al Risorgimento (L’Italia diventa un Paese unito, pp. 97-99) nelle quali Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi  si muovono come personaggi di un “racconto” dal quale sono espunte le problematizzazioni del fenomeno risorgimentale, perché i problemi non si possono “raccontare” e se lo si fa è quasi impossibile farlo con un “linguaggio semplice e chiaro”: si rischia appunto la “banalizzazione”. I nostri autori hanno intelligentemente evitato questo rischio proponendo una storia d’Italia dal punto  di vista economico e sociale, come espressamente dichiarato nell’introduzione.

Infine va anche sottolineato che il libro non dimentica la sua funzione di strumento per l’apprendimento della storia e pur non proponendo esplicitamente esercitazioni per sviluppare le abilità di base della disciplina, l’uso di linee del tempo, tabelle, cartine tematiche, illustrazioni non di carattere esornativo bensì inserite e commentate nel testo, e l’esortazione frequente a riflettere su analogie e differenze tra passato e presente (Ieri e oggiPensaci su) indica implicitamente a chi ha la responsabilità dell’insegnamento la strada migliore per interessare gli allievi a imparare la storia d’Italia.

Maggio 2012

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Exit West – HAMID (BC)

HAMID, Mohsin. Exit West. Torino: Einaudi, 2017. 156p. Resenha de: GUANCI, Enzo. Il Bollettino di Clio, n.8, p.75-76, dic., 2017.

Una storia d’amore.

“In una città traboccante di rifugiati ma ancora perlopiù in pace, o almeno non del tutto in guerra, un giovane uomo incontrò una giovane donna in un’aula scolastica e non le parlò. Per molti giorni. Lui si chiamava Saeed e lei si chiamava Nadia…”

È l’incipit dell’ultimo romanzo di Mohsin Hamid, lo scrittore pakistano che dopo aver studiato e lavorato molti anni negli USA è tornato a Lahore, dove attualmente vive, muovendosi spesso, tuttavia, tra Londra e New York.

La pubblicazione nel 2007 del suo Il fondamentalista riluttante ci penetrò nelle riflessioni pensierose di un intellettuale di formazione islamica ma in qualche modo integrato nella cultura americana, dopo che l’attentato dell’11 settembre aveva cambiato per sempre il rapporto tra l’Occidente e il Medio Oriente islamico.

Dieci anni dopo questo Exit West vuole introdurci nell’universo della migrazione, di coloro che cercano l’uscita a Ovest.

Come?  Raccontando una storia d’amore o, per meglio dire, una normale storia di coppia. La storia di due giovani dei nostri giorni che si conoscono, si amano, si separano, hanno nuovi compagni e nuove compagne. La loro particolarità, però, è quella di essere migranti.

Il racconto di Hamid salta completamente il viaggio. Non gli interessa farci conoscere i viaggi, le traversie, le angherie dei trafficanti, l’alto rischio del trasporto. Possiamo solo immaginarli: alcuni personaggi loschi non meglio descritti aprono ai nostri Saeed e Nadia alcune “porte” dove si può “passare”.

La prima metà del romanzo ci racconta la trasformazione della loro città, dove i giovani studiano, lavorano, si innamorano, ballano, fumano, ascoltano musica, si confrontano con i loro genitori; piano piano tutto questo diventa prima difficile, poi pericoloso, infine impossibile. La città è in guerra. La guerra è arrivata in città.

“Adesso nella città il rapporto con le finestre era cambiato. La finestra era il confine attraverso il quale era più probabile giungesse la morte. Le finestre non costituivano una protezione neanche dai proiettili più fiacchi: qualunque locale con una vista sull’esterno poteva essere preso in mezzo dal fuoco incrociato. Inoltre i vetri di una finestra frantumata da un’esplosione potevano trasformarsi in schegge di granata, e tutti avevano sentito di qualcuno dissanguato dai frammenti di vetro.” (p.46)

Bisogna andarsene. E sarà duro, molto duro, abbandonare la propria casa, i propri affetti. Il padre di Saeed, che aveva accolto Nadia come una figlia, decide di restare. Lui non ce la fa, ma forza i due ragazzi ad andar via, a “passare la porta”

“In quei giorni si diceva che il passaggio era un po’ come una morte e un po’ come una nascita, e in effetti Nadia provò una sensazione di annientamento mentre entrava nell’oscurità e lottò furiosamente per respirare mentre cercava di uscirne, ed era infreddolita, contusa e bagnata quando si ritrovò distesa sul pavimento della stanza dall’altra parte, tremava e sulle prime era così spossata che non riusciva ad alzarsi, e pensò, mentre boccheggiava per riempirsi i polmoni d’aria, che quella sensazione di bagnato doveva essere il suo sudore.” (p. 67)

Saeed e Nadia nascono di nuovo. E crescono tra campi profughi e “porte” e “passaggi” che conducono ad altri campi, altri luoghi, altra gente, in cui “tutti erano stranieri, e quindi in un certo senso nessuno lo era”.

La grandezza di Mohsin Hamid sta qui. Nella seconda metà del romanzo riesce a darci conto dell’odissea di persone normali costrette a fuggire, a “migrare”, da un campo profughi ad un altro. Ci racconta con brevi ma efficacissimi tratti la vita del campo che “ricordava per certi versi una stazione commerciale dei vecchi tempi della corsa all’oro, e vi si vendevano o si scambiavano molte cose, dalle maglie pesanti ai telefoni agli antibiotici a sesso e droghe sottobanco…”. Non solo. In altre occasioni Hamid ci ricorda che “c’erano volontari che distribuivano cibo e medicine, ed enti assistenziali all’opera”. Insomma, quella di Saeed e di Nadia somiglia molto a un’Odissea senza un’Itaca, un posto dove fermarsi per vivere la propria vita. Ma quella di Saeed e Nadia somiglia maledettamente anche all’odissea di ciascuno di noi, perché nell’era della globalizzazione “si stavano aprendo tutte quelle porte da chissà dove, e arrivava ogni sorta di strana gente…”.

Insomma il romanzo dei migranti è, in fondo, al netto di tutte le sofferenze e i patimenti dei trasferimenti sui barconi e sui sentieri di montagna, il romanzo della vita giacché “…tutti emigriamo anche se restiamo nella stessa casa per tutta la vita, perché non possiamo evitarlo.

Siamo tutti migranti attraverso il tempo.

Enzo Guanci

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Introduzione alla World History – VANHAUTE (BC)

VANHAUTE, Eric. Introduzione alla World History. Bologna: Il Mulino, 2015. 268p. Resenha de: GUANCI, Enzo. Il Bollettino di Clio, n.5, p.61-63, giu., 2017.

Per segnalare questo bel libro di storia cominceremo dalla fine, dall’ultima pagina. Qui E. Vanhaute conclude la sua chiara illustrazione della world history, affermando che in buona sostanza, con la sua moltitudine di scale e di paradigmi, essa ha l’ambizione di spiegare, dandole un senso, la presenza umana sul pianeta; e lo fa inquadrando la storia dell’umanità in un “contesto sempre più vasto, coordinato e organico”. La parola-chiave è appunto “contesto”. La storia, infatti, viene compresa quando si riesce a coglierne l’essenza e ciò è possibile quando si riesce a guardare gli umani muoversi nel mondo, nel mondo intero. Per secoli così non è stato. Vanhaute, citando Braudel, ricorda che “avendo inventato il mestiere dello storico, l’Europa se n’è avvalsa a proprio vantaggio”, costruendo una storia eurocentrica.

Ancora oggi che disponiamo di un patrimonio di conoscenze sterminato, molto più vasto che nel passato, la storia della non-Europa stenta a farsi, a causa della disparità a favore della civiltà occidentale nella distribuzione di conoscenza.

L’abbandono del modello eurocentrico non significa, però, la ricerca di un altro “centro”. La wh non adotta un’unica scala di spazio e di tempo, da cui far scaturire tutte le altre. Ogni scala ha una sua autonomia, anche se parziale, in quanto interdipendente da tutte le altre. Le società umane, ricorda Vanhaute, sono sempre collegate tra loro per mezzo di una molteplicità di sistemi: sistemi economici, sistemi migratori, sistemi ecologici, sistemi culturali. Mediante analisi comparate dei sistemi e delle loro interconnessioni in un quadro transnazionale si può riuscire a fornire qualche risposta alle domande basilari della wh, che sono:  

In che modo i gruppi delle popolazioni appartenenti a differenti contesti spazio-temporali conseguono obiettivi simili con mezzi diversi (la riproduzione del sé fisico, del lavoro, delle conoscenze e delle scoperte a cui sono giunti, dei modelli sociali e culturali e, infine, della loro società)? Quali fattori (esterni, ossia ecologici; interni, e dunque sociali) producono risultati simili o dissimili?  In che modo le popolazioni sviluppano le loro società? E in che modo i sistemi sociali cambiano in seguito al contatto, all’interazione o al conflitto con altre società? Fino a che punto determinati sistemi sociali convivono fianco a fianco o prendono il sopravvento su altri sistemi?” (p.29).

Tre sono le dimensioni in cui si articolano le scienze umani e sociali: quella spaziale, quella temporale e quella tematica. Tutte e tre sono sempre frutto di scelte culturali: le scale spaziali, le periodizzazioni temporali, le unità di analisi tematiche. A tale proposito vale la pena di ricordare cosa non è (o non è soltanto) la wh. Essa non è:

“una storia universale o totalizzante: la storia di «tutto»;  una storia internazionale: non è solo la storia dei rapporti tra le «nazioni»;  una storia della civiltà (occidentale): è più di una storia dell’ascesa di una civiltà (occidentale);.

la storia del non-Occidente (in precedenza chiamata storia «coloniale» o «d’oltreoceano»: è più di una storia del mondo al di fuori dell’Occidente);  una storia sociale comparata: è più di una storia comparata delle società;  una storia della globalizzazione: il suo campo d’indagine è ben più vasto rispetto a quello della storia della globalizzazione.” (p. 27)

Vanhaute fa bene a sottolineare che le storie “universali” non costituiscono un’invenzione recente, anzi. Le narrazioni storiche che vanno oltre i confini spaziali del proprio paese hanno una lunga tradizione in Cina, Giappone, Asia sudoccidentale, nel mondo islamico, oltre che nella cultura occidentale. Ma sempre la concezione è teleologica: la propria civiltà costituisce il naturale punto di partenza e di arrivo, a dimostrazione della naturale propria superiorità. Le maggiori religioni monoteiste hanno elaborato un proprio specifico mito della creazione, mescolando predestinazione divina, mito e linguaggio simbolico con eventi realmente accaduti, con l’obiettivo di presentare una “verità generale, universale e spesso eterna”.

Vale la pena di ricordare due tra gli esempi riportati da Vanhaute: il De civitate Dei di sant’Agostino, la cui storia teleologica e senza tempo della città dell’uomo e della città di Dio fonda la tradizione dell’historia universalis del cristianesimo e le Storie nelle quali Erodoto cerca e descrive differenze e somiglianze dei popoli non-greci (barbaroi) con i greci.

Da segnalare, infine, la breve cronologia della storia umana proposta dall’autore all’inizio del volume, dopo aver precisato che il computo del tempo, pur rifacendosi al calendario cristiano, utilizza la dicitura “avanti e dopo era volgare”, «a.e.v.» e «d.e.v.», invece di «a.C.» e «d.C.» in quanto più neutra, così come vengono evitate categorie eurocentriche come «antichità», «Medioevo», «Rinascimento», «età moderna»:

Se questa è la scansione temporale delle principali trasformazioni che segnano i periodi della storia dell’umanità a scala mondiale, i temi presentati e sviluppati sono: la trasformazione demografica (un mondo umano), l’ecologia (un mondo naturale), l’alimentazione (un mondo agrario), le sovranità e i poteri (un mondo politico), le culture e le religioni (un mondo divino), l’Occidente e il resto del mondo (un mondo diviso), globalizzazione o globalizzazioni? (un mondo globale), sviluppo e povertà (un mondo diviso), unità e frammentazione (un mondo frammentato).

Sedici pagine di bibliografia e sitografia forniscono indicazioni di studio generale e tematico per una nuova storia dell’umanità.

Enzo Guanci Acessar publicação original

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