Gramsci: una nuova biografia A. D’orsi

O italiano Antonio Gramsci (1891-1937) pode ter seu pensamento caracterizado como essencialmente dialógico. Tendo sua personalidade intelectual construída em um período de crises marcado pela I Guerra e a ascensão do nacionalismo fascista, procurou dar respostas às questões de seu presente tanto no âmbito da elaboração intelectual como na política prática. Compreender seu pensamento exige conectá-lo com seu tempo histórico e assumir como premissa a dupla orientação de pensamento e ação que lhe marcou. Essa premissa pode parecer banal, mas devemos lembrar que se trata de uma produção mobilizada e disputada inicialmente pelo PCI (Partido Comunista Italiano) e depois pela leitura liberal estimulada especialmente a partir de Norberto Bobbio. Mais recentemente, conservadores radicais nos EUA e Brasil têm tratado a produção gramsciana como um tipo de manual que haveria orientado a esquerda em uma luta cultural, segundo esses conservadores vencida por seus antagonistas. Embora tais grupos e leituras não possam ter tratados como equivalentes, elas ilustram a persistente atenção a Gramsci e suas ideias, ainda que por vezes as mesmas sejam simplesmente instrumentalizadas ou intencionalmente distorcidas. Enfim, Gramsci está bastante vivo nos debates e controvérsia do tempo presente e não apenas no Brasil. Leia Mais

La Repubblica inquieta. L’Italia della Costituzione 1946-1948 – De LUNA (BC)

DE LUNA, Giovanni. La Repubblica inquieta. L’Italia della Costituzione 1946-1948. Milano: Feltrinelli, 2019. 304p. Resenha de: GUANCI, Vicenso. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.191-196, giu./nov., 2019.

«Per risvegliarci come nazione, dobbiamo vergognarci dello stato presente. Rinnovellar tutto, autocriticarci. Ammemorare le nostre glorie passate è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti, è conforto all’ignavia e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione».

Con questa citazione di Giacomo Leopardi, Giovanni De Luna concludeva nel 20131 il racconto di un’Italia che dall’iniziale trasformismo liberale all’attuale subalternità alle regole del mercato non sembra essere riuscita a darsi quella religione civile che l’autore già allora individuava nel “dare forza” alla nostra Costituzione.

Quattro anni dopo pubblica questo libro, riedito in edizione economica quest’anno, nel quale racconta come si fece la Costituzione. Come e perché dal 1945 al 1948 fu possibile costruire una sorta di “sacra scrittura” per una “religione civile”. La consolidata storiografia sull’argomento viene rivista alla luce dei diari di coloro che “vissero con passione e impegno gli anni di formazione della nostra Repubblica” – a cui infatti viene dedicato il libro – conservati presso l’Istituto storico della Resistenza “Giorgio Agosti” e soprattutto all’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano. Ne scaturisce una narrazione appassionante e una dettagliata analisi del momento storico in cui vennero poste le basi della nostra moderna democrazia.

Furono due anni: dal 2 giugno 1946 al 18 aprile 1948. Un biennio cruciale. Che si comprende a fondo solo se si studiano bene le premesse: gli avvenimenti dei tredici mesi e sette giorni precedenti, dal 25 aprile 1945 al 2 giugno 1946.

Il libro è organizzato in tre parti. La prima ci mette di fronte ad un paese con strutture demografiche e produttive molto simili a quelle degli inizi del Novecento, con un Mezzogiorno ancorato al tempo quasi immobile della civiltà contadina e con un tasso di analfabetismo del 25-30%, e un Settentrione con il 60% del reddito nazionale e analfabetismo pressoché scomparso. E’ un’Italia disunita quella che esce dalla guerra. Per ricordarla De Luna rimanda alle immagini di Paisà di Rossellini, ché meglio non si potrebbero raccontare i drammi e gli entusiasmi nelle terre della penisola risalita dalla Sicilia alle regioni settentrionali; in più sottolinea la condizione delle donne che “rappresentarono allora l’icona simbolicamente più efficace dei guasti che l’arrivo degli eserciti alleati poteva causare” (pag. 39) e che, tra il 1943 e il 1945, si sommarono alle stragi naziste. Le due Italie in quegli anni si riconoscevano nella contrapposizione tra fascismo e antifascismo. Il 25 aprile 1945 vinse la Resistenza, che “si propose come la negazione di quei caratteri di passività e rassegnazione che sembravano pesare come una sorta di tara genetica sulla nostra identità collettiva” (pag. 57); vinse l’Italia viva e nuova, l’Italia dei prefetti del Cln, l’Italia del governo Parri. Iniziò il dibattito, o meglio, una vera e propria lotta politica, tra la “continuità” dello Stato a cui era favorevole il ministro Benedetto Croce (la “parentesi” fascista) e la “discontinuità” dallo Stato liberale e fascista per una nuova democrazia per la quale si batteva il Partito d’Azione. Si scelse la prima opzione. Parri fu sostituito da De Gasperi che, assieme a socialisti e comunisti, guidò il paese verso le nuove elezioni del 2 giugno 1946 a suffragio davvero universale (per la prima volta votavano le donne!) per la Costituente e il referendum tra la monarchia e la Repubblica. Furono giorni difficili. Le pagine di De Luna rendono bene il momento: “Che il rischio di una nuova guerra civile ci fosse davvero ce lo dice la cronaca delle giornate convulse seguite al referendum.” (pag. 106)

I partiti di massa nati dalla lotta partigiana, il governo, il Vaticano, soprattutto la Casa Reale, tutti si muovevano su un filo di rasoio. Il 12 giugno dopo un ultimo colloquio con Pio XII, dopo aver messo al sicuro i gioielli e il patrimonio di famiglia, Umberto II partì per l’esilio portoghese. Il 18 giugno la Cassazione ratificò il risultato delle elezioni, il 25 giugno l’Assemblea Costituente tenne la sua prima seduta. “La Resistenza aveva vinto, e con essa la democrazia. Una vittoria che chiudeva una pagina esaltante della nostra storia. […] Il 28 giugno, Enrico De Nicola fu eletto capo provvisorio dello Stato con 396 voti su 501: ‘Camminava come un impiegato che va all’ufficio, un signore qualunque che rientri a casa un po’ preoccupato’ annotava Alba de Céspedes. I 40 voti dei repubblicani andarono a Cipriano Facchinetti, i 30 dell’Uomo Qualunque a Ottavia Penna di Caltagirone, nata baronessa di Buscemi, una donna, a simboleggiare un’altra delle rotture sancite dal 2 giugno 1946.” (pag.118)

La seconda parte racconta e spiega come in due anni, un mese e dodici giorni nacque la repubblica dei partiti e fu scritta la Costituzione, Carta fondamentale della nostra democrazia.

Le elezioni dell’Assemblea Costituente sancirono la nascita dei partiti politici. E dei partiti di massa: la Democrazia Cristiana con il 35,1%, il Partito Socialista con il 20,6%, il Partito Comunista con il 18,9%; agli altri restarono le briciole. Eredi delle bande politicizzate della Resistenza, i “partiti dei fucili” – come li chiamano taluni storici – erano diventati “partiti delle tessere”; i partigiani erano diventati elettori e i capi dirigenti e militanti di partito. De Luna si rifà esplicitamente al pensiero di Norberto Bobbio con una sua citazione sul nesso vitale tra partiti e democrazia: «L’allargamento del suffragio ha reso inevitabile la formazione di grandi e bene organizzate associazioni politiche. E queste associazioni si sono consolidate applicando al loro interno le regole della democrazia […] così che il partito oggi non è soltanto l’organo motore dello stato democratico ma è anche per la sua stessa costituzione il principale coefficiente di una educazione politica democratica, perché stimola energie assopite, dirige volontà disordinate, porta sul piano di un’attività politica concreta e fattiva interessi sviati e incerti.» (pag. 142). Quanto importante e decisiva si dimostrò la loro funzione non solo di pedagogia politica ma anche e soprattutto di direzione e guida delle masse si vide nei momenti di crisi della neonata democrazia italiana. Per esempio, la firma del Trattato di pace nel febbraio 1947, che oltre alle perdite delle colonie e di territori al confine francese, dovette affrontare le questioni del confine italo-jugoslavo con Trieste e l’Istria, in piena “guerra fredda”, con il ricordo dell’occupazione italiana fascista della Slovenia, i morti delle foibe, i profughi istriani. E ancora, le rivolte partigiane contro la politica di “rappacificazione” portata avanti da Togliatti e De Gasperi, di cui quello più famoso è l’episodio di Santa Libera – una frazione di Santo Stefano Belbo nelle Langhe – dove nella notte del 20 agosto 1946 una sessantina di partigiani occuparono la zona e ci volle l’intervento di un dirigente del PCI e di Pietro Nenni – vicepresidente del Consiglio – per farli sloggiare. Soprattutto, la campagna elettorale per le elezioni del primo Parlamento della Repubblica del 18 aprile 1948 che fu davvero contrassegnata da forti contrasti e grande partecipazione di massa. I prestiti americani e il piano Marshall fecero ripartire l’economia e la politica economica deflattiva di Luigi Einaudi se favoriva industriali e ceto medio impiegatizio ma portò disoccupazione e licenziamenti tra gli operai. Tutto questo ovviamente aumentò molto le tensioni nel paese. La lunga guerra mondiale, e in più la guerra civile fascisti-antifascisti, da cui si era appena usciti, aveva comunque creato un’abitudine alla violenza, all’uso della violenza, quasi fosse un normale strumento di pressione e repressione. Le manifestazioni di protesta, gli scioperi, spesso finivano in scontri, anche cruenti, tra la Celere – reparto di polizia specializzato creato da Scelba, ministro degli Interni – e i manifestanti. Il primo maggio 1947, nelle campagne di Portella della Ginestra, in Sicilia, banditi assoldati dai latifondisti, spararono sulla folla di contadini che festeggiava il “Primo Maggio” nelle terre occupate. Il 31 maggio De Gasperi formò il suo IV governo, questa volta senza comunisti e socialisti. Era partita la crociata anticomunista, appoggiata dal Vaticano che mise in campo tutta la forza della Chiesa Romana. Le sinistre si presentarono unite sotto le insegne del Fronte popolare, convinti di vincere e instaurare il socialismo. Il 18 aprile la DC ottenne il 48,7% dei voti, il Fronte (PCI+PSIUP) il 31%. Per De Gasperi fu un trionfo, per socialisti e comunisti una delusione tremenda.

Tre mesi dopo uno studente fascista esaltato sparò a Togliatti mentre usciva da Montecitorio. Il paese si sentì e si trovò di nuovo sull’orlo della guerra civile. Dopo aver affrontato e superato una campagna elettorale difficile, appassionata e movimentata, dovette affrontare una prova ancora più aspra. Poche ore dopo l’attentato, con Togliatti in sala operatoria, le fabbriche del triangolo industriale si fermarono per scioperi spontanei, le piazze furono occupate da manifestanti, poliziotti e militari consegnati nelle caserme pronti a tutto. Il 16 luglio lo scontro si trasferì in Parlamento con i deputati comunisti che attaccarono il ministro Scelba. In quei tre giorni tuttavia non accadde nulla di irreparabile. Ci furono, è vero, 92.000 persone fermate dalla polizia, di cui 70.000 rinviate a giudizio; 11 morti tra i manifestanti e 6 tra le forze dell’ordine. Complessivamente negli anni dal 1948 al 1954 sono stati contati negli scontri tra polizia e manifestanti 75 morti e 3126 feriti, ai quali vanni aggiunti 28 persone uccise nelle campagne dai latifondisti. Nello stesso periodo risulta che in 38 province furono arrestati 1697 partigiani dei quali 884 condannati a complessivi 5806 anni di carcere. “Un bilancio pesante, il prezzo pagato nel difficile processo d’impianto della democrazia in Italia”, commenta De Luna (pag. 216).

Nella terza parte l’autore tira le fila del suo lavoro di ricerca tra cronaca, letteratura e storiografia individuando “le Italie che finiscono e… quelle che cominciano”.

Le giornate dell’attentato a Togliatti costituirono per il movimento operaio “l’occasione di congedarsi definitivamente da quel tipo di lotta e dalla paralizzante alternativa integrazione-insurrezione; con i caroselli della Celere di Scelba si chiudeva una fase lunghissima della storia delle classi subalterne, aperta mezzo secolo prima dalle cannonate di Bava Beccaris a Milano; quella forse più epica, ma anche, senz’altro, la più cruenta e difficile. In quei tre giorni si bruciarono modelli politici e tradizioni culturali ai quali il mutare delle condizioni economiche avrebbe di lì a poco sottratto ogni parvenza di credibilità” (pag. 281)

Il miracolo economico negli anni Cinquanta avrebbe mutato la stessa antropologia degli italiani, non solo le dinamiche politico-economiche. Sarebbero cambiati usi e costumi, consumi e culture; elettrodomestici e televisione, scooter e automobili, avrebbero modificato le percezioni del tempo e dello spazio.

E i partiti? I partiti furono costretti al rinnovamento. Pur non avendo essi determinato la grande trasformazione del paese cercarono di farvi fronte. Con fatica, vi riuscirono. “La fiammata antipartitica che aveva animato le schiere di quelli che avevano votato per la monarchia nel referendum del 2 giugno 1946 […] si era spenta e gli elettori qualunquisti, a partire dal 1948, avevano indirizzato i loro voti verso la Democrazia Cristiana […]. E la Costituzione era diventata compiutamente e decisamente la Costituzione dei partiti.” (pag. 286)

La Costituzione sarebbe rimasta la consegna più importante e duratura che i partiti di massa hanno lasciato agli italiani. Nella Costituente si scrisse e operò solennemente un patto di cittadinanza condiviso fondato sul “grande compromesso” dell’intreccio tra le tre culture che fanno il nostro paese: “la tradizione democratico-liberale, che lasciò la sua impronta nel riconoscimento del valore assoluto dei diritti dell’uomo; l’accentuazione dei principi di giustizia sociale, che avevano animato larga parte del movimento operaio; lo slancio solidaristico e comunitario che da sempre aveva segnato le battaglie politiche dei cattolici.” (pag. 289)

Giovanni De Luna conclude il suo libro così. Ricordando che con la Costituzione i partiti della Resistenza hanno vinto. E, se è vero che vinse la “continuità” dello Stato con i suoi apparati più o meno fascisti, o almeno nostalgici di quel tempo, è vero che la Resistenza seppe forgiare una classe politica rivelatasi pienamente all’altezza dei suoi compiti.

“La Resistenza fu qualcosa di più grande dei Cln e dei partiti che la guidarono, perché la Resistenza fu soprattutto la ‘moltitudine delle vite concrete dei resistenti’, di quanti interpretarono l’8 settembre 1943 come la fine di una stagione di carestia morale e di avvelenamento delle coscienze, vivendola come il momento in cui non ci si doveva vergognare di se stessi e si potevano riscattare venti anni di passività e di ignavia. E fu quella scelta che contribuì a fare del 25 aprile 1945 una data fondamentale della nostra religione civile.” (pag.291)

Vicenzo Guanci

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Sindrome 1933 – GINZBERG (BC)

GINZBERG, Siegmund. Sindrome 1933. Milano: Feltrinelli, 2019. 192p. Resenha de: PILOSU, Mario. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.197-200, giu./nov., 2019.

Siegmund Ginzberg è nato a Istanbul nel 1948. La famiglia è giunta a Milano negli anni Cinquanta e i nonni furono sudditi dell’impero ottomano. Dopo gli studi in filosofia ha intrapreso l’attività giornalistica ed è stato una delle storiche firme dell’Unità, quotidiano per cui ha lavorato a lungo come inviato in Europa, Stati Uniti, Cina, India, Giappone, Corea del Nord e del Sud. Ha più volte girato il mondo portando con sé, nel corso degli innumerevoli traslochi, una biblioteca più adatta alla stanzialità che all’erranza.

Inizia come una cronaca giornalistica della giornata convulsa del 30 gennaio 1933, giorno in cui il capo del NSDAP giurò come cancelliere nelle mani del Presidente della repubblica Paul von Hindenburg, che lo aveva sconfitto al 2° turno nelle elezioni presidenziali del 10 aprile 1932. Da qui inizia il racconto dei 12 mesi successivi, a partire dalle reazioni, a posteriori assolutamente inappropriate, delle opposizioni, degli intellettuali e delle altre nazioni europee, racconto in cui via via si ripercorre, con un continuo ricorso a fonti e documenti, il percorso della giovane democrazia tedesca dopo il Trattato di Versailles.

Ma già nel secondo capitolo l’autore si ferma e offre ai lettori un breve testo in cui utilizzando categorie storiche, giustifica la ragione per cui ha scritto questo libro, proprio mentre si accingeva a scrivere un libro sulla Cina, come ha affermato in occasione della presentazione del volume al Palazzo Ducale di Genova il 18 settembre 2019. Alla base della decisione c’è la sensazione di déjà vu, che l’autore afferma non essere il solo a provare da qualche tempo di fronte alle notizie, ascoltando i discorsi sull’autobus, facendo zapping nei talk-show. Ma se la storia non si ripete mai allo stesso modo, e se non è vera la famosa frase attribuita a Karl Marx «La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa», perché occuparsi di come, 80 anni fa, la Germania precipitò quasi senza accorgersene, ma per molti con entusiasmo, nel Terzo Reich?  Una delle ragioni, afferma Ginzberg, è l’ignoranza diffusa su questo periodo della storia. In particolare, fa l’esempio delle risposte date nel corso del programma a quiz L’Eredità [dicembre 2013] sull’anno di nomina di Adolf Hitler a cancelliere del Reich. Solamente la quarta concorrente dice «1933», perché è rimasta una sola scelta, ed è impossibile sbagliare; risposte date da giovani, sicuramente almeno diplomati, se non con una laurea universitaria, che sicuramente hanno affrontato la prova di Storia all’Esame di stato, almeno al colloquio orale.

Analizzando quell’anno, e il prima e il dopo, l’autore afferma di essersi imbattuto in indizi, rassomiglianze, analogie insospettate; l’uso del termine di origine medica sindrome è giustificato proprio dal suo significato letterale di sintomi e segnali concausa di una malattia. Molti di questi sintomi e segnali, afferma Ginzberg, hanno somiglianze con quelli di oggigiorno. Interessante è il ruolo che Ginzberg assegna all’analogia: l’uso dell’analogia non come strumento di polemica e propaganda ma di comprensione; ovviamente le analogie sono per definizione imperfette e ‘superficiali’, ma la mente umana funziona per analogie, che ne fanno uno strumento di comprensione e distinzione, per non ‘fare di ogni erba un fascio’. Ginzberg afferma esplicitamente di aver fatto una scelta ‘faziosa’: fra fatti e argomenti privilegia quel che può richiamare alla mente del lettore vicende, cronache e polemiche della nostra attualità (p.24); è preoccupato da una sorta di coazione a ripetere involontaria, e dal riaffacciarsi di dinamiche e meccanismi che hanno portato al disastro la Germania di Weimar. «[…] temo il presente che imita il passato inconsapevolmente, senza volerlo, magari senza neanche accorgersene».

A differenza di altre crisi, questa sembra di più una catastrofe: tutto cambia in soli 30 giorni: Hitler cancelliere; il mese successivo elezioni politiche e poi (per il partito comunista KPD anche prima) eliminazione delle opposizioni con una raffica di decreti. Uno dei primi decreti riguarda la chiusura delle porte agli immigrati, in gran parte quegli Ost-Juden, gli ebrei orientali, che sono descritti, come ci dice Ginzberg, in maniera molto efficace nel saggio Ebrei erranti, (1927), di Joseph Roth. Fuggivano «guerre e povertà», e spesso consideravano la Germania soltanto come «stazione di transito» verso l’America o la Francia, ma ovviamente, essendo senza documenti (spesso già nel loro paese di origine), hanno la necessità assoluta di procurarseli, anche attraverso mezzi illegali. Da qui, anche prima del 1933, il sillogismo: «L’ebreo è uno straniero, è un immigrato. I migranti sono delinquenti. Quindi gli ebrei, tutti gli ebrei, sono criminali. Questo è il sillogismo che avrebbe portato allo sterminio» (p.38). Qui l’analogia scelta da Ginzberg è assolutamente evidente «Nella versione attuale basta sostituire ad “ebrei” l’espressione “migranti clandestini”, o anche solo “migranti”, per antonomasia indesiderati». E il ‘Decreto immigrazione’ è soltanto il primo degli atti che avranno lo scopo di sbarazzarsi di tutti gli ebrei, anche di quelli che avevano la cittadinanza (oltre l’80% degli ebrei residenti). Quindi chiusura delle porte. Poi l’inizio della repressione contro i comunisti, all’interno di un ‘decreto sicurezza’ che porterà all’allestimento dei primi campi di concentramento affidati alle SS; riservati prima ai comunisti e poi ai criminali, gli immigrati clandestini, poi in un crescendo, agli omosessuali, zingari, rom, sinti. Come scrive Ginzberg, «il catalogo degli indesiderabili è rimasto più o meno lo stesso» (p.43); qui si potrebbe vedere forse un riferimento alla poesia Poi vennero… del pastore Niemöller, talvolta erroneamente attribuita a Bertolt Brecht.

L’intero quinto capitolo è dedicato alle elezioni: «negli otto mesi precedenti la ‘presa del potere’, i tedeschi avevano votato 2 volte per la presidenza della Repubblica, 3 volte per il Reichstag (2 volte nel 1932, a distanza di 4 mesi), più varie elezioni locali. […] le libere elezioni sono il sale della democrazia. Ma troppe elezioni non le fanno per niente bene. Anzi, rischiano di ucciderla». Nella repubblica di Weimar degli anni ’30 votare e rivotare è un sintomo dell’incapacità di risolvere la crisi, perché nessun partito o nessuna possibile coalizione aveva la maggioranza. Dal 1928 al marzo 1933 si ebbero 5 elezioni politiche, in media 1 ogni anno. In questo periodo i voti per il NSDAP salirono da 800.000 a 17,3 milioni, di fronte a un incremento di votanti da 30,4 a 39 milioni. Il NSDAP cattura a poco a poco il voto degli astenuti, di quelli che erano disgustati dalla politica. Si calcola che circa la metà dei 16,5 milioni di voti che il partito guadagnò in quei 5 anni siano di “elettori nuovi”, cioè di giovani che non avevano mai votato o elettori che si erano astenuti nelle elezioni precedenti. Il caso della repubblica di Weimar, dice Ginzberg, è un esempio di come si può giungere alla catastrofe non per una disaffezione al voto, ma al contrario a causa di un più ampio coinvolgimento dell’elettorato. Una Repubblica che si era dovuta difendere, al suo nascere, da violenza rivoluzionaria e controrivoluzionaria, dai putsch (come quello di Monaco), dal timore di un intervento militare, fu invece distrutta da una serie di elezioni a suffragio universale, con una crescente partecipazione degli elettori.

Per analizzare le ragioni del crescente successo elettorale di Hitler, Ginzberg utilizza varie fonti, sia contemporanee (Gramsci), sia analisi successive dei movimenti dell’elettorato. Interessanti la tabella (molto simile a quelle che compaiono su Internet o in TV poco dopo la chiusura dei seggi), che sintetizza i cambiamenti (anche d’umore) del corpo elettorale tedesco dal 1919 al 1933, accompagnata da quella del susseguirsi delle coalizioni fino al 1932. L’autore fa notare, peraltro, che anche dopo le elezioni del 1932, la coalizione su cui poggiava il governo Hitler (nazisti e nazionalisti) non superava il 41,5% dei voti; molti degli oppositori erano convinti che la coalizione non sarebbe durata, come era accaduto in altre occasioni pochi anni prima. Ma non tenevano conto né della capacità di iniziativa politica dei nazisti (i decreti approvati pochi giorni dopo la nascita del governo), né del fatto che c’era un’ampia fascia di popolazione che non vedeva l’ora di trovare uno sbocco politico alle sue aspirazioni.

E’ proprio da qui che si sviluppa la seconda parte del libro, da questa sottovalutazione della situazione, evidenziata da una serie di riferimenti ad articoli di giornale, dichiarazioni di politici e intellettuali, anche ebrei, che non credono possibile l’avvento di un vero e proprio regime, che metta in atto quello che ha promesso durante la campagna elettorale. D’altro canto è molto interessante la parte del quinto capitolo dedicata all’elettorato di Hitler (Chi votava per Hitler?). L’autore cita il romanzo di Hans Fallada E adesso pover’uomo? (1932) in cui i dubbi su cosa votare (spurgati nell’edizione della Medusa del 1933, insieme a varie altre pagine osé, ma presenti nella traduzione italiana del 2009) da parte dei due protagonisti portano a presumere che ambedue abbiano poi votato per i nazisti. Vari studi hanno cercato di spiegare questa crescita esponenziale dei voti per i nazisti; e ultimamente sembra prevalere l’ipotesi che l’elettorato abbia seguito soprattutto i propri interessi economici; ma difficilmente i grandi spostamenti elettorali hanno una sola causa, dice Ginzberg. Qui c’è di nuovo un’analogia con l’attualità: propone un episodio vissuto in treno nel 1976, l’anno della maggiore avanzata elettorale del PCI. Nello scompartimento tutti dichiarano che avrebbero votato per il PCI, ma ognuno per una ragione diversa, talvolta diametralmente opposta; conclude amaramente che se sui treni non fossimo tutti perennemente attaccati allo smartphone capiremmo sicuramente molto di più sui flussi elettorali.

Un capitolo che mi è sembrato molto interessante, anche dal punto di vista della didattica, è quello sul linguaggio. Ginzberg utilizza a piene mani il libro del filologo ebreo Viktor Klemperer LTI (Lingua Tertii Imperii – la Giuntina, 1999), che attraverso l’analisi delle novità linguistiche del Terzo Reich cerca di capire cosa e come è successo. Dal linguaggio si passa all’uso dei mezzi di comunicazione (giornali, radio e poi cinema), che nell’arco di pochi mesi sono oggetto di una vera e propria appropriazione da parte di nazisti. Il ruolo di questi mezzi di comunicazione è importantissimo, sia per le grandi tirature dei giornali già prima dell’avvento di Hitler, sia per la capillare presenza di stretti rapporti tra lettori (e ascoltatori) e giornalisti. Le lettere dei lettori vengono pubblicate, ovviamente quando servono a denunciare le malefatte di un commerciante ebreo o di un impiegato ‘infedele’, e le lamentale degli ascoltatori sugli stessi temi riportate quasi in diretta. Questo argomento ci avvicina a un capitolo-chiave che permette di spiegare il crescente consenso di cui godrà il regime fino ai primi mesi del 1945; Ginzberg titola il nono capitolo Come fu comprato il popolo; e il secondo paragrafo, sempre usando il sistema dell’analogia, Il reddito di cittadinanza. Il riferimento in questo caso è al libro di Götz Aly Lo stato sociale di Hitler (Einaudi, 2007), una miniera di informazioni su come in pratica fu finanziato l’ottenimento e il mantenimento del consenso, anche attraverso una politica assistenziale, attuata con una vera e propria spoliazione, anche fiscale, della comunità ebraica e poi, in guerra, con un saccheggio vero e proprio di tutta l’Europa sottomessa.

Innumerevoli sono gli spunti che il testo, peraltro breve e scritto con un piglio ‘anglosassone’ e ironico (soprattutto nelle analogie ‘suggerite’ ma mai pienamente esplicitate), offre alle attività didattiche con gli studenti. Permette un efficace smontaggio di una serie di stereotipi del passato vicino e anche del presente, attraverso riferimenti e collegamenti che utilizzano sia fonti contemporanee (Gramsci, Klemperer, Fallada, Brecht ecc.), sia studi recenti che forniscono le basi del ragionamento e soprattutto del tentativo, a mio parere riuscito, di spiegazione e di attualizzazione della Sindrome 1933.

Il testo è seguito da un’efficace bibliografia tematica che si rifà, ma non completamente, alla divisione in capitoli e offre esempi sia di romanzi (oltre a quello di Fallada, anche le distopie Il complotto contro l’America di Philip Roth e Qui non è possibile di Sinclair Lewis) sia di fonti documentarie, sia di testi di saggistica.

Mario Pisolu

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