O pacto entre Hollywood e o nazismo: como o cinema americano colaborou com a Alemanha de Hitler | Ben Urwand

É bem conhecida a produção de filmes antinazistas pelos estúdios de Hollywood no período da Segunda Guerra Mundial (1939-1945). Marc Ferro identifica que enquanto no cinema da França ainda não havia um inimigo definido, se era o nazismo ou o comunismo, nos Estados Unidos a escolha já havia sido feita pelo combate ao nazismo antes mesmo de 1939, sendo este fenômeno mais claro no cinema do que no mundo da palavra escrita, no jornalismo ou na pesquisa.1 Assim, construiu-se uma memória da “resistência” do cinema norte-americano contra o totalitarismo, amplamente aceita e difundida ao longo do tempo.

Indo em uma direção contrária, o livro O pacto entre Hollywood e o nazismo: como o cinema americano colaborou com a Alemanha de Hitler, de Ben Urwand, originalmente de 2013, procura desmistificar a memória da “resistência” de Hollywood na chamada “Era de Ouro” do cinema, contra o nazismo. Urwand é doutor em História dos Estados Unidos pela Universidade da Califórnia, mestre em Cinema e Estudos de Comunicação pela Universidade de Chicago e junior fellow2 da Society of Fellows, da Universidade de Harvard. A ideia para o livro foi a partir de um comentário do roteirista e romancista Budd Schulberg sobre Louis B. Mayer, o chefe da MGM, de que este, na década de 1930, projetava filmes para o cônsul alemão em Los Angeles e cortava tudo aquilo que o cônsul objetasse. (p. 14). Leia Mais

Sindrome 1933 – GINZBERG (BC)

GINZBERG, Siegmund. Sindrome 1933. Milano: Feltrinelli, 2019. 192p. Resenha de: PILOSU, Mario. Il Bollettino di Clio, n.11/12, p.197-200, giu./nov., 2019.

Siegmund Ginzberg è nato a Istanbul nel 1948. La famiglia è giunta a Milano negli anni Cinquanta e i nonni furono sudditi dell’impero ottomano. Dopo gli studi in filosofia ha intrapreso l’attività giornalistica ed è stato una delle storiche firme dell’Unità, quotidiano per cui ha lavorato a lungo come inviato in Europa, Stati Uniti, Cina, India, Giappone, Corea del Nord e del Sud. Ha più volte girato il mondo portando con sé, nel corso degli innumerevoli traslochi, una biblioteca più adatta alla stanzialità che all’erranza.

Inizia come una cronaca giornalistica della giornata convulsa del 30 gennaio 1933, giorno in cui il capo del NSDAP giurò come cancelliere nelle mani del Presidente della repubblica Paul von Hindenburg, che lo aveva sconfitto al 2° turno nelle elezioni presidenziali del 10 aprile 1932. Da qui inizia il racconto dei 12 mesi successivi, a partire dalle reazioni, a posteriori assolutamente inappropriate, delle opposizioni, degli intellettuali e delle altre nazioni europee, racconto in cui via via si ripercorre, con un continuo ricorso a fonti e documenti, il percorso della giovane democrazia tedesca dopo il Trattato di Versailles.

Ma già nel secondo capitolo l’autore si ferma e offre ai lettori un breve testo in cui utilizzando categorie storiche, giustifica la ragione per cui ha scritto questo libro, proprio mentre si accingeva a scrivere un libro sulla Cina, come ha affermato in occasione della presentazione del volume al Palazzo Ducale di Genova il 18 settembre 2019. Alla base della decisione c’è la sensazione di déjà vu, che l’autore afferma non essere il solo a provare da qualche tempo di fronte alle notizie, ascoltando i discorsi sull’autobus, facendo zapping nei talk-show. Ma se la storia non si ripete mai allo stesso modo, e se non è vera la famosa frase attribuita a Karl Marx «La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa», perché occuparsi di come, 80 anni fa, la Germania precipitò quasi senza accorgersene, ma per molti con entusiasmo, nel Terzo Reich?  Una delle ragioni, afferma Ginzberg, è l’ignoranza diffusa su questo periodo della storia. In particolare, fa l’esempio delle risposte date nel corso del programma a quiz L’Eredità [dicembre 2013] sull’anno di nomina di Adolf Hitler a cancelliere del Reich. Solamente la quarta concorrente dice «1933», perché è rimasta una sola scelta, ed è impossibile sbagliare; risposte date da giovani, sicuramente almeno diplomati, se non con una laurea universitaria, che sicuramente hanno affrontato la prova di Storia all’Esame di stato, almeno al colloquio orale.

Analizzando quell’anno, e il prima e il dopo, l’autore afferma di essersi imbattuto in indizi, rassomiglianze, analogie insospettate; l’uso del termine di origine medica sindrome è giustificato proprio dal suo significato letterale di sintomi e segnali concausa di una malattia. Molti di questi sintomi e segnali, afferma Ginzberg, hanno somiglianze con quelli di oggigiorno. Interessante è il ruolo che Ginzberg assegna all’analogia: l’uso dell’analogia non come strumento di polemica e propaganda ma di comprensione; ovviamente le analogie sono per definizione imperfette e ‘superficiali’, ma la mente umana funziona per analogie, che ne fanno uno strumento di comprensione e distinzione, per non ‘fare di ogni erba un fascio’. Ginzberg afferma esplicitamente di aver fatto una scelta ‘faziosa’: fra fatti e argomenti privilegia quel che può richiamare alla mente del lettore vicende, cronache e polemiche della nostra attualità (p.24); è preoccupato da una sorta di coazione a ripetere involontaria, e dal riaffacciarsi di dinamiche e meccanismi che hanno portato al disastro la Germania di Weimar. «[…] temo il presente che imita il passato inconsapevolmente, senza volerlo, magari senza neanche accorgersene».

A differenza di altre crisi, questa sembra di più una catastrofe: tutto cambia in soli 30 giorni: Hitler cancelliere; il mese successivo elezioni politiche e poi (per il partito comunista KPD anche prima) eliminazione delle opposizioni con una raffica di decreti. Uno dei primi decreti riguarda la chiusura delle porte agli immigrati, in gran parte quegli Ost-Juden, gli ebrei orientali, che sono descritti, come ci dice Ginzberg, in maniera molto efficace nel saggio Ebrei erranti, (1927), di Joseph Roth. Fuggivano «guerre e povertà», e spesso consideravano la Germania soltanto come «stazione di transito» verso l’America o la Francia, ma ovviamente, essendo senza documenti (spesso già nel loro paese di origine), hanno la necessità assoluta di procurarseli, anche attraverso mezzi illegali. Da qui, anche prima del 1933, il sillogismo: «L’ebreo è uno straniero, è un immigrato. I migranti sono delinquenti. Quindi gli ebrei, tutti gli ebrei, sono criminali. Questo è il sillogismo che avrebbe portato allo sterminio» (p.38). Qui l’analogia scelta da Ginzberg è assolutamente evidente «Nella versione attuale basta sostituire ad “ebrei” l’espressione “migranti clandestini”, o anche solo “migranti”, per antonomasia indesiderati». E il ‘Decreto immigrazione’ è soltanto il primo degli atti che avranno lo scopo di sbarazzarsi di tutti gli ebrei, anche di quelli che avevano la cittadinanza (oltre l’80% degli ebrei residenti). Quindi chiusura delle porte. Poi l’inizio della repressione contro i comunisti, all’interno di un ‘decreto sicurezza’ che porterà all’allestimento dei primi campi di concentramento affidati alle SS; riservati prima ai comunisti e poi ai criminali, gli immigrati clandestini, poi in un crescendo, agli omosessuali, zingari, rom, sinti. Come scrive Ginzberg, «il catalogo degli indesiderabili è rimasto più o meno lo stesso» (p.43); qui si potrebbe vedere forse un riferimento alla poesia Poi vennero… del pastore Niemöller, talvolta erroneamente attribuita a Bertolt Brecht.

L’intero quinto capitolo è dedicato alle elezioni: «negli otto mesi precedenti la ‘presa del potere’, i tedeschi avevano votato 2 volte per la presidenza della Repubblica, 3 volte per il Reichstag (2 volte nel 1932, a distanza di 4 mesi), più varie elezioni locali. […] le libere elezioni sono il sale della democrazia. Ma troppe elezioni non le fanno per niente bene. Anzi, rischiano di ucciderla». Nella repubblica di Weimar degli anni ’30 votare e rivotare è un sintomo dell’incapacità di risolvere la crisi, perché nessun partito o nessuna possibile coalizione aveva la maggioranza. Dal 1928 al marzo 1933 si ebbero 5 elezioni politiche, in media 1 ogni anno. In questo periodo i voti per il NSDAP salirono da 800.000 a 17,3 milioni, di fronte a un incremento di votanti da 30,4 a 39 milioni. Il NSDAP cattura a poco a poco il voto degli astenuti, di quelli che erano disgustati dalla politica. Si calcola che circa la metà dei 16,5 milioni di voti che il partito guadagnò in quei 5 anni siano di “elettori nuovi”, cioè di giovani che non avevano mai votato o elettori che si erano astenuti nelle elezioni precedenti. Il caso della repubblica di Weimar, dice Ginzberg, è un esempio di come si può giungere alla catastrofe non per una disaffezione al voto, ma al contrario a causa di un più ampio coinvolgimento dell’elettorato. Una Repubblica che si era dovuta difendere, al suo nascere, da violenza rivoluzionaria e controrivoluzionaria, dai putsch (come quello di Monaco), dal timore di un intervento militare, fu invece distrutta da una serie di elezioni a suffragio universale, con una crescente partecipazione degli elettori.

Per analizzare le ragioni del crescente successo elettorale di Hitler, Ginzberg utilizza varie fonti, sia contemporanee (Gramsci), sia analisi successive dei movimenti dell’elettorato. Interessanti la tabella (molto simile a quelle che compaiono su Internet o in TV poco dopo la chiusura dei seggi), che sintetizza i cambiamenti (anche d’umore) del corpo elettorale tedesco dal 1919 al 1933, accompagnata da quella del susseguirsi delle coalizioni fino al 1932. L’autore fa notare, peraltro, che anche dopo le elezioni del 1932, la coalizione su cui poggiava il governo Hitler (nazisti e nazionalisti) non superava il 41,5% dei voti; molti degli oppositori erano convinti che la coalizione non sarebbe durata, come era accaduto in altre occasioni pochi anni prima. Ma non tenevano conto né della capacità di iniziativa politica dei nazisti (i decreti approvati pochi giorni dopo la nascita del governo), né del fatto che c’era un’ampia fascia di popolazione che non vedeva l’ora di trovare uno sbocco politico alle sue aspirazioni.

E’ proprio da qui che si sviluppa la seconda parte del libro, da questa sottovalutazione della situazione, evidenziata da una serie di riferimenti ad articoli di giornale, dichiarazioni di politici e intellettuali, anche ebrei, che non credono possibile l’avvento di un vero e proprio regime, che metta in atto quello che ha promesso durante la campagna elettorale. D’altro canto è molto interessante la parte del quinto capitolo dedicata all’elettorato di Hitler (Chi votava per Hitler?). L’autore cita il romanzo di Hans Fallada E adesso pover’uomo? (1932) in cui i dubbi su cosa votare (spurgati nell’edizione della Medusa del 1933, insieme a varie altre pagine osé, ma presenti nella traduzione italiana del 2009) da parte dei due protagonisti portano a presumere che ambedue abbiano poi votato per i nazisti. Vari studi hanno cercato di spiegare questa crescita esponenziale dei voti per i nazisti; e ultimamente sembra prevalere l’ipotesi che l’elettorato abbia seguito soprattutto i propri interessi economici; ma difficilmente i grandi spostamenti elettorali hanno una sola causa, dice Ginzberg. Qui c’è di nuovo un’analogia con l’attualità: propone un episodio vissuto in treno nel 1976, l’anno della maggiore avanzata elettorale del PCI. Nello scompartimento tutti dichiarano che avrebbero votato per il PCI, ma ognuno per una ragione diversa, talvolta diametralmente opposta; conclude amaramente che se sui treni non fossimo tutti perennemente attaccati allo smartphone capiremmo sicuramente molto di più sui flussi elettorali.

Un capitolo che mi è sembrato molto interessante, anche dal punto di vista della didattica, è quello sul linguaggio. Ginzberg utilizza a piene mani il libro del filologo ebreo Viktor Klemperer LTI (Lingua Tertii Imperii – la Giuntina, 1999), che attraverso l’analisi delle novità linguistiche del Terzo Reich cerca di capire cosa e come è successo. Dal linguaggio si passa all’uso dei mezzi di comunicazione (giornali, radio e poi cinema), che nell’arco di pochi mesi sono oggetto di una vera e propria appropriazione da parte di nazisti. Il ruolo di questi mezzi di comunicazione è importantissimo, sia per le grandi tirature dei giornali già prima dell’avvento di Hitler, sia per la capillare presenza di stretti rapporti tra lettori (e ascoltatori) e giornalisti. Le lettere dei lettori vengono pubblicate, ovviamente quando servono a denunciare le malefatte di un commerciante ebreo o di un impiegato ‘infedele’, e le lamentale degli ascoltatori sugli stessi temi riportate quasi in diretta. Questo argomento ci avvicina a un capitolo-chiave che permette di spiegare il crescente consenso di cui godrà il regime fino ai primi mesi del 1945; Ginzberg titola il nono capitolo Come fu comprato il popolo; e il secondo paragrafo, sempre usando il sistema dell’analogia, Il reddito di cittadinanza. Il riferimento in questo caso è al libro di Götz Aly Lo stato sociale di Hitler (Einaudi, 2007), una miniera di informazioni su come in pratica fu finanziato l’ottenimento e il mantenimento del consenso, anche attraverso una politica assistenziale, attuata con una vera e propria spoliazione, anche fiscale, della comunità ebraica e poi, in guerra, con un saccheggio vero e proprio di tutta l’Europa sottomessa.

Innumerevoli sono gli spunti che il testo, peraltro breve e scritto con un piglio ‘anglosassone’ e ironico (soprattutto nelle analogie ‘suggerite’ ma mai pienamente esplicitate), offre alle attività didattiche con gli studenti. Permette un efficace smontaggio di una serie di stereotipi del passato vicino e anche del presente, attraverso riferimenti e collegamenti che utilizzano sia fonti contemporanee (Gramsci, Klemperer, Fallada, Brecht ecc.), sia studi recenti che forniscono le basi del ragionamento e soprattutto del tentativo, a mio parere riuscito, di spiegazione e di attualizzazione della Sindrome 1933.

Il testo è seguito da un’efficace bibliografia tematica che si rifà, ma non completamente, alla divisione in capitoli e offre esempi sia di romanzi (oltre a quello di Fallada, anche le distopie Il complotto contro l’America di Philip Roth e Qui non è possibile di Sinclair Lewis) sia di fonti documentarie, sia di testi di saggistica.

Mario Pisolu

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O fim do Terceiro Reich: a destruição da Alemanha de Hitler, 1944-1945 | Ian Kerschaw

Ian Kershaw destaca-se como um dos principais historiadores da atualidade cuja especialidade de estudo toma por objeto de pesquisa o período que compreendeu o Terceiro Reich (1933-1945). Iniciou sua trajetória acadêmica enquanto medievalista (analisando o campesinato alemão). Posteriormente voltou sua atenção para analisar as sociedades do século XX, em especial a alemã. Ainda em relação a sua atuação profissional podemos destacar a sua consultoria em algumas séries produzidas pela rede BBC sobre o nazismo e o fato de ter lecionado na Universidade de Sheffield (South Yorkshire, Inglaterra) aposentando-se em 2008. Nos últimos anos parte de sua obra foi traduzida e publicada no Brasil permitindo maior divulgação de seu trabalho e de suas discussões em relação a essa temática. Nesse sentido, suas críticas em relação à utilização do conceito de “totalitarismo” para definir a sociedade alemã das décadas de 1930 e 1940 e a equiparação o fenômeno do nazismo com o chamado stalinismo, presentes em alguns de seus livros, têm suscitado discussões produtivas em nosso meio acadêmico.

A problemática central de seu livro “O fim do Terceiro Reich”, tema da presente resenha, diz respeito à compreensão dos motivos que levaram os alemães a apoiarem o regime nacional socialista até sua capitulação, sobretudo no último ano do conflito. O livro contém ao todo nove capítulos, nos quatro capítulos iniciais o autor nos apresenta o contexto da guerra e das expectativas da população do Reich quanto aos rumos do conflito após os eventos de 1944 (“Dia D” e Operação “Bagration”). É interessante ressaltar que nessa primeira abordagem o historiador fez uma distinção entre o contexto vivido pelos alemães que residiam no Oeste daqueles instalados no Leste. Os motivos dessa divisão serão mais bem trabalhados posteriormente. Ainda em relação a esses capítulos iniciais, Kershaw mostra como ocorreu o processo de radicalização do regime de acordo com o rumo tomado pela guerra.

Do quinto capítulo até o nono podemos observar os acontecimentos ocorridos no período de maior carnificina do conflito, entre fins de 1944 e o primeiro semestre de 1945. As discussões apresentadas pelo autor versam sobre a deterioração das estruturas do Estado [1], do consenso em relação ao partido e da diminuição do carisma e da cofiança depositada em Hitler. Ao discorrer sobre esses diversos elementos, Kershaw busca compreender as razões pelas os alemães continuaram a manter o esforço de guerra e, consequentemente, o funcionamento do Estado nazista em uma situação próxima ao colapso total.

O material empírico utilizado por Kershaw neste trabalho foi bastante variado. Compreendeu os informes das mais diversas áreas do Partido Nacional-Socialista dos Trabalhadores Alemães [NSDAP] [2]; da Wehrmacht [Conjunto das Forças Armadas do Terceiro Reich]; da Polícia; informes e memorandos de autoridades estatais em seus mais diversos níveis; material proveniente dos Aliados; relatos do período; memórias; jornais alemães da época como o Völkischer Beobachter, Der Angriff, entre outros. Dentro desse conjunto é interessante destacar três tipos em particular: os informes do departamento de propaganda, os relatos da época e as memórias.

Em relação ao primeiro grupo o autor destacou como os membros do governo e do partido tentaram lidar com as informações obtidas através das pesquisas referentes ao “ânimo” da população alemã em relação à guerra. Tal documentação permitiu acompanhar mais detidamente a partir de que ponto a crença dos alemães em relação à guerra começaram a se modificar, bem como as opiniões em relação ao governo e a figura de Hitler.

No que diz respeito às memórias e aos relatos o autor, ainda que não entre em uma discussão mais aprofundada a esse respeito, demonstra a natureza problemática da utilização das memórias produzidas após o conflito, pois muitos de seus autores optaram pela construção de uma narrativa cujo objetivo era conseguir o máximo de isenção possível em relação a crimes de guerra e de sua adesão aos princípios do nacional-socialismo. Nesse sentido, ao confrontar as narrativas memorialistas de determinados sujeitos históricos com seus relatos produzidos no decorrer da guerra percebemos que os mesmos agiram de forma bastante distinta das suas alegações posteriores. Além disso, os relatos possibilitam observar diferentes possibilidades de ação que os atores sociais tinham diante de si naquele momento.

O autor optou por não iniciar sua pesquisa tomando como marcos o desembarque aliado na Normandia (“Dia D”) ou a grande ofensiva soviética no Leste (operação “Bagration”). A justificativa para isso está relacionada ao fato de inúmeras produções historiográficas utilizarem esses dois acontecimentos na construção de uma narrativa com um único desfecho provável: a capitulação da Alemanha. Segundo Kershaw a realidade era bastante distinta. Apesar dos alemães terem consciência de sua “delicada” situação isso não significava necessariamente em uma derrota final, como demonstraram as várias fontes desse período consultadas pelo pesquisador. Alguns tinham consciência da impossibilidade da Alemanha vencer a guerra, mas a ideia de uma derrota total não constituía um horizonte imediato. Para muitos era possível que a aliança entre as democracias ocidentais e a União Soviética pudesse ser desfeita e com isso a Alemanha conseguisse estabelecer um acordo com ingleses e americanos para combater os comunistas, mantendo assim alguns de seus ganhos territoriais.

Assim sendo, Ian Kershaw tomou como ponto de partida para sua análise o atentado malsucedido contra Hitler ocorrido em 20 de julho de 1944. Nesse episódio, alguns oficiais da Wehrmacht, destacando-se dentre eles o coronel Stauffenberg, tentaram assinar o Führer com uma bomba que apenas lhe causou alguns ferimentos de menor monta. Para o historiador tal acontecimento torna-se mais interessante pelo trauma interno suscitado na sociedade alemã, além de ter sido o pretexto ideal para a radicalização do regime, tanto em termos de mobilização da sociedade quanto do nível de coerção imposto à mesma. Após esse evento, a sociedade alemã mobilizou-se para prestar homenagens, agradecer a “providência divina” pela sobrevivência de seu líder, exigir a punição de todos os envolvidos e reafirmar seu comprometimento para com o mesmo. Através dessa conjuntura bastante favorável, Hitler permitiu que os mais altos escalões do partido dessem início a um processo de endurecimento do regime, ou nas palavras dos mesmos “completar a revolução nacional-socialista da sociedade alemã”.

Para Kershaw, a reprovação e a impopularidade do atentado deixaram claro o fato de que, naquele contexto, não haveria a possibilidade de ocorrer um movimento popular para destituir o governo, a exemplo da Revolução Alemã de 1918, que pôs fim a guerra, a monarquia e instaurou a República. Por fim cabe ressaltar outra observação bastante perspicaz do autor em relação a esse episódio: ao analisar o contexto posterior ao conflito, Ian Kershaw pôde perceber que para muitos alemães o fato dos conspiradores não terem conseguido lograr êxito em sua ação evitou a criação de um novo mito da “punhalada pelas costas” (mito esse que perpassou toda a política alemã das décadas de 1920 e 1930) potencialmente problemático para as negociações de paz no pós-guerra.

Para o autor, o conjunto dos militares foi de longe o grupo que mais se destacou no sentido de mobilização e sustentação do regime até a capitulação final. As questões relativas a tal fenômeno variaram de acordo com a posição na hierarquia das forças armadas e também dos rumos tomados pelo conflito. A perspectiva de estudo utilizada por Kershaw não busca na imposição de uma capitulação total da Alemanha a motivação dos soldados e oficiais prosseguirem na luta, ainda que para uma parte deles tal exigência, somada a outros fatores, fosse uma justificativa válida. Segundo o historiador é necessário compreender o processo subsequente à tentativa de assassinato malsucedida contra Hitler. Com a radicalização do regime a partir de 1944, Hitler passou a nomear generais e oficiais mais graduados que tinham estreita afinidade com os ideais do nacional-socialismo. A presença desses “fanáticos” [3] reforçou as opiniões e ordens de Führer sobre as ações de organização e atuação do exército na estratégia de defesa das fronteiras do Reich (bem como da última tentativa de ataque realizada pelos alemães, a “ofensiva das Ardenas”). Também é importante levar em consideração o fato deles terem desencorajado e deslegitimado as opiniões de outra parte do oficialato, opiniões essas mais realistas [4]. Nesse sentido, os comandantes militares ficaram cada vez mais sujeitos aos comandos do ditador em relação à condução do conflito. Essa divisão na cúpula das forças armadas foi um dos fatores, segundo o autor, que evitou qualquer outra iniciativa semelhante àquela ocorrida em julho de 1944.

Outros elementos auxiliam a entender o quadro mais amplo do comprometimento da Wehrmacht na continuação do conflito. De acordo com a documentação, muitos militares se recusaram a desacatar as ordens do Führer por um senso de lealdade e honra decorrentes de seu ofício enquanto militar. Outros também abominavam a ideia de traição em relação a seu líder (tendo consciência de que qualquer ato contra a vida de Hitler seria impopular e não garantiria que as tropas depusessem as armas). Ao longo dos últimos meses do conflito a situação nos dois fronts da guerra se deteriorava a passos largos, nesse sentido, a quase totalidade do tempo dos oficiais era despendida em organizar da melhor maneira possível os recursos para obter a maior eficácia na defesa do território. Por fim, o prosseguimento no conflito, sobretudo a partir de 1945, tinha como meta obter o maior tempo possível para que tanto as tropas quanto a população civil localizadas nas regiões do Leste pudessem alcançar a parte Oeste do Reich, escapando assim dos soviéticos.

No que concerne aos soldados às motivações também foram bastante semelhantes. Muitos ainda mantinham um nível razoável de crença na figura do Führer; outros acreditavam que se conseguissem resistir pelo tempo suficiente poderia acontecer algo que mudasse os rumos do conflito (a já referida crença na dissolução da aliança entre os comunistas e os democratas, ou a confecção das prometidas armas “miraculosas”). Somente um número bastante reduzido de nazistas convictos acreditavam na vitória final da Alemanha. Com o agravamento das condições, a questão da defesa da pátria (enquanto entidade abstrata) e outras motivações (como a não degeneração da raça ariana) foram sendo deixadas de lado, subsistindo apenas as preocupações com a própria sobrevivência e com a solidariedade em relação aos entes queridos e camaradas que ainda estavam nas regiões do Leste.

Em relação os soldados do front oriental, desde o início a defesa da Pátria estava ligada não somente com a autopreservação. Esses combatentes tinham clareza do destino reservado aos seus entes queridos, e aquilo que eles entendiam como “modo de vida alemão”, caso os bolcheviques conseguissem invadir a Alemanha. Para além da propaganda do partido, esses sujeitos tinham conferido em primeira mão uma amostra do que seria a invasão soviética ao conseguirem retomar, temporariamente, a cidade de Nemmersdorf. Ao expulsarem o invasor, os soldados encontraram uma cidade praticamente arrasada, corpos das vítimas do exército vermelho espalhados em determinados pontos além de escutarem o relato de alguns sobreviventes.

Através dessa perspectiva, a quase totalidade dos soldados, independentemente de serem ou não nazistas “fanáticos”, empenhavam-se ao máximo de suas capacidades para conter o avanço soviético. Mais uma vez Kershaw demonstra que apesar do clima de insatisfação com o regime e com o próprio Hitler nos últimos meses, as preocupações quanto ao destino individual e dos parentes, além das constantes lutas impediam uma articulação no sentido de depor Hitler e buscar uma solução negociada para o fim do conflito.

Quando o autor desloca seu foco para analisar como a população manteve certo consenso e legitimação do regime, Ian Kershaw problematiza a ferramenta analítica do totalitarismo. De acordo com muitos trabalhos, a sociedade alemã só foi submetida e levada a executar determinadas ações por conta do alto nível de coerção, e violência, exercidas pelo Estado e pelo partido nazista. Entretanto a análise de Kershaw questiona tal interpretação a partir de algumas observações. Segundo o historiador, até o atentado de Stauffenberg os níveis de coerção do partido e do próprio Estado alemão não eram tão grandes como as interpretações baseadas no conceito de totalitarismo tendem demonstrar. De fato, havia a utilização da violência e da coerção em grande escala contra os inimigos do regime (comunistas, trabalhadores estrangeiros, judeus, ciganos, políticos adversários aos nazistas). Mas esse nível de coerção e violência não era utilizado contra a população alemã e esta última demonstrava um nível elevado de apoio e legitimação do regime.

Contudo, após o malogrado atentado de Stauffenberg teve início o processo de radicalização do regime para atender as demandas do esforço de guerra total. Ao longo de 1944, mas principalmente a partir de 1945, o regime passa a “importar” para a própria Alemanha os mecanismos de controle que eram empregados nas regiões ocupadas. O uso sistemático da coerção e da violência por parte dos membros do partido, da polícia; a interferência cada vez maior dessas organizações na vida dos cidadãos; tribunais de justiça de exceção proliferaram no território alemão no decorrer desse período. Devido a isso é possível entender a atitude de resignação de segmentos da sociedade. Para essas pessoas o fim da guerra era questão de tempo (especialmente para a população do Oeste, que sofria com os constantes bombardeios aliados), então o principal objetivo era apenas sobreviver até o fim do conflito o que significava não se indispor com as autoridades e nem assumir uma postura clara de contestação ao regime.

Se alguns adotaram uma postura de resignação, outra parte da sociedade continuou a resistir ao máximo possível, especialmente a população que buscava se refugiar no Oeste. Apesar das pressões por parte do regime, a coerção e a violência eram motivos menores quando comparados ao medo de ser capturado pelos soviéticos. Para esses indivíduos a sobrevivência e o desejo de escapar da captura da União Soviética marcam o apoio ao regime, pois somente ele seria capaz de lhes garantir a proteção ou o tempo necessário para se chegar à zona ocupada pelos ingleses e americanos (nesses casos a ideia de vitória ou de um fim vantajoso para a Alemanha já haviam sido completamente descartados).

Por fim, outra categoria social analisada por Kershaw foi o conjunto dos membros do NSDAP. Para os membros mais destacados do partido, os governadores das províncias (Gauleiter) entre outros hierarquicamente superiores, a razão para continuar exercendo suas funções era bastante clara: no caso de derrota eles cairiam junto com o Regime, não importando se a Alemanha capitulasse para os ingleses, americanos ou para os soviéticos. Nesse sentido era imperioso manter as estruturas do governo em funcionamento mesmo que ao custo do aumento da violência e coerção em relação à população. Assim sendo, o historiador pôde perceber que ao se aproximar o colapso total do Terceiro Reich esses membros mais destacados do partido não tinham o objetivo de capitular junto com seu líder, seguindo os princípios do nacional-socialismo (uma exceção notável foi à posição de Joseph Goebbels, que pôs fim a sua vida juntamente com a esposa e seus filhos). Na iminência do fim, essas figuras destacadas tentaram encontrar meios de escapar da Alemanha ou de conseguir algum acordo com os vencedores visando uma posição no governo pós Hitler ou para escapar das acusações de crimes de guerra.

Para os integrantes dos quadros inferiores do partido e de outras organizações, como a Juventude Hitlerista, as atitudes variaram de acordo com os acontecimentos. Até meados de 1945 eles buscavam exercer suas funções para garantir o tempo necessário para reorganização das defesas, confecção das novas armas e mantendo a esperança, veiculada nos meios de propaganda oficiais, de que a Alemanha precisava ganhar tempo até a aliança entre seus inimigos se desfazer o que poderia mudar os rumos do conflito. Como essas expectativas iam se desfazendo a cada novo avanço sobre o território do Reich, as preocupações passavam a ser a da garantia da própria sobrevivência (tanto contra ressentimentos da própria população alemã quanto dos aliados e soviéticos).

Como conclusão, o trabalho de Kershaw mostra-se interessante devido à proposição de novas perspectivas para a compreensão do Terceiro Reich. Para o autor a antiga justificativa de que a Alemanha teria resistido até o final devido à exigência de uma rendição incondicional, como já foi discutida anteriormente, não reverberou em grandes mobilizações ou promoveu transformações no governo e nas forças armadas. Apesar de seu uso pela propaganda do partido nazista, esse não foi um fator que justificasse todo o esforço empreendido. Além disso, nos relatos consultados pelo autor referentes ao período da guerra, houve escassas menções a tal imposição como fator de apoio ao regime e de sua política.

Outra interpretação que pode ser questionada diz respeito às interpretações baseadas no conceito de “totalitarismo”. No decorrer do livro percebemos que as mesmas não conseguem responder de maneira satisfatória os motivos da existência de um consenso social em relação à ditadura nazista. Mesmo com o aumento do nível de coerção interna, o consenso da população alemã em relação ao Terceiro Reich não estava baseado no terror, mas na crença de que o regime era a única solução disponível dentre as limitadas opções que eles dispunham. Em outros casos a coerção interna não foi o elemento norteador para o prosseguimento do esforço de guerra. Preocupações e anseios como, por exemplo, a sobrevivência pessoal e de entes queridos ou a preocupação em relação ao destino daqueles que eventualmente ficassem sob o julgo soviético constituíram meios mais eficazes que as ideologias do nacional-socialismo para mobilizar a sociedade alemã do período e nortear as ações daqueles sujeitos históricos.

Notas

1. Alguns exemplos nesse sentido foram: repartições administrativas funcionando de maneira precária, sem material e sede fixa; serviços de iluminação e de transportes deixaram de serem prestados devido à falta de estrutura e de pessoal; os serviços telegráficos e de correspondências também foram sendo suprimidos por motivos análogos.

2. Podemos destacar como os mais interessantes os seguintes: informes dos Gauleiter, os administradores das províncias do Reich; do departamento de propaganda; dos órgãos do partido criados com a finalidade de exercer diversas funções de competência do Estado entre outros.

3.  A utilização do termo “fanático” foi inicialmente esporádica, restringindo-se aos integrantes do exército que explicitamente demonstravam suas vinculações com o partido e com os princípios do nacional-socialismo. Com o decorrer do conflito mesmo aqueles que eram contrários aos princípios dessa ideologia passaram a ser denominados dessa forma devido à imposição feita pelo departamento de propaganda no intuito de demonstrar unidade e comprometimento na causa. No último ano do conflito alguns integrantes das forças armadas buscavam apresentar-se dessa forma para reafirmar seu comprometimento para com Hitler a fim de evitar acusações de traição ou covardia, ambas punidas com a morte.

4. Para alguns oficiais a estratégia a ser adotada consistia em recuar para determinadas posições a fim de estabelecer e consolidar uma defesa mais eficaz dos territórios sobre controle alemão e do próprio Reich. Contudo, as ordens de Hitler, e o apoio do oficialato “nazista” impediram tais medidas por considerarem-nas atos explícitos de covardia ou falta de comprometimento com a causa da guerra. Nesse sentido, vidas e equipamentos necessários para o prolongamento do esforço de guerra alemão foram desperdiçados de forma displicente.

José Airton Ferreira da Costa Júnior – Mestre em História Social pela Universidade Federal do Ceará. Professor temporário do Departamento de História da Faculdade de Filosofia Dom Aureliano Matos (FAFIDAMUECE). E-mail: [email protected]


KERSHAW, Ian. O fim do Terceiro Reich: a destruição da Alemanha de Hitler, 1944-1945. Tradução Jairo Arco e Flexa. São Paulo: Companhia das Letras, 2015. Resenha de: COSTA JÚNIOR, José Airton Ferreira da. “Experiência e sociabilidades ou os limites do nacional-socialismo”. Revista de História Bilros: História(s), Sociedade(s) e Cultura(s). Fortaleza, v.6, n.11, p. 149-157, jan./abr., 2018. Acessar publicação original [DR]

Diários de Berlim, 1940-1945 | Marie Vassiltchikov

Há seis anos começava a guerra.

Parece o tempo de

uma vida

Missie Vassiltchikov, Berlim, setembro de 1945

Mestre no escutar e no escrever, Truman Capote legou ao mundo da Cultura uma participação indelével, baseada na sua incrível capacidade de ver, mentalizar e, na sequência, descrever detalhadamente fatos havidos, por ele percebidos no instantes em que aconteciam ou recriados tempos depois. Entrou para a História assim.

O século 20 tem mais destes autores – muitos dos quais compõem o que hoje conhecemos por New Journalism, por exemplo -, tão ou mais famosos que Capote. Mas, singular que ele só, o século 20 tem gentes que não atingiram (nem almejavam isso) o que podemos chamar de Grande Mídia – nem eram jornalistas. Marie Vassiltchikov é uma dessas figuras. Princesa russa (bem nascida, portanto), poliglota, viajada, Missie (como era conhecida) também foi refugiada de guerra civil, funcionária de serviços diplomáticos e, o mais impressionante, um olhar atento voltado e situado no coração do Nazismo, essa chaga da Humanidade da qual tanto já lemos, tanto já expurgamos, tanto já discorremos e, paradoxalmente, tanto ainda temos a descobrir. Leia Mais