Una politica senza religione – De LUNA (CN)

De LUNA, Giovanni. Una politica senza religione. Torino: Einaudi, 2013, p. 137. p. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.

“Per risvegliarci come nazione, dobbiamo vergognarci dello stato presente. Rinnovellar tutto, autocriticarci. Ammemorare le nostre glorie passate è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti, è conforto all’ignavia e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione”

Con queste parole di Giacomo Leopardi, G. De Luna conclude il suo saggio sulla mancanza di una “religione civile” nella nazione italiana e sui tentativi (sporadici) di costruirne una nel corso dei centocinquant’anni di storia unitaria.

In premessa, l’autore esplicita cosa intende per religione civile: “uno spazio in cui gli interessi che tengono insieme un paese si trasformano in diritti, in doveri civici, in valori consapevolmente accettati, nel nome dei quali i cittadini italiani sono sollecitati ad abbandonare le nicchie individualistiche o comunitarie, quei progetti esistenziali racchiusi nel terribile slogan ‘tengo famiglia’ e ‘mi faccio i fatti miei’, condividendo un universo di simboli in grado di legare il singolo e la società in un rapporto di dipendenza e di identificazione”.

Si tratta quindi di uno spazio in continua costruzione, attraverso l’invenzione di tradizioni e il loro consolidamento mediante simboli riconosciuti che creano una realtà pubblica di appartenenza e di cittadinanza. E questo chiama in causa direttamente le Istituzioni e la Politica.

L’autore svolge il rotolo della storia unitaria d’Italia incontrando prima i fallimenti del “fare gli italiani” dell’Italia liberale di fronte al trasformismo della politica, poi quelli  del “ciascuno al suo posto” della gerarchia fascista che non riuscì a imporre un vero totalitarismo perché non affrancata da una “marcata subalternità nei confronti di quelli che erano i valori proposti dalle gerarchie cattoliche” ( p. 29).

Il momento nel quale gli italiani furono sul punto più vicino a costruire una loro religione civile fu senza dubbio quello della realizzazione  della Costituzione nata dalla Resistenza. Largo spazio G. De Luna dedica all’impegno del Partito d’Azione, individuando nei loro esponenti gli autentici ispiratori di un pensiero laico in grado di farsi civilmente religioso. Piero Calamandrei “cercava di sottrarre il paradigma di fondazione della nostra Repubblica all’ipoteca (che gli appariva effimera) dei partiti antifascisti per riconsegnarla direttamente al vissuto e all’esperienza collettiva di tutti gli italiani. Di qui la sua insistenza sul ‘carattere religioso’ della lotta partigiana…

A fondamento di un nuovo spazio pubblico in cui ci si potesse riconoscere come cittadini di uno stesso Stato nel nome di valore condivisi, Calamandrei chiamava così ‘il popolo dei morti’ (di quei morti che noi conosciamo uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e sulle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti) presentato non nella dimensione ‘vittimaria’ dell’innocenza e dell’inconsapevolezza, ma come fonte attiva di una nuova legittimazione dello Stato” (pp. 40-41).

Il tentativo naufragò sugli scogli del clericofascismo democristiano, favorito dall’art. 7 della Costituzione che integrandovi i Patti Lateranensi creò un “pericoloso innesto confessionale” nella costruzione della Repubblica.

Nel luglio 1960 l’Italia del boom economico scoprì l’antifascismo. Manifestazioni e scontri cruenti con la polizia impedirono il congresso del partito neofascista MSI a Genova, medaglia d’oro della Resistenza, e causarono le dimissioni del governo Tambroni, un monocolore democristiano con l’appoggio esterno del MSI.  Si aprì una stagione di importanti riforme: la scuola media unica, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, lo Statuto dei Lavoratori, la chiusura dei manicomi. Ciò nonostante, sostiene De Luna, “il rilancio della Costituzione nel suo significato di testo fondamentale della nostra religione civile fu una grande occasione mancata” (p. 60) perché la stagione si esaurì presto e gli anni Ottanta si aprirono con la famosa intervista a E. Scalfari, nella quale Enrico Berlinguer poneva alla politica tutta la “questione morale”. I partiti ormai non provvedevano più a formare la volontà popolare, non svolgevano più alcuna funzione pedagogica, di dibattito tra le masse. Essi erano diventati pure macchine per l’occupazione del potere.

L’Italia si stava avviando verso una condizione nella quale l’unica “religione” poteva essere quella cattolica vaticana, affiancata, seppur tra mille problemi, da quelle dei nuovi immigrati; non vi sarà più spazio per alcuna religione civile.

O meglio.

L’unica vera, trionfante, religione sarà quella officiata dal “mercato” a cui la politica si sottometterà. Berlusconi sarà il suo eroe.  Tutto sarà immerso nella religione dei consumi. E gli italiani, memori di secoli di povertà, si immergeranno in un benessere fondato su consumi indotti massicciamente dai nuovi media, soprattutto dalla televisione invadente. Tutto, ma proprio tutto, sarà ordinato dai totem dell’audience, dello share, della pubblicità, della visibilità, del culto dell’immagine. A questo proposito De Luna ricorda opportunamente come neanche il Vaticano si sottrarrà alle leggi del mercato: basti pensare alle figure degli ultimi tre pontefici, al carisma di Giovanni Paolo II di cui fu perfino spettacolarizzata la lunga agonia, al coup de theatre delle dimissioni si Benedetto XVI, alla capacità meravigliosa di tenere la scena di papa Francesco.

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Il bisogno di pátria – BARBERIS (CN)

BARBERIS, Walter. Il bisogno di pátria. [Torino]: Einaudi, 2004 e 2010. 141p.. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.

“Come figli di una famiglia senza armonia e senza memorie, gli italiani si sono spesso cresciuti da soli, superando la solitudine con cinismo, con opportunismo, con diffidenza, talvolta con esibizionismo. Ignorando le ragioni e l’utilità di una salvaguardia dell’interesse generale. E’ così che l’idea di patria si è di volta in volta caricata di significati che invece di tendere all’unità hanno accentuato visioni faziose, volte all’esclusione.” (p.7)

Con queste parole W. Barberis  ripropone la questione della patria, o meglio della mancanza  di un’idea di patria per gli italiani, partendo dalla sua considerazione che tale mancanza non ha inizio, come è stato scritto, l’8 settembre 1943, ma ben più in là, almeno cinque, se non quindici, secoli or sono. Egli sviluppa le sua argomentazioni  annodandole intorno a tre temi, o meglio, intorno a tre “bisogni”, a ciascuno dei quali dedica quarantadue pagine: il bisogno di Stato, il bisogno di storia, il bisogno di patria.

Quale patria?

“una patria che non disegni i confini di un’identità chiusa, esclusiva; ma che prenda valore dalla consapevolezza  della pluralità storica dei suoi volti. Una patria che non dimentichi di richiedere a chi appartenga alla comunità il rispetto delle tradizionali virtù civiche: l’obbligazione fiscale, l’esercizio della giustizia, la difesa delle istituzioni dello Stato.”  (p. 10)

Il libro guarda al futuro, sia pure riflettendo sul passato. Si tratta, infatti, di un libro di storia.  Perché, ricorda  l’autore, ” è la storia ciò di cui ha bisogno un popolo: qualcosa che rimetta in ordine, oltre lo spirito di parte, la dinamica degli avvenimenti e le loro molteplici ragioni.” La memoria ha uno sguardo parziale e, pertanto, non può nutrire che sentimenti  patriottici esclusivi; memorie differenti si contendono lo  spazio della patria “una” tendendo ciascuna a farsi storia. E’ proprio questa contesa che una società sana deve evitare. E la storia ha esattamente questa funzione: “affidata a protocolli riconosciuti da una comunità scientifica”, attraverso procedure di analisi e interpretazioni, ha il compito di fornire alla comunità intera uno sguardo generale. Barberis esemplifica tutto questo nelle pagine dedicate a sviluppare il tema del bisogno di storia  indicando le linee per la costruzione di una “dotazione storiografica comunitaria – se vogliamo nazionale – … [uscendo] dalle contingenze e dalle urgenze della contemporaneità. L’Italia ha una storia  millenaria, tutta utile alla definizione dei suoi caratteri attuali e alla possibilità di emendarli.” E qui vengono ricordati i soggetti necessari a costruire una storia d’Italia: la Chiesa innanzitutto, Roma, i municipi, il Mezzogiorno, la Repubblica, la Costituzione.

La storia ci conferma che una comunità priva di un apparato statuale efficiente e condiviso non è davvero tale, poiché ciascuno in misura più o meno grande inclina infine verso il proprio interesse privato, provocando proprio ciò che tanto spesso è stato incolpato agli italiani: opportunismo, trasformismo, dissimulazione, mancanza di senso dello Stato, appunto. Barberis mostrando la necessità di uno Stato per gli italiani ripercorre la storia della sua formazione a partire dalla risposta alla domanda: perché proprio il Piemonte (e non un altro tra gli Stati d’Italia) unificò la penisola fondando lo Stato italiano?

“Il Piemonte, selvatico e periferico, non aveva conosciuto gli splendori della civiltà comunale e signorile… La certezza delle istituzioni, la loro continuità, la prospettiva di durata della dinastia, il suo radicamento territoriale, fecero ciò che non conobbe il resto d’Italia: assicurarono i sudditi che le loro iniziative erano possibili, che avevano i requisiti minimi di riuscita, primo fra tutti il tempo, garante eccellente di ogni contratto…. non furono simpatia, garbo e cultura; ma senso dello Stato, tecnica amministrativa e militare, e anche un certo patriottismo, il bagaglio eccentrico con cui poi i piemontesi si disposero all’incontro con gli altri italiani.”(p. 21)

Il bisogno di patria, la coscienza di appartenere ad un’unica comunità, furono esigenze che si rappresentarono immediatamente dopo la fondazione dello Stato italiano e sono state preoccupazioni presenti finora nella classe dirigente per tutti i centocinquant’anni dal 1861. All’inizio fu soprattutto la letteratura a svolgere il ruolo più importante, si pensi solo alle poesie di Carducci e al Cuore di De Amicis, ma poi dopo la prova tremenda della Grande Guerra, fu il fascismo a forgiare l’idea di patria sovrapponendola alla retorica della guerra, aiutato in questo dalla letteratura futurista. Così si confuse patria con nazionalismo, aggressione e morte, con la guerra appunto.

Oggi, bisogna ricostruire per gli italiani un’idea di patria che escluda non solo guerra ma anche la sopraffazione degli altri popoli , i quali, al contrario, vanno inclusi in un’idea di patria meticciata, alla quale partecipano tutti coloro che hanno la fortuna di abitare un paesaggio unico al mondo, poiché, ricorda Berberis citando Settis, “il nostro bene culturale più prezioso è il contesto, il continuum nel quale si iscrivono monumenti, opere, musei, città e paesaggi, in un tessuto connettivo ineguagliabile… questo è il tratto identitario degli italiani” (p.111).  Se questo è vero, come è vero, vuol dire che insegnare storia d’Italia significa insegnare contemporaneamente geografia d’Italia, poiché ciò che conta imparare, va ribadito, è innanzitutto il contesto, di tempo e di spazio.

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Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare dalle religioni antiche – BETTINI (CN)

BETTINI, Maurizio. Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare dalle religioni antiche. Bologna: Il Mulino, 2014. 155p. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Clio’92, 7 ago. 2019.

“La pluralità degli dèi  non costituisce l’essenza delle religioni politeistiche, come vorrebbe farci credere il nome che le designa, ma solo la condizione necessaria affinché esse possano esplicare la virtù che meglio le caratterizza: ossia la capacità di pensare in modo plurale ciò che ci circonda  e, nello stesso tempo, di fornire altrettanti modi d’azione per interpretarlo e intervenire su di esso” (pag. 111).

Maurizio Bettini,  antropologo del mondo antico, ci fa conoscere in questo libro la specificità e l’originalità delle religioni politeistiche dell’antichità attraverso la costruzione della concettualizzazione di “quadro mentale” che, per capirci,  è, nel nostro mondo, “quello costituito dalla convinzione profonda, e spesso talmente interiorizzata da risultare inconscia, che non possa esservi se non un solo e unico Dio.” (p. 21). Tale quadro mentale oggi connaturato a quella  buona parte del pianeta che professa religioni monoteiste viene opposto a quello delle società antiche politeiste, in particolare quelle greca e romana.  Beninteso, va subito sgombrato il campo da vecchie gerarchie evolutive di stampo colonialista, eurocentriche e cristianocentriche che considerano la religione greca e romana come una mitologia pagana e idolatra, “superata”  dal cristianesimo unica e vera religione. “Gli dèi che furono venerati  e onorati da [queste] due civiltà – ricorda Bettini – sono stati al centro di organizzazioni sociali, culturali e intellettuali molto complesse…” (p.9) che si fondavano, tra l’altro, su una concezione della cittadinanza considerata importantissima, al punto da coinvolgere perfino il mondo degli dèi.  Infatti, nel quadro mentale dei Romani gli dèi di un altro popolo, amico o conquistato, venivano cooptati all’interno della civitas romana. Tutt’altra cosa dalla tolleranza alla quale siamo esortati dal migliore cristianesimo dei nostri tempi.

In fondo tutto il libro di Bettini  costituisce una comparazione tra il quadro mentale delle religioni politeistiche e quello dei monoteismi ebraico-cristiano e islamico.

Innanzitutto, la questione della violenza.  Se è vero che Greci e Romani hanno combattuto guerre e perpetrato massacri non hanno mai fatto guerre “per affermare una religione sull’altra, come invece hanno fatto nei secoli successivi cristiani e musulmani” (p. 43).

Il fatto è, sostiene Bettini, che il politeismo è flessibile: “la messa in valore di alcune caratteristiche proprie di ciascuna divinità (il fornire alimento, il portar semi, la stabilità) [costituiscono un] tramite cui costruire inferenze che producono di volta in volta l’identificazione con un’altra divinità” (p.69) ovvero la traduzione di una divinità da una cultura ad un’altra. Gli esempi sono molteplici:  l’egizio Serapide diventa Esculapio o Iuppiter  a seconda delle caratteristiche del dio, il Wotan germanico è identificato con Mercurius, ecc.

Il monoteismo, al contrario, non può che essere rigido, costruito com’è su una verità scritta direttamente da Dio: le sacre scritture.

Se è vero che la Chiesa cattolica “produce” una quantità sterminata di santi e beati,  soddisfacendo le esigenze di “protezione divina” delle diverse attività umane, è vero altresì che il Catechismo della stessa Chiesa ribadisce l’esistenza di un solo  “Dio unico e vero”. Con l’aggiunta che “evangelizzando senza posa gli uomini la Chiesa si adopera affinché essi possano ‘informare dello spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità’ in cui vivono” (p.45). Di qui allo Stato confessionale il passo è (è stato?) breve.

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Il divano di Istanbul – BARBERO (BC)

BARBERO, Alessandro. Il divano di Istanbul. Palermo: Sellerio, 2015. 207p. Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Il Bollettino di Clio, n.10, p.110-112, gen., 2019.

L’impero ottomano, iniziato nei primi decenni del Trecento da ‛Othman, un capo tribù di una regione dell’Anatolia nord-occidentale, fu portato avanti dai suoi eredi e successori fino a raggiungere la massima espansione nel XV-XVI secolo, dopo la conquista di Costantinopoli, della Grecia, dei Balcani, dell’Ungheria, delle regioni mediorientali, della penisola arabica, della Persia. Fu fermato in Europa occidentale a Lepanto nel 1571, pur continuando a dominare nelle isole mediterranee e nella costa nordafricana. L’impero durò sei secoli. Finì di fatto nel 1918 con la sconfitta nella prima guerra mondiale, e fu sciolto nel 1923 da Kemāl Atatürk, che, nel corso della sua rivoluzione e rifondazione nazionale turca, depose l’ultimo imperatore, Maometto VI, e proclamò la Repubblica di Turchia, attualmente esistente.

Alessandro Barbero racconta in 207 pagine sei secoli di storia, una storia avvincente, che si legge come un romanzo.

Barbero mette a frutto le sue ricerche immergendole nel contesto delle sue immense conoscenze storiche, rappresentando con grandissima sapienza la civiltà ottomana, in uno con la religione musulmana e l’immagine del turco ancor oggi presente nella memoria collettiva italiana ed europea.

L’autore ci presenta l’architettura istituzionale dell’impero nelle prime pagine del libro. L’imperatore è il sultano. Il governo dell’impero si chiama divan, ed è presieduto dal gran visir e composto dai pascià.

“La tradizione dei nomadi delle steppe continua a vivere nell’impero ottomano anche attraverso i simboli del potere. Il principale simbolo del potere nella gerarchia ottomana è una coda di cavallo, come quella che i capitribù nomadi piantavano su un palo davanti alle loro tende per far riconoscere la loro autorità. Davanti al padiglione del sultano, quando è in marcia alla testa dell’esercito, si piantano sette pali con sette code di cavallo, e soltanto il sultano può averne così tante; il gran visir ha diritto a quattro code di cavallo, per marcare bene la differenza; gli altri pascià, membri del governo ma inferiori al gran visir, possono inalberare tre code.” (p. 16)

Come tutte le storie, specialmente quelle di grandi e longevi imperi, anche questa ha i suoi protagonisti. Sono grandi condottieri militari, conquistatori di terre e di popoli, ma anche grandi politici e governanti, come Solimano il Magnifico, che Barbero ci ricorda contemporaneo del Rinascimento italiano, della Riforma protestante e della Controriforma cattolica, di Michelangelo e di Lutero, di Machiavelli e Calvino.

Ecco una caratteristica fondante della scrittura di Barbero: il continuo richiamo alle conoscenze storiche che si presumono nel lettore acculturato dai manuali scolastici; ciò gli consente di situare nel tempo le narrazioni del suo libro cogliendone le contemporaneità. E non si sottrae al confronto, anzi. Sottolinea le differenze tra Roma e Bisanzio-Istanbul al tempo di Solimano.

“Siamo dunque in un’epoca in cui con il senno di poi, pensando alla conquista dell’America, pensando alla diffusione delle armi da fuoco, noi vediamo un’Europa già lanciata alla conquista del mondo, un Occidente straordinariamente vitale, pieno di energie; i contemporanei non ne erano così convinti, loro vedevano le lacerazioni spaventose, le atrocità delle guerre di religione, una cristianità spaccata tra cattolici e protestanti, e perciò orrori, sofferenze, guerre incessanti. E di fronte a questa Europa insanguinata, a questa Cristianità lacerata vedevano un impero ottomano governato da un nuovo Salomone, da un uomo che era al tempo stesso un grande legislatore e un grande guerriero.” (p. 61)

Barbero non si limita al confronto coevo; per farci meglio comprendere le specificità dell’impero ottomano nello svolgersi dei secoli, spesso ci ricorda che gli avvenimenti nel tempo modificano spazi, istituzioni, modi di vivere. Sono frequenti interruzioni della narrazione introdotte da “noi siamo abituati a pensare che…” e via con precisazioni e messe a punto.

Il divano di Istanbul ci consegna un affresco dell’impero e della civiltà ottomana che ci fa capire molto della Turchia e della civiltà islamica odierna, dimostrando, se ce ne fosse ancora bisogno, l’importanza della conoscenza del passato per capire il presente. Gli storici bravi come Barbero ricostruiscono un pezzo di passato che ci fa comprendere il mondo in cui stiamo vivendo e lo raccontano a noi, uomini e donne europee del ventunesimo secolo in modo a noi comprensibile. È la semplicità che, come dice il poeta, è difficile a farsi.

Vicenzo Guanci

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La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto – FECI; SCHETTINI (BC)

FECI, Simona; SCHETTINI, Laura Schettini. La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto. (Secoli XV-XXI). Roma: Viella, 2017. 287p.  Resenha de: GUANCI, Vicenzo. Il Bollettino di Clio, n.9, p.73-74, feb., 2018.

Le guerre di fine Novecento si sono distinte non solo per il 95% di vittime civili non combattenti ma per l’uso del corpo delle donne come arma. In particolare le guerre etniche nella ex Jugoslavia e in Ruanda hanno messo in evidenza come gli stupri di guerra fossero programmati e usati come un’arma vera e propria. Un’arma particolarmente efficace nelle società patriarcali fondate su una concezione proprietaria del corpo femminile. La guerra non solo rende legittimo infrangere i comandamenti divini del non rubare e non uccidere ma anche quello di non desiderare la “donna d’altri”; lo stupro della “donna del tuo nemico”, infatti, ha la duplice funzione di umiliare nell’immediato il nemico incapace di proteggere la “propria” donna e di garantirsi in aggiunta effetti dirompenti che vanno oltre la fine del conflitto.

Del resto, la retorica nazional-patriottica usa la metafora della nazione-donna da difendere e lo sfondamento dei confini un disonore; proprio questo fece assumere allo stupro un valore chiave nei conflitti tra nazionalismi, rendendolo nel corso del Novecento una tra le più efficaci e ricercate pratiche di guerra.

Ma andiamo per ordine. Il volume curato da S. Feci e L. Schettini affronta il tema della violenza maschile sulle donne nell’Europa degli ultimi cinquecento anni. Le fonti principali sono di tipo giuridico: testi normativi e atti processuali.

Analizzati e interpretati alla luce del contesto storico e sociale nel quale venivano utilizzati e applicati.

Ad esempio, in età moderna (e medievale) le prerogative del capofamiglia di esercitare un diritto di correzione (ius corrigendi) nei confronti della moglie, dei figli, dei domestici era considerato ovvio, riconosciuto ovunque in Europa e nei domini coloniali, qualsiasi fosse la confessione religiosa, la situazione patrimoniale della famiglia, il contesto politico e sociale. Era considerato, altresì, ovvio l’uso della forza per correggere e imporre comportamenti adeguati all’obbedienza e al rispetto che si deve al capofamiglia.

Tuttavia, l’uso della “forza” non doveva eccedere, sconfinando nella “violenza”. In questo caso, la moglie poteva ricorrere a istituzioni e magistrature per denunciare gli abusi. Diventava in quel caso decisiva la testimonianza dei vicini, la percezione che il contesto sociale aveva delle violenze. Va detto che la tendenza naturale di magistrati sia ecclesiastici che laici era quella di salvaguardare l’unità della famiglia limitandosi, nei casi più favorevoli alle donne, ad un ammonimento al maschio violento.

La cosa interessante è che l’esame attento delle carte processuali, pur narrando storie di violenze prolungate nel tempo e di progressiva gravità, consentono di individuare un limite, una “soglia”, pur flessibile, tra l’uso della forza per correggere comportamenti ritenuti inaccettabili e l’abuso violento e ingiustificato.

Oggi la violenza contro le donne, in particolare i tanti femminicidi degli ultimi anni, da qualcuno è stata vista come un ultimo colpo di coda del patriarcato declinante.

Non è detto. La partita è lunga. L’indagine storica può aiutare a capire di più e meglio. Si pensi, per esempio, al rifiuto inflessibile e religiosamente fanatico del “matrimonio affettivo” in molte società, ritenendo un sacro obbligo divino per il pater familias scegliere lo sposo per la “propria” figlia. La storia ci fa capire tanto. Prima di tutto ci rende chiari i tratti costitutivi del patriarcato ancora presente nelle nostre società contemporanee; in secondo luogo, fa piazza pulita di ogni generalizzazione e semplificazione circa i contesti nei quali è presente la violenza maschile contro le donne. Essa non conosce confini geografici né epoche storiche; non ha barriere culturali né di classe né tantomeno religiose.

“D’altronde, scrivono nell’introduzione le curatrici nell’Introduzione, tra uomini e istituzioni era e resta a lungo in atto una partita circa i margini di immunità e impunità spettanti al pater familias, condotta e giocata con variazioni ed esiti difformi nel tempo e nei diversi contesti, ma assai viva.”

Vicenzo Guanci

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