Darwin y el darwinismo desde el sur del sur – VALLEJO et al (HCS-M)

GALASSO P Darwin y el darwinismo desde el sur del sur DarwinVALLEJO, Gustavo et al. (ed). Darwin y el darwinismo desde el sur del sur. Madrid: Doce Calles, 2018. 446p. Resenha de: GALASSI, Paolo. Darwin en las pampas: revisitando la recepción del darwinismo en Iberoamérica. História, Ciência, Saúde – Manguinhos , Reio de Janeiro, v.27 n.1 Jan./Mar. 2020.

Concebido en el marco de los debates generados por la Red Iberoamericana de Estudios de Historia de la Biología y de la Evolución – fundada tras el XIX Congreso Internacional de Historia de la Ciencia (Zaragoza, 1993) y desde entonces alma mater de encuentros celebrados a lo largo de toda América Latina –, Darwin y el darwinismo desde el sur del sur (Vallejo et al., 2018) reúne las contribuciones de un heterogéneo núcleo de docentes e investigadores en torno a las problemáticas generadas por la irrupción, propagación y recepción del pensamiento evolucionista en el mundo iberoamericano. Leia Mais

Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così – CALZOLAIO; PIEVANI (BC)

CALZOLAIO, V. ; PIEVANI, T. Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così. Torino: Einaudi, 2016. 144p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.8, p.77-79, dic., 2017.

Le migrazioni sono processi complessi. La storia e la geografia (assieme ad altre discipline, come ad esempio l’antropologia e la biologia) possono aiutarci a comprenderli, perché tempo e spazio sono parametri utili per mettere in prospettiva un problema, soprattutto se complicato e difficile come questo.

Per capire il presente e i suoi eventi abbiamo bisogno di distanza, di prenderne le distanze. Così come per capire il luogo nel quale ci è capitato di vivere, ce ne dobbiamo allontanare. Da fuori si vedono altre cose e aspetti che prima rimanevano invisibili.

Il saggio di V. Calzolaio e T. Pievani parla di migrazioni nella prospettiva spazio-temporale del tempo profondo dell’evoluzione e della storia di Homo sapiens, su scala planetaria.

Inserire la vicenda umana nel contesto dell’evoluzione ci aiuta a comprendere come il fenomeno migratorio riguardi prima di tutto animali e piante che nel lunghissimo periodo seguono i destini dei territori in cui abitano (che si separano e si uniscono a causa della deriva dei continenti e dei cambiamenti climatici) e abbia un ruolo decisivo nel processo evolutivo, dando origine spesso a nuove specie.

Quella umana è stata condizionata da sempre dal migrare di altre specie e le ha condizionate con i suoi spostamenti che hanno assunto nel tempo una straordinaria funzione evolutiva, non solo per chi si spostava ma anche per gli ecosistemi coinvolti.

I capitoli iniziali del saggio di Calzolaio e Pievani ripercorrono le tappe delle migrazioni umane dagli albori della storia degli ominidi intorno a 6 milioni di anni fa in Africa, che resta il territorio di massima espansione della specie fino a 2 milioni di anni fa, fornendo le premesse per un possibile atlante globale delle migrazioni umane.

Il bipedismo è stato l’innovazione decisiva, con la conseguente liberazione delle mani. Dal cespuglio di forme ominide, una molteplicità di specie distribuite tra l’Etiopia e il Sudafrica, è emerso il genere Homo intorno a 2,5 milioni di anni fa, all’inizio del Pleistocene in concomitanza di continue oscillazioni glaciali. In questo periodo, per la prima volta nella storia, ha luogo un processo di espansione che porterà il genere Homo a oltrepassare i confini dell’Africa, in un arco temporale che abbraccia decine e centinaia di migliaia di anni. “(…) Immaginiamo che un piccolo campo base umano venga spostato lungo certi corridoi geografici di 2 o 3 chilometri per ogni generazione, ogni 25 anni (…) in 100.000 anni dall’Africa si può raggiungere la Cina. Non è necessaria alcuna intenzione di farlo. Se il clima cambia, le fasce di vegetazione lentamente si spostano, e con esse le faune: tutte le vicende di rilievo del nostro genere si svolgono nell’instabilità delle oscillazioni climatiche del Pleistocene”. (pp. 17-18).

In tre ondate migratorie successive (Out of Africa), sostanzialmente attraverso gli stessi corridoi geografici (valle del Nilo e costa del Mar Rosso verso il Mediterraneo; corridoi del Levante e da qui smistamento verso l’Asia e l’Europa), si perfeziona la conquista africana del mondo: e intorno a 50-45000 anni Homo sapiens entra per la prima volta in Europa. Al suo arrivo l’Eurasia era già abitata da altre specie umane. “Quello che oggi ci sembra fuori discussione, cioè essere l’unica specie umana sulla Terra” affermano gli autori “ in realtà è un evento recente frutto di numerose e sovrapposte migrazioni” (p. 27).

In meno di 50 mila anni Homo sapiens arriverà a completare il popolamento dei continenti, imponendosi sulle altre specie umane (almeno tre). Secondo gli autori questo successo è dovuto alla migliore capacità migratoria dei nostri antenati. Alla base, un circolo virtuoso tra comportamenti sociali e culturali più avanzati (in particolare per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio e dell’intelligenza simbolica), la capacità migratoria e l’espansione territoriale.

Il viaggio ormai non è solo costrizione ma intenzione e scelta connessa alla capacità di trasformare le nicchie ecologiche.

Mentre alcuni popoli restarono raccoglitori cacciatori, altri si avviarono verso la domesticazione di piante e animali in un processo di differenziazione dovuto al “variopinto mosaico di fattori ecologici e geografici” (clima, geologia, habitat, epidemie…).

Il cambiamento radicale si ha con la rivoluzione agricola: fino allora (intorno ai 10 mila anni prima di Cristo) gli umani erano quasi tutti raccoglitori cacciatori senza fissa dimora (si è stimata una popolazione mondiale intorno ai 10 milioni); il loro numero progressivamente andrà diminuendo fino allo 0,001 per cento su una popolazione totale di tre miliardi negli anni Settanta del XX secolo.

Inizia una nuova fase: il tempo delle emigrazioni e delle immigrazioni da e verso territori di altri popoli, che dura fino ad oggi.

Si possono individuare 8 ondate migratorie collettive di neocontadini, secondo un processo non lineare (ci furono anche contrazioni demografiche) e con differenze in parte spiegabili con i vincoli ambientali. Le strategie adattive di Homo sapiens migrante globale sono alla base della diversità umana, biologica e culturale, accelerata da spostamenti e rimescolamenti: le culture e le tecnologie sono state gli strumenti delle comunità umane in movimento per vivere in climi e ambienti i più diversi e instabili.

Attorno alle risorse idriche si vanno formando le prime civiltà con la specializzazione e complessità legata alla successiva rivoluzione urbana e della scrittura. Migrare non è ora solo comportamento adattivo legato a criticità climatiche o ecologiche; è in qualche modo un comportamento culturale: accanto alle costrizioni del migrare (ora anche quelle in conseguenza delle guerre umane e dell’aggressione violenta di un gruppo su un altro) si va affermando la libertà di migrare.

Sia forzati che non, gli spostamenti con il neolitico incisero profondamente sulle dinamiche culturali, sociali, linguistiche e genetiche delle popolazioni. Si complicarono e intensificarono i meticciati (basti penare alle tracce di incontri tra migranti presenti in ogni lingua): “Non ci sono un tempo e un luogo ove osservare una comunità di umani in una forma autentica e originaria.” (p. 67).

Ci sono confini naturali (nicchie e corridoi di specie, barriere geografiche, linee di costa, crinali montani…) e confini artificiali, antropici: con la diffusione dell’agricoltura stanziale si vanno consolidando i confini artificiali. E nel progressivo affermarsi della centralizzazione dei poteri decisionali, del controllo della forza e dell’imposizione di gerarchie e dominio si stabilizzano i confini istituzionali che le migrazioni in qualche modo mettono in discussione, contribuendo a configurare l’evoluzione della specie sul pianeta e a determinare processi di differenziazione e trasformazione delle biodiversità e dinamiche che durano ancora oggi.

“Prima dell’età antica, la specie umana non è tutta nomade e seminomade, come si legge da troppe parti. Esiste un antichissimo e complesso fenomeno migratorio, precedente il tradizionale inizio della storia. Poi, dopo la diffusa rivoluzione neolitica, si stagliano probabilmente due lunghi periodi storicamente e geograficamente determinati delle migrazioni umane sulla Terra: il periodo antico della diffusione dell’agricoltura, primo e quasi unico settore produttivo, anche durante i fenomeni medievali (e forse non proprio solo europei latino-germanici) del feudalesimo e dell’assolutismo; il periodo moderno dell’espansione di Stati europei e di confini statuali, subito collegato al periodo contemporaneo delle rivoluzioni industriali, fino alla globalizzazione e ai cambiamenti climatici antropici globali.” (p. 71).

Si rende dunque indispensabile, secondo gli autori, la ricostruzione dell’“impasto migratorio fra mondi separati delle antichissime e antiche comunità” per capire anche gli sviluppi successivi della vicenda umana.

Gli ultimi capitoli del volume sono dedicati alla storia moderna e contemporanea delle migrazioni a cominciare dai due Out of Europa: il primo con la conquista del mondo da parte degli Stati europei a partire dall’inizio del XVI secolo; il secondo dopo la rivoluzione industriale alla fine del XVIII secolo con l’inizio dell’Antropocene.

Alla base delle migrazioni internazionali del primo Out of Europa, tra gli altri fattori, l’affermazione dello Stato moderno e poi di quello nazionale, delle nuove armi e delle nuove navi. Del secondo, l’espansione del capitalismo, l’imperialismo degli Stati europei che nel 1914 controllavano l’81,4 per cento della superficie mondiale, le dinamiche demografiche ed economiche delle madrepatrie: nei primi decenni del Novecento La somma dei migranti era pari a circa il 5 per cento della popolazione mondiale. Emigrazione e immigrazione si formalizzano con gli Stati nazionali: si vanno definendo in questo periodo la condizione di profugo e di rifugiato e si cominciano ad adottare politiche migratorie statali, soprattutto per il controllo degli arrivi e il contingentamento dei flussi.

Venendo all’oggi, gli autori mettono in rielevo il nesso tra clima e migrazioni, documentato anche dai numerosi rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC Intergovernmental Panel on Climate Change http://www.ipcc.ch/index.htm); nesso peraltro già presente nelle migrazioni di massa della specie all’inizio della sua storia. Con una novità decisiva: adesso l’ecosistema globale è messo in discussione dall’azione di Homo sapiens. I profughi ambientali (migranti forzati dall’impatto umano sugli ecosistemi, da disastri e delocalizzazioni) sarebbero nel 1994 circa 25 milioni, cui dobbiamo aggiungere quelli a seguito di guerre, violazione dei diritti, povertà, disuguaglianze multiple: i migranti forzati costretti a fuggire dalle loro case sono stati 59,5 milioni alla fine del 20I4, con una tendenza al rialzo che sembra consolidarsi.

Di fronte a questo quadro, che fare?  Gli autori propongono tre percorsi per non subire ma gestire i futuri flussi migratori:  – riconoscere i rifugiati climatici;  – contrastare le migrazioni forzate;  – gestire le migrazioni sostenibili.

Sono migranti contemporanei a noi oltre un miliardo dei sette e mezzo miliardi di donne e uomini che vivono nel pianeta. Accanto alla libertà di migrare (già prevista nella Dichiarazione universale dei diritti umani: art. 13 e 29), va garantito il diritto di poter retare con dignità nel territorio dove si è nati.

Un impegno decisivo per la sopravvivenza, la convivenza, lo sviluppo di Homo sapiens e dell’intero ecosistema: “La virtù necessaria per questa impresa è anche una delle più scarse al momento: la lungimiranza. Verso il passato e verso il futuro”.

Ernesto Perillo

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Ecologia, evolução e o valor das pequenas coisas – COSTA (HCS-M)

COSTA, Felipe A.P.L. Ecologia, evolução e o valor das pequenas coisas.2.ed. Viçosa: Edição do autor. 2014. 137p. Resenha de: MAGALHÃES, Gildo. Defesa da ecologia, distância do ambientalismo. História Ciência Saúde – Manguinhos, Rio de Janeiro, v. 22  supl. Dec. 2015.

A comunicação é uma atividade inerente ao próprio fazer científico, que se transformou ao longo dos séculos numa empreitada profissionalizada, envolvendo a publicação em veículos especializados de ideias, métodos e resultados relativos às ciências (Vickery, 2000). No entanto, cada vez mais essa comunicação tende a empregar uma linguagem por demais hermética, servindo primordialmente para uma troca entre os colegas pertencentes a campos específicos do conhecimento, fora do alcance de outros cientistas, para não dizer dos leigos, daqueles que têm, no mais das vezes e quando muito, um conhecimento de nível básico, proporcionado pelo ensino médio. Adicionalmente, verifica-se que muitos cientistas, até mesmo alguns de áreas voltadas para as humanidades, não escrevem bem. Para servir de ponte entre a comunicação científica e o grande público, surgiu o campo que é comumente denominado divulgação científica, também chamado na França de “vulgarização científica” (lá, sem nenhum sentido pejorativo que aqui possa eventualmente ter a palavra “vulgarização”).

Na divulgação científica encontramos amiúde escritores com formação em jornalismo e que enfrentam o desafio de transpor a ciência para uma linguagem mais abrangente (Sánchez, 2003Massarani, Turney, Moreira, 2005). Se esse esforço costuma vir envolto numa roupagem literariamente atraente, por outro lado o jornalismo científico corre o risco, como se verifica tão frequentemente, de perder o rigor das ideias originais, e até mesmo falsear a pretendida tradução do erudito para o popular (Tognolli, 2003). Alguns jornais diários brasileiros, por exemplo, mantêm uma seção de ciência, com resultados nem sempre à altura do propósito da divulgação. Temos ainda o hábito, infelizmente bastante difundido, de pautar o conteúdo dessas notícias na mídia pela publicação de artigos vindos do exterior, como os dos periódicosNature e Science, em vez de matérias a resultar de trabalhos próprios do jornalismo local (Barata, 2010). Naturalmente, há exceções de bons jornalistas dedicados à divulgação científica que desenvolveram uma tradição respeitável, e há mesmo o caso excepcional de bons cientistas que se tornaram profissionais do jornalismo de divulgação científica – e para citar um nome conhecido, tivemos entre nós nesse perfil a figura pioneira de José Reis.

Embora também raro, é possível que um cientista, mesmo sem ser jornalista, tenha a preocupação de bem escrever, para que um tema fascinante do ponto de vista científico não se torne árido e possa então atingir um público maior. Um subproduto interessante desse empreendimento da redação clara é quando um texto de divulgação impacta uma pessoa que futuramente se tornará um cientista importante – como aconteceu com James Watson, para quem a leitura de O que é vida?, do físico e pensador Erwin Schrödinger, foi fundamental em sua decisão de estudar a estrutura molecular dos genes.

Não se pode perder de vista tampouco que não é muito nítida a fronteira entre a comunicação, em senso estrito, e a divulgação científica, como pode ser avaliado examinando-se uma boa antologia como a de Edmund Bolles (1997). Nela estão recolhidos textos científicos de importância fundamental que são ao mesmo tempo literariamente exemplares, e que perpassam vários séculos, indo desde a Antiguidade de Heródoto e Lucrécio até a contemporaneidade.

As considerações anteriores vêm a propósito de Ecologia, evolução e o valor das pequenas coisas, de Felipe A.P.L. Costa. Este é um biólogo especializado em entomologia e ecologia, conhecido pelas suas colaborações regulares noObservatório da Imprensa, em que emprega o rigor acadêmico para definir de forma certeira conceitos biológicos que a grande imprensa difunde com imprecisão e o público em geral propala incorrendo em erros de significado ou até mesmo de tradução. Naquele veículo eletrônico, o autor também tem divulgado obras e a vida de cientistas menos conhecidos, além de tratar de diversos outros temas, tais como a duvidosa eficácia da política científica brasileira. Uma faceta mais desconhecida e invulgar sua é a campanha pacifista desenvolvida no sítio da internet Poesia contra a guerra, em que reúne contribuições dessa natureza de poetas, principalmente brasileiros, alguns famosos e muitos outros que se inserem na produção poética dita marginal.

Nos textos da obra aqui focalizada, Felipe Costa exercita divulgação científica dirigida primordialmente a um público não especializado. Segue, portanto, na senda ilustre de cientistas como o saudoso zoólogo Stephen Jay Gould, famoso por suas páginas na revistaNatural History, depois reunidas em diversos livros de sucesso, vários deles publicados no Brasil.

Nessa segunda edição de Ecologia, evolução e o valor das pequenas coisas, Felipe Costa acrescentou mais seis capítulos aos vinte da edição anterior, divididos em cinco partes. De forma saborosa, discorre sobre evolução biológica, reservas e parques, a relação entre clima e populações, e práticas destrutivas do meio ambiente. São textos curtos, uma boa parte dos quais foi publicada por veículos como Ciência Hoje e Tribuna de Minas. O conteúdo é diversificado, embora focalize sempre aspectos ecológicos e evolutivos. Uma amostra dessa diversidade é a denúncia do relativo descaso dos nossos cientistas com a paisagem nativa da caatinga, ou a pouca atratividade dos insetos (75% das espécies animais) nas campanhas ambientalistas (e o autor revela como a ingenuidade do movimento ambientalista frequentemente se sobrepõe à ciência), a sugestão de forração com serapilheira nas trilhas de parques naturais, a crítica à falta de atenção dos pesquisadores brasileiros para com a fenologia de árvores tropicais, ou ainda uma queixa quanto à introdução funesta em nosso meio de espécies exóticas (como o mosquitoAedes aegypti e o caracol-gigante-africano). Ao final da obra, há notas e um pequeno glossário. Trata-se de leitura fácil de assuntos que se revelam politicamente intrincados, de interesse para o público geral, mas que pode ter também e mais especificamente uma aplicação didática no ensino médio.

Pode-se sugerir que no futuro o autor entenda a evolução biológica de forma não tão rígida, pois ele permanece firmemente ancorado dentro da tradição neodarwinista ortodoxa, sem uma abertura para correntes importantes dentro da biologia, mas discordantes dessa interpretação, como a evolução em quatro dimensões (Jablonka, 2010) ou a realimentação somático-germinativa (Steele, Lindley, Blanden, 1998). O paradigma neodarwinista tem sido recentemente confrontado por alguns cientistas renomados internacionalmente, como a falecida Lynn Margulis, cuja posição se afastou do dogmatismo darwiniano ao se filiar às teorias da simbiogênese, ideias que descendem dos trabalhos do botânico russo Konstantin Mereshkovski. É verdade que nada faz sentido em biologia fora da evolução, mas há teorias e teorias da evolução, e não apenas uma única,vencedora e inamovível, como defendem os adeptos mais ferrenhos da teoria sintética.

Principalmente o grande público é o que mais precisa ser informado de que as controvérsias dentro da ciência são permanentemente uma fonte de inovação e que elas são, aliás, parte do funcionamento normal da atividade científica, para além da ciência paradigmática que se oferece ao grande público nos veículos de divulgação científica. A história das ciências é também a das divergências, algumas das quais mostram uma notável longevidade, pois mesmo depois de declaradas mortas e enterradas ressurgem às vezes de formas inesperadas – aspecto que ainda escapa até a muitos historiadores e filósofos da ciência.

No caso específico da evolução há um agravante, já que qualquer divergência costuma ser erroneamente interpretada como expressão de uma suposta guerra entre religião e ciência – e para sermos justos, essa posição refratária e equivocada não se resume ao jornalismo de divulgação científica, mas integra a própria tradição acadêmica. Apenas quando a divulgação científica conseguir se aprofundar e, à maneira do jornalismo investigativo, se puser a trabalhar com a desconfiança de que cientistas não são tão objetivos e neutros quanto pretendem ser, o resultado será uma apreensão qualitativamente superior do que significa fazer ciência – em que até pequenas coisas podem ter grande valor, como propõe acertadamente o autor.

Referências

BARATA, Germana.Nature e Science: mudança na comunicação da ciência e a contribuição da ciência brasileira (1936-2009). Tese (Doutorado em História Social) – Faculdade de Filosofia, Letras e Ciências Humanas, Universidade de São Paulo. 2010. [ Links ]

BOLLES, Edmund B.Galileo’s commandment: 2,500 years of great scientific writing. New York: W.H. Freeman. 1997. [ Links ]

JABLONKA, Eva. Evolução em quatro dimensões. São Paulo: Companhia das Letras. 2010. [ Links ]

MASSARANI, Luísa; TURNEY, Jon; MOREIRA, Ildeu de Castro (Org.).Terra incógnita: a interface entre ciência e público. Rio de Janeiro: Vieira e Lendt; UFRJ/Casa da Ciência; Fiocruz. 2005. [ Links ]

SÁNCHEZ Mora, Ana Maria. A divulgação da ciência como literatura. Rio de Janeiro: EdUFRJ. 2003. [ Links ]

STEELE, Edward J.; LINDLEY, Robyn A.; BLANDEN, Robert V.Lamarck’s signature: how retrogens are changing Darwin’s natural selection paradigm. Reading: Perseus. 1998. [ Links ]

TOGNOLLI, Claudio. A falácia genética. São Paulo: Escrituras. 2003. [ Links ]

VICKERY, Brian C. Scientific communication in History.London: Scarecrow. 2000. [ Links ]

Gildo Magalhães – Professor, História da Ciência/Faculdade de Filosofia, Letras e Ciências Humanas/Universidade de São Paulo. Brasil. E-mail: [email protected]

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An Enquiring Mind: Studies in Honor of Alexander Marshack – BAHN (DP)

BAHN, Paul G. (Ed.) An Enquiring Mind: Studies in Honor of Alexander Marshack. Oxford; Oakville: Oxbow Books. 332p. Resenha de: PRIJATELJ, Agni. Documenta Praehistorica, v.37, 2010.

This volume represents a tribute to Alexander Marshack – an eminent science journalist and photographer who came into the field of Palaeolithic research in 1963 at the age of forty-five as a self-taught outsider with the idea that “certain marks, etched in patterns on bone, represented a calendrical system” (p. 3). In the next forty years, Alexander Marshack contributed enormously to the field of Palaeolithic art research; particularly through his work on the cognitive abilities of early humans and themes such as notational systems, female imagery, finger flutings and net-like motifs, archaeo-astronomy, but also by introducing the new techniques of infrared, ultraviolet and fluorescence light into examining cave paintings.

In accordance with the various research interests of the late Alexander Marshack, twenty seven contributors in twenty two chapters elaborate on such diverse themes and topics as mnemonic systems, rituals, evolution and human cognition, and Palaeolithic art.

Their expertise in various fields, ranging from archaeology, anthropology, ethnography, astronomy and economics, along with their personal acknowledgements of the inspiration of Marshack’s work, testify to his great legacy. Although the papers in this volume are organised alphabetically, this short overview presents them in four sections as recognised by themes they share.

The first thematic section in the volume comprises two papers (Soffer, Tattersall) that seek to explore evolution and human cognition. Soffer, who is concerned with the ‘Neanderthal enigma’, argues against interpreting the Middle to Upper Palaeolithic transition as a revolution, and against the use of environmental determinism for the last Neanderthal niches, since

“it is not only Neolithic or Bronze Age “man” that made “himself” but so did “his and hers” Middle and Upper Paleolithic predecessors – creating both their cultures and biologies through day to day decisions and their intended and unintended consequences” (p. 303).

If Soffer stresses as the principal element of modernity “institutionalized interdependence – the various social ties that create permanent inter-sex bonds between adult individuals through such grouping principles as marriage, kinship, and descent ideologies” (p. 290), Tattersall seeks to explore modernity through the advent of symbolic cognition in Homo sapiens. The author elaborates on the view that the symbolic intellect is

the result of a qualitative rather than a quantitative revolution in hominid cognition: something equivalent in scale developmentally to the unanticipated and apparently abrupt appearance of the essentially modern hominid body skeleton much earlier in hominid evolution” (p. 320–321).

Four papers in the volume (Aveni, Hudson, Krupp and Schmandt-Besserat) are concerned with mnemonic systems. While Hudson tracks the evolution of counting systems from the Palaeolithic to the earliest city-states and stresses the continuous importance of calendrical systems for social structures, Schmandt- Besserat compares and contrasts two major symbolic systems of art and writing to conclude that not only did “The two communication systems had a different origin, history and evolution” but also “art became a universal phenomenon, writing remained the privilege of a few societies” (p. 266). Aveni contributes to the topic by presenting a particular type of Mesoamerican petroglyph – pecked crosses, whose various uses were connected to celestial phenomena and calendars. A paper by Krupp, on the other hand, explores an ancient Greek constellation myth that captures the seasonality of the rains.

The third thematic section in the volume consists of two chapters (Frank, Lorblanchet) that are concerned with rituals. While Frank examines masked figures visits in Europe during winter and links them to bear ceremonialism, Lorblanchet analyses various types of human traces in caves, some of which tend to imitate claw marks. The author interprets them as ritual remnants and “evidence for ritual activity in the heart of the paleolithic sanctuaries” (p. 165). By far the most extensive section in the book comprises chapters examining Paleolithic and rock art.

The contributors present diverse case studies, ranging from portable and parietal art from European and Near Eastern Paleolithic contexts (Belfer-Cohen & Bar-Yosef, Bosinski & Bosinski, Delluc & Delluc, d’Errico, Martin, Mussi, Otte, Pettitt & Bahn & Züchner, Sharpe & Van Gelder) to Altai Bronze age petroglyphs (Okladnikova) and Australian aboriginal rock art (Clegg). The paper by Belfer-Cohen and Bar-Yosef thus focuses on abstract and figurative art in the Near East which is dated to the late Pleistocene. The authors argue that some of the abstract Natufian markings, previously interpreted as decorations, might be notation marks, perhaps “markers of specific groups” (p. 32). While Bosinski and Bosinski analyse the representations of seals from the Magdalenian site of Gönnersdorf and interpret them as evidence of the long-range mobility of the group occupying a site 500 km away from the ocean, D’Errico re-examines plaquette 59 from the very same site with the oldest depiction of childbirth. The author draws attention to several new components of the engraved composition, most importantly to a third female figure.

According to the author, the depiction of childbirth in an upright position assisted by other women indicates that “relationships between women had attained a degree of complexity comparable to that of traditional societies in which these practices have been documented” (p. 107). Delluc and Delluc examine a particular aspect of Paleolithic art – depictions of animal and human eyes to illuminate the mind of Palaeolithic artists. Otte, on the other hand, focuses on the semantic qualities of cave art by an interesting comparison of Paleolithic signs with modern road markings and graffiti. The author aims to penetrate the codified meanings of parietal art by, first, examining primary units or ‘morphemes’ consisting of “drawings, outlines, colors and textures” (p. 229) and, second, by analyzing complex compositions and their relationship with the space and the viewer. While Martin publishes for the first time a detailed study of the engraved and carved block from the cave of Guoy, Mussi, on the other hand analyses the Upper Paleolithic Venus figurine of Macomer from Western Sardinia. Pettitt, Bahn and Züchner question the dating of Chauvet art to the Aurignacian and Gravettian periods as proposed by the Chauvet excavation team and convincingly argues on the basis of features, motifs and techniques ascribable to the later phases of the Upper Paleolithic, problems connected with the radiocarbon dates obtained, and the lack of parallels in the decorated caves of the region that “while one cannot rule out the possibility of a limited amount of Aurignacian art in Chauvet, by far the greater amount of its parietal figures should be attributed to the Gravettian, Solutrean and Magdalenian” (p. 257). Lastly, Sharpe and Van Gelder discuss various types of finger flutings – “the lines that human fingers leave when drawn over a soft surface” (p. 269) – which have been frequently overlooked in interpretations of Paleolithic art. By differentiating several forms of finger fluting on the basis of body movement and the number of fingers used, as documented in Rouffignac Cave, they open a new avenue for investigations of this particular type of sign.

I put this book down with mixed feelings. Reading through the collection of papers, I did not have the sense of a well integrated volume, primarily for two reasons: first, the quality of the papers varies (which is alluded to also by the editor; cf. p. x). Second, the alphabetical organisation of chapters enhances the sense of thematic incongruity. While it is not uncommon for Festschrifts to compile heterogeneous themes, it is also common to present the personal recollections of an honoured scientist (in this volume Marshack, Lamberg-Karlovsky) and a complete bibliography of the person whom the book is honouring.

Unfortunately, Marshack’s bibliography is missing from this volume. Nevertheless, several well-balanced, theoretically firmly grounded pieces made my reading enjoyable. In spite of the vast range of themes covered, I believe this is a book which will be read primarily by people working in the field of Paleolithic art.

Agni Prijatelj – Durham University

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El collar del Neanderthal. En busca de los primeros pensadores – FERRERAS (PR)

FERRERAS, J. L. Arsuaga. El collar del Neanderthal. En busca de los primeros pensadores. Madrid: Col Tanto por Saber, Editorial Temas de Hoy, 1999. 311p. Resenha de:  Panta Rei – Revista de Ciencia Y Didáctica de la Historia, Murcia, n.4, p. 1998.

La lectura que Juan Luis Arsuaga, codirector del Proyecto Atapuerca y Paleoantropólogo reconocido, nos propone no es sólo una exposición de teorías científicas difíciles de entender paraun lector no habituado a ellas, sino que mediante un lenguaje llano, abierto y muy expresivo, junto aejemplos y paralelismos e, incluso, alguna anécdota, acerca al lector un poco más al conocimientode quiénes habitaron estas tierras en los orígenes de la Historia.

El autor nos lleva de la mano, por la Prehistoria en general, a través de un camino que haplanificado recorrer en tres etapas, es decir, en tres partes: “Sombras del Pasado” (sobre el origen dela especie humana); “La vida en la Edad del Hielo” (acerca de los modos de vida del hombre); y”Los contadores de historias” (el neanderthal frente al hombre moderno).

Cada una de ellas, a su vez, está estructurada en otros tres capítulos que pretenden darnos a conocerdistintos aspectos de la Prehistoria. Y para facilitar aún más ese conocimiento, los nueve capítulosestán subdivididos en diversos apartados que actúan como ventanas que van iluminando el senderopor el que caminamos.

Además en esta estructura se incluyen un Prólogo y un Epílogo, aparte de bibliografía sobre cada capítulo y otros apartados. Si nos detenemos un momento en cada capítulo observaremos qué podemos encontrar en ellos. El capítulo uno nos acerca a la propia evolución de la especie humana.

El autor muestra las relaciones existentes entre los hominoideos y los homínidos, y su evolución através de los estudios genéticos y de los restos fósiles encontrados hasta el momento.

El capítulo dos está dedicado al primer ser que se considera humano, el Homo Habilis, y alpoblamiento de Asia por un muy posible pariente suyo, el Homo Erectus. En el capítulo tres sehabla de una rama de los homínidos propiamente europea, los neanderthales. Se explican susprincipales características y se establecen comparaciones con el hombre moderno.

El siguiente capítulo trata la flora y, por extensión, la climatología que conocieron nuestrosantepasados, desde un punto de vista universal para llegar de forma gradual a otro únicamentepeninsular. El capítulo cinco está dedicado a la fauna, siguiendo el mismo esquema del capítuloanterior, desde lo general hasta lo particular. En el capítulo seis nos habla el autor de los medios desubsistencia de los grupos humanos en el momento en que los animales y plantas, de los quedurante generaciones se habían alimentado, comienzan a desaparecer. En el capítulo siete tratamosde descubrir cuál es la vida media de un hombre prehistórico para, de este modo, acercarnos alconocimiento de “qué pasó en la Sima de los Huesos” y por qué se acumularon los cadáveres de almenos treinta y dos individuos de distintas edades en el mismo lugar. El capítulo ocho trata dedilucidar qué surgió primero, si el lenguaje o el pensamiento, sobre todo para determinar en quémomento los homínidos comenzaron a ser realmente humanos. En el noveno se nos habla ya delhombre moderno y de sus cualidades, así como de sus diferencias con el neanderthal, cómo secomportaban y qué posible relación existía entre ambos.

Por último, en el Epílogo se hace un repaso rápido de lo expuesto en todos los capítulos y se hablade la Prehistoria en la Península Ibérica.

Hasta aquí hemos echado un vistazo a las etapas del camino de la Prehistoria que Arsuaga nospropone. Nos quedaría mencionar cómo y con qué debemos equiparnos en este viaje. Para ello elautor nos cita constantemente, a lo largo de todo el libro, mucha bibliografía y autores que hantratado, y tratan, cada uno de los temas que se exponen. El problema de estas citas es que la mayoríade las veces sólo aparecen los nombres del autor y de la obra, sin que se incluyan notas a pie depágina.

Además encontramos cuadros y dibujos que son bastante útiles para no perderse dentro delcontenido de cada capítulo. Y, por supuesto, multitud de referencias a los hallazgos de la Sierra de Atapuerca.

De este modo, al final de nuestro camino observamos que en el interior de este libro pueden hallarseplanteamientos y cuestiones muy interesantes y novedosas sobre la forma de ver la Prehistoria, quevan desde la simple excavación e interpretación de restos arqueológicos hasta los estudiosantropológicos y etnológicos acerca de tribus actuales como los Hadza, y la aplicación de métodosde investigación prestados por otras ciencias como la Geología, la Biología, la Genética, etc., a la investigación prehistórica.

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