Migrazioni, colonie agricole e città di fondazione in Sardegna | Sandro Ruju

Il volume curato da Sandro Ruju1, edito all’interno della collana “Sardegna contemporanea” diretta dall’Istituto sardo per la storia dell’antifascismo e della società contemporanea, ospita quindici contributi di studiose e studiosi che affrontano temi ancora poco indagati dalla storiografia: l’immigrazione in Sardegna, le migrazioni interne, il ruolo dello Stato, l’integrazione tra chi arriva e le popolazioni locali. I quindici saggi si prestano a più chiavi analitiche e interpretative, delle quali prenderemo in considerazione alcune che ci appaiono maggiormente rilevanti.

In primo luogo, i contributi possono essere letti in una dimensione “macro”, inquadrandoli in una scala di osservazione non solo nazionale, bensì mediterranea2. Questo punto di vista abbraccia un segmento evenemenziale, che attraversa la tarda età moderna fino agli ultimi anni del Novecento, all’interno del quale sono ricostruiti gli effetti sull’Isola delle migrazioni di maltesi, greci, liguri, corsi, dell’esodo istriano-dalmata, del rientro in Italia degli emigrati in Tunisia nel periodo della decolonizzazione. La Sardegna è dunque inserita all’interno di una rete di connessioni che si estende a tutti i territori delle sponde del Mediterraneo, inteso non solo fisicamente ma come appartenenza culturale e storica3. Gli effetti sono contrastanti, talvolta conflittuali, altre volte con maggiore fortuna sociale ed economica. Leia Mais

Museums in a time of migration: rethinking museums’ roles/representations/collections/ and collaborations | Christina Johansson e Pieter Bevelander

Pieter Museums
Pieter Bevelander | Foto: Academia Europaea

Museus em tempo de migracao MuseumsMuseums in a time of migration: repenser les rôles, les représentations, les collections et les collaborations du musée est le résultat d’une conférence qui cherchait à mettre en avant les bases pour le projet1 de création d’un musée consacré à la démocratie et à l’histoire de l’immigration (JOHANSSON & BEVELANDER 2017). Il s’agit donc d’un volume édité d’articles de cette conférence.

L’objectif de ce livre est de mettre en lumière la manière dont les musées traitent la thématique de l’immigration et quel est leur rôle et leur approche à cet égard. Le livre est divisé en quatre parties:

I – Le rôle des musées à une époque de migrations et de changement sociétal

II – Représentation de l’immigration et de l’ethnicité

III – Repenser les collections et la documentation muséale

IV – Collaboration et inclusion dans le secteur muséal Leia Mais

Entre márgenes/intersticios e intersecciones: diálogos posibles y desafíos pendientes entre género y migraciones | María José Magliano

La multiplicidad de aristas teóricas, trayectorias colectivas e individuales, apuestas metodológicas y desafíos epistemológicos que confluyen en este libro,se vuelven espacios intersticiales desde los cuales repensar la incorporación de la perspectiva de género al campo de los estudios migratorios en Argentina. Leia Mais

Postmigrantische Perspektiven. Ordnungssysteme, Repräsentation, Kritik – FAROUTAN et al (ZG)

FOROUTAN, Naika; KARAKAYALI, Juliane; SPIELHAUS, Riem (eds.). Postmigrantische Perspektiven. Ordnungssysteme, Repräsentation, Kritik. Frankfurt : Campus Verlag, 2018. Resenha de: VÖLKEL, Jana. Zeitschrift für Geschichtsdidaktik, Berlin, v.18, p. 207-209, 2019.

Acesso somente pelo link original

[IF]

Exit West – HAMID (BC)

HAMID, Mohsin. Exit West. Torino: Einaudi, 2017. 156p. Resenha de: GUANCI, Enzo. Il Bollettino di Clio, n.8, p.75-76, dic., 2017.

Una storia d’amore.

“In una città traboccante di rifugiati ma ancora perlopiù in pace, o almeno non del tutto in guerra, un giovane uomo incontrò una giovane donna in un’aula scolastica e non le parlò. Per molti giorni. Lui si chiamava Saeed e lei si chiamava Nadia…”

È l’incipit dell’ultimo romanzo di Mohsin Hamid, lo scrittore pakistano che dopo aver studiato e lavorato molti anni negli USA è tornato a Lahore, dove attualmente vive, muovendosi spesso, tuttavia, tra Londra e New York.

La pubblicazione nel 2007 del suo Il fondamentalista riluttante ci penetrò nelle riflessioni pensierose di un intellettuale di formazione islamica ma in qualche modo integrato nella cultura americana, dopo che l’attentato dell’11 settembre aveva cambiato per sempre il rapporto tra l’Occidente e il Medio Oriente islamico.

Dieci anni dopo questo Exit West vuole introdurci nell’universo della migrazione, di coloro che cercano l’uscita a Ovest.

Come?  Raccontando una storia d’amore o, per meglio dire, una normale storia di coppia. La storia di due giovani dei nostri giorni che si conoscono, si amano, si separano, hanno nuovi compagni e nuove compagne. La loro particolarità, però, è quella di essere migranti.

Il racconto di Hamid salta completamente il viaggio. Non gli interessa farci conoscere i viaggi, le traversie, le angherie dei trafficanti, l’alto rischio del trasporto. Possiamo solo immaginarli: alcuni personaggi loschi non meglio descritti aprono ai nostri Saeed e Nadia alcune “porte” dove si può “passare”.

La prima metà del romanzo ci racconta la trasformazione della loro città, dove i giovani studiano, lavorano, si innamorano, ballano, fumano, ascoltano musica, si confrontano con i loro genitori; piano piano tutto questo diventa prima difficile, poi pericoloso, infine impossibile. La città è in guerra. La guerra è arrivata in città.

“Adesso nella città il rapporto con le finestre era cambiato. La finestra era il confine attraverso il quale era più probabile giungesse la morte. Le finestre non costituivano una protezione neanche dai proiettili più fiacchi: qualunque locale con una vista sull’esterno poteva essere preso in mezzo dal fuoco incrociato. Inoltre i vetri di una finestra frantumata da un’esplosione potevano trasformarsi in schegge di granata, e tutti avevano sentito di qualcuno dissanguato dai frammenti di vetro.” (p.46)

Bisogna andarsene. E sarà duro, molto duro, abbandonare la propria casa, i propri affetti. Il padre di Saeed, che aveva accolto Nadia come una figlia, decide di restare. Lui non ce la fa, ma forza i due ragazzi ad andar via, a “passare la porta”

“In quei giorni si diceva che il passaggio era un po’ come una morte e un po’ come una nascita, e in effetti Nadia provò una sensazione di annientamento mentre entrava nell’oscurità e lottò furiosamente per respirare mentre cercava di uscirne, ed era infreddolita, contusa e bagnata quando si ritrovò distesa sul pavimento della stanza dall’altra parte, tremava e sulle prime era così spossata che non riusciva ad alzarsi, e pensò, mentre boccheggiava per riempirsi i polmoni d’aria, che quella sensazione di bagnato doveva essere il suo sudore.” (p. 67)

Saeed e Nadia nascono di nuovo. E crescono tra campi profughi e “porte” e “passaggi” che conducono ad altri campi, altri luoghi, altra gente, in cui “tutti erano stranieri, e quindi in un certo senso nessuno lo era”.

La grandezza di Mohsin Hamid sta qui. Nella seconda metà del romanzo riesce a darci conto dell’odissea di persone normali costrette a fuggire, a “migrare”, da un campo profughi ad un altro. Ci racconta con brevi ma efficacissimi tratti la vita del campo che “ricordava per certi versi una stazione commerciale dei vecchi tempi della corsa all’oro, e vi si vendevano o si scambiavano molte cose, dalle maglie pesanti ai telefoni agli antibiotici a sesso e droghe sottobanco…”. Non solo. In altre occasioni Hamid ci ricorda che “c’erano volontari che distribuivano cibo e medicine, ed enti assistenziali all’opera”. Insomma, quella di Saeed e di Nadia somiglia molto a un’Odissea senza un’Itaca, un posto dove fermarsi per vivere la propria vita. Ma quella di Saeed e Nadia somiglia maledettamente anche all’odissea di ciascuno di noi, perché nell’era della globalizzazione “si stavano aprendo tutte quelle porte da chissà dove, e arrivava ogni sorta di strana gente…”.

Insomma il romanzo dei migranti è, in fondo, al netto di tutte le sofferenze e i patimenti dei trasferimenti sui barconi e sui sentieri di montagna, il romanzo della vita giacché “…tutti emigriamo anche se restiamo nella stessa casa per tutta la vita, perché non possiamo evitarlo.

Siamo tutti migranti attraverso il tempo.

Enzo Guanci

Acessar publicação original

[IF]

Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così – CALZOLAIO; PIEVANI (BC)

CALZOLAIO, V. ; PIEVANI, T. Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così. Torino: Einaudi, 2016. 144p. Resenha de: PERILLO, Ernesto. Il Bollettino di Clio, n.8, p.77-79, dic., 2017.

Le migrazioni sono processi complessi. La storia e la geografia (assieme ad altre discipline, come ad esempio l’antropologia e la biologia) possono aiutarci a comprenderli, perché tempo e spazio sono parametri utili per mettere in prospettiva un problema, soprattutto se complicato e difficile come questo.

Per capire il presente e i suoi eventi abbiamo bisogno di distanza, di prenderne le distanze. Così come per capire il luogo nel quale ci è capitato di vivere, ce ne dobbiamo allontanare. Da fuori si vedono altre cose e aspetti che prima rimanevano invisibili.

Il saggio di V. Calzolaio e T. Pievani parla di migrazioni nella prospettiva spazio-temporale del tempo profondo dell’evoluzione e della storia di Homo sapiens, su scala planetaria.

Inserire la vicenda umana nel contesto dell’evoluzione ci aiuta a comprendere come il fenomeno migratorio riguardi prima di tutto animali e piante che nel lunghissimo periodo seguono i destini dei territori in cui abitano (che si separano e si uniscono a causa della deriva dei continenti e dei cambiamenti climatici) e abbia un ruolo decisivo nel processo evolutivo, dando origine spesso a nuove specie.

Quella umana è stata condizionata da sempre dal migrare di altre specie e le ha condizionate con i suoi spostamenti che hanno assunto nel tempo una straordinaria funzione evolutiva, non solo per chi si spostava ma anche per gli ecosistemi coinvolti.

I capitoli iniziali del saggio di Calzolaio e Pievani ripercorrono le tappe delle migrazioni umane dagli albori della storia degli ominidi intorno a 6 milioni di anni fa in Africa, che resta il territorio di massima espansione della specie fino a 2 milioni di anni fa, fornendo le premesse per un possibile atlante globale delle migrazioni umane.

Il bipedismo è stato l’innovazione decisiva, con la conseguente liberazione delle mani. Dal cespuglio di forme ominide, una molteplicità di specie distribuite tra l’Etiopia e il Sudafrica, è emerso il genere Homo intorno a 2,5 milioni di anni fa, all’inizio del Pleistocene in concomitanza di continue oscillazioni glaciali. In questo periodo, per la prima volta nella storia, ha luogo un processo di espansione che porterà il genere Homo a oltrepassare i confini dell’Africa, in un arco temporale che abbraccia decine e centinaia di migliaia di anni. “(…) Immaginiamo che un piccolo campo base umano venga spostato lungo certi corridoi geografici di 2 o 3 chilometri per ogni generazione, ogni 25 anni (…) in 100.000 anni dall’Africa si può raggiungere la Cina. Non è necessaria alcuna intenzione di farlo. Se il clima cambia, le fasce di vegetazione lentamente si spostano, e con esse le faune: tutte le vicende di rilievo del nostro genere si svolgono nell’instabilità delle oscillazioni climatiche del Pleistocene”. (pp. 17-18).

In tre ondate migratorie successive (Out of Africa), sostanzialmente attraverso gli stessi corridoi geografici (valle del Nilo e costa del Mar Rosso verso il Mediterraneo; corridoi del Levante e da qui smistamento verso l’Asia e l’Europa), si perfeziona la conquista africana del mondo: e intorno a 50-45000 anni Homo sapiens entra per la prima volta in Europa. Al suo arrivo l’Eurasia era già abitata da altre specie umane. “Quello che oggi ci sembra fuori discussione, cioè essere l’unica specie umana sulla Terra” affermano gli autori “ in realtà è un evento recente frutto di numerose e sovrapposte migrazioni” (p. 27).

In meno di 50 mila anni Homo sapiens arriverà a completare il popolamento dei continenti, imponendosi sulle altre specie umane (almeno tre). Secondo gli autori questo successo è dovuto alla migliore capacità migratoria dei nostri antenati. Alla base, un circolo virtuoso tra comportamenti sociali e culturali più avanzati (in particolare per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio e dell’intelligenza simbolica), la capacità migratoria e l’espansione territoriale.

Il viaggio ormai non è solo costrizione ma intenzione e scelta connessa alla capacità di trasformare le nicchie ecologiche.

Mentre alcuni popoli restarono raccoglitori cacciatori, altri si avviarono verso la domesticazione di piante e animali in un processo di differenziazione dovuto al “variopinto mosaico di fattori ecologici e geografici” (clima, geologia, habitat, epidemie…).

Il cambiamento radicale si ha con la rivoluzione agricola: fino allora (intorno ai 10 mila anni prima di Cristo) gli umani erano quasi tutti raccoglitori cacciatori senza fissa dimora (si è stimata una popolazione mondiale intorno ai 10 milioni); il loro numero progressivamente andrà diminuendo fino allo 0,001 per cento su una popolazione totale di tre miliardi negli anni Settanta del XX secolo.

Inizia una nuova fase: il tempo delle emigrazioni e delle immigrazioni da e verso territori di altri popoli, che dura fino ad oggi.

Si possono individuare 8 ondate migratorie collettive di neocontadini, secondo un processo non lineare (ci furono anche contrazioni demografiche) e con differenze in parte spiegabili con i vincoli ambientali. Le strategie adattive di Homo sapiens migrante globale sono alla base della diversità umana, biologica e culturale, accelerata da spostamenti e rimescolamenti: le culture e le tecnologie sono state gli strumenti delle comunità umane in movimento per vivere in climi e ambienti i più diversi e instabili.

Attorno alle risorse idriche si vanno formando le prime civiltà con la specializzazione e complessità legata alla successiva rivoluzione urbana e della scrittura. Migrare non è ora solo comportamento adattivo legato a criticità climatiche o ecologiche; è in qualche modo un comportamento culturale: accanto alle costrizioni del migrare (ora anche quelle in conseguenza delle guerre umane e dell’aggressione violenta di un gruppo su un altro) si va affermando la libertà di migrare.

Sia forzati che non, gli spostamenti con il neolitico incisero profondamente sulle dinamiche culturali, sociali, linguistiche e genetiche delle popolazioni. Si complicarono e intensificarono i meticciati (basti penare alle tracce di incontri tra migranti presenti in ogni lingua): “Non ci sono un tempo e un luogo ove osservare una comunità di umani in una forma autentica e originaria.” (p. 67).

Ci sono confini naturali (nicchie e corridoi di specie, barriere geografiche, linee di costa, crinali montani…) e confini artificiali, antropici: con la diffusione dell’agricoltura stanziale si vanno consolidando i confini artificiali. E nel progressivo affermarsi della centralizzazione dei poteri decisionali, del controllo della forza e dell’imposizione di gerarchie e dominio si stabilizzano i confini istituzionali che le migrazioni in qualche modo mettono in discussione, contribuendo a configurare l’evoluzione della specie sul pianeta e a determinare processi di differenziazione e trasformazione delle biodiversità e dinamiche che durano ancora oggi.

“Prima dell’età antica, la specie umana non è tutta nomade e seminomade, come si legge da troppe parti. Esiste un antichissimo e complesso fenomeno migratorio, precedente il tradizionale inizio della storia. Poi, dopo la diffusa rivoluzione neolitica, si stagliano probabilmente due lunghi periodi storicamente e geograficamente determinati delle migrazioni umane sulla Terra: il periodo antico della diffusione dell’agricoltura, primo e quasi unico settore produttivo, anche durante i fenomeni medievali (e forse non proprio solo europei latino-germanici) del feudalesimo e dell’assolutismo; il periodo moderno dell’espansione di Stati europei e di confini statuali, subito collegato al periodo contemporaneo delle rivoluzioni industriali, fino alla globalizzazione e ai cambiamenti climatici antropici globali.” (p. 71).

Si rende dunque indispensabile, secondo gli autori, la ricostruzione dell’“impasto migratorio fra mondi separati delle antichissime e antiche comunità” per capire anche gli sviluppi successivi della vicenda umana.

Gli ultimi capitoli del volume sono dedicati alla storia moderna e contemporanea delle migrazioni a cominciare dai due Out of Europa: il primo con la conquista del mondo da parte degli Stati europei a partire dall’inizio del XVI secolo; il secondo dopo la rivoluzione industriale alla fine del XVIII secolo con l’inizio dell’Antropocene.

Alla base delle migrazioni internazionali del primo Out of Europa, tra gli altri fattori, l’affermazione dello Stato moderno e poi di quello nazionale, delle nuove armi e delle nuove navi. Del secondo, l’espansione del capitalismo, l’imperialismo degli Stati europei che nel 1914 controllavano l’81,4 per cento della superficie mondiale, le dinamiche demografiche ed economiche delle madrepatrie: nei primi decenni del Novecento La somma dei migranti era pari a circa il 5 per cento della popolazione mondiale. Emigrazione e immigrazione si formalizzano con gli Stati nazionali: si vanno definendo in questo periodo la condizione di profugo e di rifugiato e si cominciano ad adottare politiche migratorie statali, soprattutto per il controllo degli arrivi e il contingentamento dei flussi.

Venendo all’oggi, gli autori mettono in rielevo il nesso tra clima e migrazioni, documentato anche dai numerosi rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC Intergovernmental Panel on Climate Change http://www.ipcc.ch/index.htm); nesso peraltro già presente nelle migrazioni di massa della specie all’inizio della sua storia. Con una novità decisiva: adesso l’ecosistema globale è messo in discussione dall’azione di Homo sapiens. I profughi ambientali (migranti forzati dall’impatto umano sugli ecosistemi, da disastri e delocalizzazioni) sarebbero nel 1994 circa 25 milioni, cui dobbiamo aggiungere quelli a seguito di guerre, violazione dei diritti, povertà, disuguaglianze multiple: i migranti forzati costretti a fuggire dalle loro case sono stati 59,5 milioni alla fine del 20I4, con una tendenza al rialzo che sembra consolidarsi.

Di fronte a questo quadro, che fare?  Gli autori propongono tre percorsi per non subire ma gestire i futuri flussi migratori:  – riconoscere i rifugiati climatici;  – contrastare le migrazioni forzate;  – gestire le migrazioni sostenibili.

Sono migranti contemporanei a noi oltre un miliardo dei sette e mezzo miliardi di donne e uomini che vivono nel pianeta. Accanto alla libertà di migrare (già prevista nella Dichiarazione universale dei diritti umani: art. 13 e 29), va garantito il diritto di poter retare con dignità nel territorio dove si è nati.

Un impegno decisivo per la sopravvivenza, la convivenza, lo sviluppo di Homo sapiens e dell’intero ecosistema: “La virtù necessaria per questa impresa è anche una delle più scarse al momento: la lungimiranza. Verso il passato e verso il futuro”.

Ernesto Perillo

Acessar publicação original

[IF]

Provas de Liberdade: uma odisseia atlântica na era da emancipação – SCOTT; HÉBRARD (RETHH)

SCOTT, Rebecca J. & HÉBRARD, Jean M. Provas de Liberdade: uma odisseia atlântica na era da emancipação. Tradução: Vera Joscelyne. Campinas, SP: Editora da Unicamp, 2014. Resenha de: GESSER, Ana Carolina. Provas de liberdade: uma odisseia atlântica na era da emancipação. Revista Expedições: Teoria da História e Historiografia, n. 2 – AGOSTO-DEZEMBRO de 2016.

A obra Provas de Liberdade: uma odisséia atlântica na era da emancipação, publicado em 2014 pela editora Unicamp, é o livro mais recente de Rebecca J. Scott, na qual divide a coautoria com Jean M. Hébrard. Através de 295 páginas, este livro compõe-se de um mapa de rotas atlânticas, uma genealogia esquemática da família Vincent/Tinchant, prólogo, nove capítulos, epílogo e um caderno de imagens.

Rebecca Scott é professora de História de Direito na Universidade de Michigan, na qual leciona o curso de direitos civis e fronteiras da cidadania sob uma perspectiva histórica. Suas discussões pautam-se em discutir a legislação diante da escravidão e da liberdade. Jean M. Hébrard é professor visitante na Universidade de Michigan, cujas aulas e seminários estão relacionadas a história social e cultural das sociedades escravistas e pós escravistas do mundo atlântico.

Os autores iniciam o prólogo de Provas de Liberdade, citando uma carta enviada por Edouard Tinchant, um comerciante de charutos de Antuérpia, no ano de 1899, ao general Gómez.

No conteúdo da carta, Edouard pedia ao general que o autorizasse a utilizar o nome de Gomez para a marca de seus artigos. A citação da carta foi proposital, pois esta fonte permitiu que os autores pudessem chamar a atenção para aspectos reveladores da política e da identidade de Tinchant: a alusão das origens haitianas de Edouard para convencer o general, ao estabelecimento de seus pais na Louisiana e a justificativa dos motivos pelos quais seus pais decidiram se mudar para a França, e a insinuação acerca de “leis abomináveis” e “preconceito ignorante” como motivadores dessa migração.

É inegável o especial interesse dos pesquisadores por esta carta, pois, ela retratava um mundo atlântico em que várias lutas sobre raça e direitos estavam entrelaçadas, e no quais idéias e conceitos eram intercambiados (SCOTT, HÉBRARD, 2014). Tantas ligações os levaram a questionar sobre a própria abrangência dela. O que poderia este documento apresentar em termos de uma coesão, como a personificação de uma conexão entre as três maiores lutas antirracistas do século XIX: a Revolução Haitiana, a Guerra Civil, a Reconstrução dos Estados Unidos e a Guerra Cubana pela independência? Para responder essa questão ambiciosa, os autores seguiram os rastros do itinerário da família de Edouard Tinchant, através de registros mantidos por padres tabeliães, oficiais e recenseadores oficiais de diversos lugares. A prática investigativa levou então, os pesquisadores a todos os lugares pela qual essa família passou: começou na Senegâmbia (Senegal), foi para Saint Domingue (Haiti) no final do século XVIII, continuou até Santiago de Cuba (Cuba), Nova Orleans (Estados Unidos), Porto Príncipe (Haiti), Pau (França), Paris (França), Antuérpia (Bélgica), Veracruz (México) e Mobile (Alabama, Estados Unidos).

A odisséia dessa família despertou um interesse especial nos autores. No cerne de sua pesquisa esteve a preocupação em perceber como a exigência por dignidade e respeito esteve atrelada a importância da produção de documentos e dos movimentos políticos gerados tanto pelas grandes revoluções da época quanto por embates locais de reivindicação de direitos. Ao optar pelo encalce da trajetória dos membros dessa família, Scott e Hébrard especificam sua orientação metodológica, caracterizando seu estudo como o de micro-história posta em movimento. Esse tipo de estudo, segundo os mesmos, se apoia na convicção de que os estudos de um local ou evento cuidadosamente escolhido, examinado bem de perto, pode revelar dinâmicas não visíveis através das lentes mais familiares de região e nação.

O essencial de suas análises é, portanto, a percepção de como as experiências pessoais nos diversos espaços do chamado mundo Atlântico do século XIX, esses movimentos contínuos de pessoas e de papéis através do Caribe e da travessia do oceano permitem interconectar eventos que desvelam problemas como o da liberdade, dos fenômenos de raça e antirracismo com movimentos políticos e revolucionários.

A busca pela trajetória de homens livres de cor revela o lugar social da qual provém esses historiadores quando se observa como se apropriam de grandes elementos basilares da historiografia a partir da segunda metade do século XX: a História Cultural e a Nova Esquerda Inglesa, a micro-história e a História Atlântica. Embora hoje a ênfase na história de homens livres de cor não constitua nenhuma novidade, movimentos historiográficos como a Nova Esquerda Inglesa foram essenciais para a emergência estudos que explorassem as experiências históricas de homens e mulheres que até então tiveram a existência ignorada ou abordada de forma passiva, e ao trazer novos sujeitos para a história – a chamada história vista de baixo -, trouxe também o problema das fontes (BURKE, 1992, p. 40).

O acesso à documentação de pessoas “comuns”, portanto, também trouxe consigo problemas de método, uma vez que o acesso ao testemunho direto a essas pessoas era muito escasso. Entretanto, a vasta documentação, dentre registros de batismo, carta de alforria, correspondências, certidões, de que se munem Scott e Hérbrard, permitem – através da metodologia da micro-história – que a prática de redução de escala de observação, análise microscópica e um estudo intensivo do material documental revele indícios de sujeitos até então marginalizados.

Por meio do prólogo, também podemos observar que o lugar social de qual falam Scott e Hérbrard está profundamente ligado a um movimento de historiadores que vem desde pelo menos a segunda metade do século XX, colocando uma perspectiva atlântica em suas análises. Não por acaso, o contexto da Guerra Fria, a emergência do terceiro Mundo e a procura por um legado cultural na América do Norte levou este grupo de pesquisadores da história colonial, imperial e da escravidão, a questionarem e romperem com as fronteiras regionais, nacionais e imperiais, uma vez que estas, ao delimitarem os horizontes de pesquisa e abordarem uma perspectiva eurocêntrica, colocavam a histórias como da África e da América Latina à margem. Dessa forma, a pretensão por uma história que estabeleça conexões, comparações, observando recorrências coerências em marcos globais e interimperiais estruturados tem ganhado atenção dos historiadores, que ao focar em questões de gênero, sexualidade, raça e etnicidade têm encontrado no Atlântico um terreno fértil. O reconhecimento da História Atlântica enquanto disciplina iniciou-se com o movimento de historiadores norte-americanos dispostos a abraçar os projetos Atlânticos, e a Universidade de Michigan, onde Scott leciona, é uma das instituições onde os estudantes podem especializar-se nesse tipo de História145.

No primeiro capítulo, Rosalie, mulher negra de nação Poulard, a carta remetida por Edouard ao capitão Máximo Gómez ganha atenção para análise dos autores. Ao reportar sua própria ascendência aos haitianos, intitulando a si mesmo como um “filho da África”, Eduard conectou sua história com a dos seus pais, que tinham sofrido com embate da Revolução Americana, Francesa e Haitiana, carregando consigo o estatuto de escravos. A partir disso, chegou-se à documentação de batismo e de cartas da mãe de Edouard, e também à origem de Rosalie, sua avó, identificada como de nação Poulard.

Neste capítulo, são abordados vários aspectos da provável vida de Rosalie: o significado político de pertencer à nação Poulard, seus costumes e políticas peculiares, as condições das viagens e dos navios em que eram trazidos os cativos da costa do Senegal para Saint-Domingue (Haiti).

Embora os autores não tenham informações precisas sobre a viagem de Rosalie, o resgate de peculiaridades do seu provável itinerário atlântico forneceu-os certos elementos característicos acerca dos conhecimentos que pessoas de nação Poulard trouxeram consigo e foram difundidos durante o tempo em que permaneceram sob o cativeiro no Caribe. Uma destas características era a familiaridade com a importância da escrita: sabendo ou não ler, pessoas como Rosalie tinham a consciência que o papel poderia mudar sua condição.

O segundo capítulo, Rosalie…minha escrava, relata o processo de escravização de Rosalie em Saint-Domingue (Haiti) e os fatores – como as revoltas, repressões e a Revolução Haitiana – que levaram-na a deixar a ilha e se mudar para Jérémie (Haiti). Ao situar a paulatina importância econômica que assumiu Jérémie (Haiti) depois que Rosalie se mudou, os autores reconstituem a história de pessoas de sua rede de relações. Dentre elas, Marthe Guillaume, a negra livre que constituiu fortuna com o comércio de compra e venda de escravos. Mostram como prosperou Marthe, a importância da sua rede de conexões e apadrinhamento e de onde provinha sua renda: do trabalho de escravos, na qual Rosalie era uma. Também expõem fatores que levaram a região a atrair outras pessoas, como Michel Vincent, cujas aventuras anteriores de colono não deram certo.

O capitulo continua tecendo relações entre o contexto em que vivia Rosalie com as condições da Revolução Francesa, conectando as pressões que homens livres de cor da colônia exerciam para tentar fazer cumprir as garantias de direitos iguais e a extensão da cidadania às pessoas deste estatuto. Dessa forma, observa como discussões mais amplas, como a questão da cidadania aos homens de cor, concedia no ano de 1792 pela Assembléia Legislativa Francesa, influenciou nos interesses locais, onde os homens brancos conservadores, ao verem seu poder ameaçado, entraram em confronto com poderes coloniais acabando por induzir Guillaume, a senhora de Rosalie, a vender esta última a um vizinho, um açougueiro que era livre e mulato.

Partindo novamente para um contexto macro, os autores abordam as tensões que envolviam homens livres de cor e brancos, as repressões sofridas pelos primeiros e as implicações negativas para os escravos com as alianças estabelecidas entre os brancos do poder local com a Grã- Bretanha. Da mesma forma, salientam as alianças estabelecidas entre homens livres e escravos, e as expectativas destes em face da possibilidade de alforria. Neste meio tempo, Rosalie havia voltado ao poder de sua antiga senhora. Com este acontecimento, os pesquisadores postulam sobre a relação entre Rosalie e Michel Vincent, que em 1795 tinham dois filhos registrados, embora não possuíssem um registro de união. Marthe Guillaume, nesse mesmo ano, expressou o desejo de conceder liberdade a Rosalie, mas as circunstâncias políticas estavam dificultando a concessão de qualquer alforria. Nesse tempo, sugerem os autores, é possível que Rosalie vivesse como uma pessoa livre, e com relativa comodidade com Michel Vincent, considerando que Guillaume não se propôs a fazer qualquer reivindicação legal sobre ela.

A questão que se coloca é que, embora Rosalie provavelmente vivesse como uma mulher livre, o seu estatuto era de uma pessoa “sem documentos”, pois não possuía qualquer titulo que estabelecesse a legitimidade de seu estatuto civil. O capítulo passa a versar então sobre como o status de Rosalie, agora grávida do terceiro filho, dificultaria a situação do casal que, diante da invasão das tropas de Napoleão e a possibilidade de reescravização em Jérémie (Haiti), viu na viagem para a França uma alternativa. O capítulo termina abordando as estratégias utilizadas por aqueles que estavam na mesma situação de Rosalie e sobre como os conhecimentos de tabelionato de Michel Vincent levaram-no a forjar uma carta de alforria aos moldes do Antigo Regime, uma forma mais segura que poderia definir o destino da agora, “liberta”.

O terceiro capítulo, intitulado A cidadã Rosalie inicia caracterizando as diferenças político-jurídicas entre Haiti e Cuba, um baluarte da escravidão e de colonização espanhola. Versa sobre quais estratégias as pessoas livres de cor refugiadas do Haiti utilizaram para não voltarem a serem reescravizadas em Cuba e sobre como, a partir da morte de Michel Vincent, Rosalie, que já havia homologado o testamento deste, tornou-se sua herdeira e conseguiu com que as autoridades de Santiago assinassem o documento de alforria forjado ainda em Jérémie. Porém, novamente os planos de Rosalie são mudados pela conjuntura política das relações conturbadas entre a França napoleônica e Espanha, e diante dessas circunstâncias, os autores expõem as peculiaridades que faziam da Lousiana o território vizinho mais atraente em uma época difícil para a população francesa que vivia em território espanhol. Por fim, o capitulo termina discorrendo sobre as possibilidades e aprendizados de Rosalie, como a importância dos documentos dentro de uma sociedade escravista, as implicações da sujeição à mudança de jurisdição e a relevância do estabelecimento de uma boa rede de conexões, pois, ao enviar sua terceira filha, Élisabeth com sua madrinha para New Orleans, viu a indispensabilidade de estar integrada a uma família diante das condições adversas em que se encontrava.

A travessia no Golfo é o título do quarto capítulo, que desloca o foco narrativo para as experiências de Élisabeth, filha de Rosalie, em Nova Orleans (Estados Unidos). Os autores atentam para os percalços pelos quais passaram os refugiados, como Élisabeth, ao entrar no território da Louisina (Estados Unidos), e sobre como o rótulo de homem livre de cor a eles atribuído gerou problemáticas mais amplas acerca da questão do estatuto, pois, definia direitos, posição social e sobrevivência.

Passando de considerações mais gerais sobre a condição dos refugiados nas novas terras, este capítulo passa a abordar as boas condições nas quais Élisabeth estabeleceu com seus padrinhos, e sua relação com Jacques Tinchant, com quem se casou em 1822. Observa-se então o que os autores chamaram de uma união emblemática de novas famílias americanas, pois Jacques e Élisabeth haviam crescido em casas atravessadas por uma linha de cor: seus pais não puderam contrair união civil por serem casais “inter-raciais”. A mudança do sobrenome de Elisabeth, que agregou o sobrenome do seu pai, Vincent, na certidão de batismo dos seus filhos, foi ressaltada como um fator que a distanciava de sua ascendência escrava, além de suas boas relações com o tabelião facilitarem essa mudança.

A despeito das boas condições materiais que pessoas livres de cor como a família de Jacques Tinchant gozava, eram as restrições impostas pelas leis que geravam um descontentamento na população de cor livre. Dessa forma, a principal questão deste capítulo é a de que a prosperidade econômica, a estabilidade material de pessoas de cor e suas boas relações sociais não eram suficientes para mitigar as limitações impostas a elas, pois não podiam contar com direitos pra si e nem para a educação de seus filhos. Os autores terminam então, discorrendo sobre como Jacques deixou seus negócios aos cuidados de seu meio-irmão e os motivos prováveis da decisão de viajar com sua família para a França, onde sua mãe adoecida o aguardava.

O quinto capítulo, com um título bastante sugestivo, A terra dos direitos dos homens mostra como as motivações pessoais de migração de Jacques estavam atreladas à promulgação do Código Civil Francês e a Carta Constitucional de 1814. Ao estabelecerem a igualdade legal a todos os cidadãos, estendendo a todos o gozo de direitos civis e políticos por homens de cor livres, essa mudança na legislação atraiu a família de Jacques e Elisabeth pela perspectiva de educação e respeito para os meninos e de direitos para eles próprios, assim como a possibilidade de se tornarem proprietários de terras.

O acesso a um bom acesso educacional permitidos pela França, na qual os filhos de Jacques foram inclusos, juntamente com a boa fase dos negócios do mesmo, ocupam as páginas deste capítulo, que relaciona a prosperidade política desta nação com o gozo dos direitos civis experimentados no liceu pelos filhos de Jacques e Élisabeth. O filho mais velho do casal, Joseph, ganha a atenção no final deste capitulo, pois seus interesses particulares pelas aulas sobre direito e filosofia desvelam, além das idéias e conteúdos que faziam parte da educação formal de alunos como ele, o que o legado da Revolução Francesa deixou para a formação das concepções que professores das universidades tinham acerca de raça, cor, direitos civis e políticos e os militantes das causas abolicionistas. Porém, este capítulo também termina mostrando como a volta da situação política conturbada na França, juntamente com as adversidades econômicas enfrentadas por seu pai levaram Joseph a manter a tradição familiar dos Vincent-Tinchant em considerar atravessar o atlântico para, ao lado de seu irmão mais velho Louis, que havia ficado em New Orleans (Estados Unidos) quando seus pais resolveram viajar para a França, trilhar novos rumos.

Diante da viagem de Joseph para New Orleans (Estados Unidos), o capítulo seis, Joseph e seus irmãos, inicia expondo as possibilidades e limitações que ali encontravam homens livres de cor, chamando novamente a atenção para a fronteira entre escravidão e liberdade. Joseph e Louis, diferentemente de seu pai, não possuíam o mesmo conhecimento de produção rural, mas encontraram na produção e comércio de charutos – uma prática comum entre homens livres de cor – uma saída para obter lucros. A herança deixada pela madrinha de Élisabeth, composta em parte pela propriedade de escravos, permitiu a investida neste novo negócio.

Recursos financeiros de Jacques advindos da venda de parte das terras que possuía na Lousiana (Estados Unidos) forneceram o capital para a expansão dos negócios e, depois de Scott e Hébrard ocuparem as páginas deste capítulo para contextualizar o comércio de tabaco entre os vários pontos do Atlântico, concluíram que a Bélgica pareceu ser a melhor opção para as investidas além-mar de Joseph, que passou a morar em Antuérpia (Bélgica) com o resto da família, enquanto Louis cuidava da parte de produção na Louisiana (Estados Unidos).

Porém, novamente mudam-se os planos dos Tinchant, e agora era o contexto propiciado pela guerra da Secessão – culminando com a separação da Lousiana da União em 1861 – que levou os irmãos Tinchant a migrarem novamente para os Estados Unidos diante da má situação dos negócios. Além dos problemas que Joseph teria que lidar nos negócios, seus pais resolveram enviar Édouard, seu irmão mais novo, para New Orleans, após este manchar a reputação da família em Antuérpia (Bélgica).

A narrativa dos autores chega, assim, a Édouard. Buscar entender como a vida anterior em Antuérpia (Bélgica), que permitira que tivesse acesso a níveis educacionais, acabou influenciando as opções políticas abolicionistas de Édouard foi o objetivo deste capítulo. Além da militância pela causa na imprensa, ele acabou envolvendo-se na luta com as tropas da União, mas sua posição em não lutar novamente e a decisão em permanecer na Louisiana (Estados Unidos) quando seus irmãos estavam migrando para o México foi a chave para entender os intempéries daqueles que como Édouard, lutavam pela igualdade de direitos e pelo fim da escravidão: o alto comando da União era cúmplice dos preconceitos de uma sociedade escravista.

O sétimo capítulo, que tem como título É preciso fazer com que o termo direitos públicos signifique alguma coisa, descola o foco de análise para a atuação política de Édouard na Louisiana (Estados Unidos). Para compreender o entendimento do que Édouard tinha acerca do conceito de cidadania, os autores retomam a bagagem intelectual trazida da França, que explica a definição do que ele entendia por direitos públicos, ao mesmo tempo em que observam a cautela que teve ao utilizar o termo igualdade de direitos nos Estados Unidos, dadas as particularidades segregacionistas deste país.

A posição ideológica de Édouard, atrelada ao seu apoio político à União é destrinchada ao longo do capítulo, que mostra principalmente como Édouard ganhou suporte político e participou ativamente da promulgação da Constituição da Louisiana. O reconhecimento à cidadania, independente de cor, foi uma conquista prevista nesta Constituição, que juntamente com outros debates visando direitos à população de cor levaram os pesquisadores a conjecturarem em que medida as limitações sociais impostas aos antepassados destes sujeitos podem ter colaborado para a intenção de debater esses ideais.

Embora nem todas as idéias de Édouard fossem acatadas no texto final, os autores versam sobre os direitos públicos que essa Carta permitiu as pessoas de cor, e sobre seus reflexos na arena legal, como a permissão para que pessoas provenientes de famílias humildes pudessem, por exemplo, entrar na justiça caso fossem barradas em lugares de comércio.

A despeito dessas conquistas, este capítulo mostra como os direitos às pessoas de cor previstos nessa Constituição, ao conflitar com os interesses da Suprema Corte, fizeram com que os artigos referentes a direitos públicos fossem removidos e com que Édouard e seus companheiros perdessem poder e consequentemente, o emprego com o aumento do segregacionismo, principalmente nas escolas. Edouard lecionava, e essa situação forçou-o, juntamente com a família que formou, a migrar. Por fim, o capítulo termina discutindo os motivos para Édouard escolher Mobile (Estados Unidos) como o lugar que teria que reconstruir sua vida.

Horizontes de comércio, o oitavo capítulo, desloca o foco para a história dos outros filhos de Jacques Tinchant e Elisabeth Vincent: Jules, Pierre e Joseph, para mostrar o que teria acontecido com eles após a abertura do comércio de charutos, quando cada um cuidou de uma parte do comércio. Resgatam as intempéries que Jules e Pierre passaram quando trabalham com o comércio no México sob a influência e ocupação francesa para mostrar como as guerras atrapalharam seus negócios e dos motivos da migração de Joseph para o México.

A forma como os quatro irmãos mais velhos da família Tinchant se estabeleceram com a produção e comércio de charutos é mostrada através dos vários percalços e intrigas que os acompanhavam. O grande acúmulo de dívidas foi apontando como a principal causa da migração de Joseph, que em busca de novos mercados, mudou com a família para Havana, onde fez boas relações e novamente a viagem para a Antuérpia (Bélgica), finalmente obtendo sucesso com a criação de uma companhia de charutos com o nome de Tinchant y Gonzales. Os autores observam então, como a conexão entre este nome com a América Latina, juntamente com a cidadania mexicana conseguida anteriormente por Joseph, reforçaram aos seus charutos um ar de qualidade, distanciando-o da identidade da ascendência de escravos que foram trazidos para a América. A invenção desta “tradição”, portanto, criou um status que permitiu o sucesso na produção e venda de charutos.

Passa-se então à analise da sina de Édouard. Estabelecendo a sua companhia de charutos em Mobile (Estados Unidos), dedicou-se aos afazeres de um homem de negócios e as responsabilidades de pai de família, principalmente porque era um mau momento para se envolver com política em Mobile, visto que o Alabama era um estado extremamente racista. Quando estava começando a se estabelecer, ele e sua família desaparecem de Mobile e se mudam repentinamente para Antuérpia (Bélgica). Os autores atribuem essa mudança a motivações por política, negócios e família, uma vez que Édouard fora trabalhar com Louis e chamou a nova política republicana na presidência de “leis abomináveis” e “preconceitos ignorantes”.

Enquanto Édouard nunca fez questão de relacionar seus charutos à Havana ou a Europa, e sempre relacionando o nascimento de seus pais as lugares que lembravam deles, Joseph e seus descendentes faziam referências a origens aristocratas espanholas e francesas que achavam estarem entre seus antepassados e, nessas atitudes, residem as diferenças entre os irmãos: a exclusão da menção de exílio, a luta pelo republicanismo e por igualdade de direitos foram excluídas dessa narrativa sobre a ascendência familiar por parte daqueles que obtiveram sucesso comercial cosmopolita, que não queriam ser associados a preconceitos de cor.

Após o capítulo anterior focar no sucesso econômico dos irmãos Tinchant, o nono e último capítulo, intitulado Cidadãos para o bem da nação, mostra como a questão da cidadania alcançada a nível nacional devido às múltiplas viagens atlânticas de Joseph e seus irmãos interferiram por um lado, na tentativa dos irmãos Joseph e Ernest, no ano de 1892, em buscar a grande naturalisation, que conferia direitos políticos e civis a um cidadão belga e por outro de Édouard de buscar a nacionalidade francesa.

Chama-se atenção aqui para as restrições da lei e o preconceito racial, embates que Rosalie e seus descendentes tiveram que lidar, desenvolvendo táticas engenhosas: ora fugiam de guerras, ora participavam, ora expressavam-se politicamente, ora calavam-se. A reivindicação da cidadania e de nacionalidade nos diversos lugares que estiveram, juntamente com todas as ações mobilizadas ao longo desta narrativa, permitiram perceber a magnitude de forças que foram necessárias para o alcance de seus direitos.

“Por um motivo racial” foi o título escolhido pelos autores para narrar a odisséia de Marie-José Tinchant. O relato da ousadia da neta de Joseph Tinchant na imprensa, nos tribunais e sua participação política na guerra como militante presa permitiram aos autores perceber como as questões raciais interferiram na construção de uma memória política sobre a mesma, pois, quando os descendentes de Marie-José entraram na justiça, alegando serem beneficiários de uma prisioneira política, a justiça belga atribuiu à razão de sua prisão pelos nazistas como sendo um motivo racial.

Quando a filha de Marie-José, em 2010 finalmente conseguiu, por parte das autoridades de Bruxelas, o reconhecimento da prisão de sua mãe como prisioneira política, já havia migrado para o México em busca de suas raízes familiares naquele país.

A partir da observação da escrita dos capítulos, percebemos como os autores de Provas de Liberdade evocam a trajetória de alguns indivíduos do passado através da sequência dos acontecimentos e das interações conscientes destes com um contexto maior, trabalhando sempre com um “jogo de escalas” para explicar como uma conjuntura de guerra, ou de luta política, por exemplo, influiu em suas atitudes. Assim, Scott e Hérbrard, ao tentar compreender as ações destes indivíduos, reproduzem no interior deste discurso desdobrado, a relação entre um lugar do saber e sua exterioridade. É essa distorção que nos permite então, perceber ocultos no texto, sobre o lugar de onde falam seus autores.

Concomitantemente, ao colocar em cena a trajetória destes sujeitos, a construção narrativa dos autores permite que a sociedade se situe em relação a um passado e abre espaço para o presente. Como observou Certeau, a escrita “faz mortos para que os vivos existam. Mais exatamente, ela recebe os mortos, feitos por uma mudança social, a fim de que seja marcado o espaço aberto por este passado e para que, no entanto, permaneça possível articular o que surge com o que desaparece.” (CERTEAU, 1982, p. 107). A família Tinchant e os indivíduos estão mortos e os percalços, intempéries, forças que eles tiveram que lidar morreram com eles, naquela sociedade que é diferente da nossa, como o livro de Scott permite observar. Ao mesmo tempo em os descendentes dos Tinchant se afastavam dos estigmas e estereótipos atribuídos à ascendência africana, não tendo que lidar com as mesmas situações que seus antepassados, constituíam uma memória familiar, e é essa memória que revela permanências e conecta o mundo dos vivos àquele “enterrado” pela escrita da história.

Referências

BURKE, Peter. A escrita da história: novas perspectivas. São Paulo: Editora da UNESP, 1992.

CERTEAU, Michel de. A Escrita da História. Trad. Maria de Lourdes Menezes. Rio de Janeiro: Editora Forense Universitária, 1982.

GAMES, Alison. Atlantic history: definitions, challenges, and opportunities. In: The American Historical Review, vol. 111, nº 3, 2006.

SCOTT, Rebecca J. & HÉBRARD, Jean M. Provas de Liberdade: uma odisséia na era da emancipação. Tradução: Vera Joscelyne. Campinas, SP: Editora da Unicamp, 2014.

Ana Carolina Gesser – Mestranda em História pela Universidade Federal do Paraná – UFPR. Bosista da Coordenação de Aperfeiçoamento de Pessoal de Nível Superior – CAPES. E-mail: [email protected].

Provas de liberdade: uma odisseia atlântica na era da emancipação – SCOTT; HÉBRARD (RBH)

SCOTT, Rebecca J. Hébrard, Jean M. Provas de liberdade: uma odisseia atlântica na era da emancipação. Campinas: Ed. Unicamp, 2014. 296p. Tradução de Vera Joscelyne. Resenha de: MAMIGONIAN, Beatriz Gallotti. Revista Brasileira de História. São Paulo, v.36, no.72, MAI./AGO. 2016.  

Doze milhões de pessoas foram transportadas involuntariamente do continente africano para as Américas entre os séculos XV e XIX para serem vendidas como escravas. Em Provas de liberdade, Rebecca Scott e Jean Hébrard reconstituíram a trajetória de uma delas, Rosalie, de nação Poulard, e seguiram seus descendentes por cinco gerações historiando grandes temas da era contemporânea como a abolição da escravidão de africanos, a cidadania e as lutas contra o racismo.

Rebecca Scott, professora de História da América Latina e de Direito da Universidade de Michigan, nos Estados Unidos, é conhecida do público brasileiro por seu livro Emancipação escrava em Cuba, cuja abordagem da desintegração da escravidão na colônia espanhola deu poder explicativo para a mobilização de escravos e libertos e teve um impacto significativo na historiografia brasileira da escravidão. Jean Hébrard é um dos diretores do Centre de Recherches sur le Brésil Colonial et Contemporain da École des Hautes Études en Sciences Sociales, na França, e professor visitante de História da América Latina e Caribe na Universidade de Michigan. O livro, publicado em inglês em 2012, rendeu aos autores dois prêmios da American Historical Association concedidos a livros sobre a História das Américas e sobre História Atlântica, em 2012, e um da Sociedade Americana de Estudos Franceses e do Instituto Francês de Washington para livros sobre temas comuns à França e às Américas, em 2013. Como Papeles de libertad, foi publicado em Cuba pelas Ediciones Unión e na Colômbia pelo Instituto Colombiano de Antropologia e História (ICANH). A edição brasileira, da Editora da Unicamp, contou com tradução de Vera Joscelyne e revisão técnica por equipe coordenada pelos autores e incluiu ilustrações, um mapa e um índice apenas onomástico – quando a edição original tinha índice remissivo onomástico e temático.

Provas de liberdade, como todo bom livro, tem diferentes camadas de entendimento e apreciação. Historiadores de qualquer área vão reconhecer a extensão da pesquisa e a originalidade da proposta metodológica; os especialistas na área de escravidão vão observar as contribuições historiográficas, e o público não especialista terá uma leitura prazerosa, emocionante e surpreendente.

Como relatam os autores, a pesquisa começou com a descoberta de uma carta no Arquivo Nacional de Cuba enviada da Bélgica por Edouard Tinchant ao general cubano Máximo Gomez no fim do século XIX. Nela, Tinchant declarava simpatia pela causa da independência de Cuba e associava a sua trajetória e a de sua família às lutas por cidadania e contra o racismo. Scott e Hébrard partiram, então, a verificar e reconstituir a história dessas pessoas que “personifica[vam] uma conexão entre três das maiores lutas antirracistas do ‘longo século XIX’: a Revolução Haitiana, a Guerra Civil e a Reconstrução nos Estados Unidos, e a Guerra Cubana pela independência” (p.17). O método, que os autores batizaram de “micro-história em movimento”, consistiu em seguir o rastro documental da família de Edouard Tinchant, duas gerações para trás e duas para a frente, por meio de documentos públicos e privados de todo tipo, garimpados em arquivos de oito países em três continentes e, na falta deles, preencher os vazios com dados que se associavam às trajetórias seguidas tanto por proximidade quanto por probabilidade. Sabendo, por exemplo, pela certidão de nascimento da mãe de Edouard, Elisabeth, que a mãe dela era Marie Françoise, conhecida por Rosalie, negra de nação Poulard, Scott e Hébrard puderam situar seu local de origem, a colônia francesa do Senegal, e o período aproximado de sua venda para o tráfico atlântico entre a Senegâmbia e Santo Domingo, o final da década de 1780. A falta de registros pessoais da primeira fase da vida da mulher que mais tarde se chamaria Rosalie foi então contornada pelos autores com o recurso a relatos contemporâneos de europeus, a documentos sobre a escravidão na colônia francesa do Senegal e à literatura secundária sobre a África Ocidental, o Islã na África e o tráfico atlântico do final do século XVIII.

No início da década de 1980, quando a área de estudos de escravidão começava a ganhar contornos e os especialistas ainda cabiam em um auditório, esboçava-se uma transição entre abordagens: de um lado, a do sistema de organização do trabalho e exploração dos trabalhadores, que dialogava com as teorias econômicas, e de outro, a das relações entre sujeitos históricos com autodeterminação, que abria o leque de influências disciplinares para incluir a sociologia, a antropologia e a linguística. Nessa fase, os historiadores passaram a observar mais de perto os mecanismos de reprodução do sistema, seus “segredos internos”, e com isso o comportamento dos grupos sociais, seus interesses e conflitos. O reconhecimento do protagonismo dos sujeitos históricos das camadas subalternas abriu espaço para que se multiplicassem as pesquisas em que a escala de análise dos diversos temas – trabalho, família, resistência, identidade étnica, práticas mágicas e religiosidade, entre outros – fosse a do indivíduo.

Depois de três décadas de grande florescimento e efervescência, a abordagem centrada nas pessoas escravizadas se vê às voltas com críticas acerca da representatividade dos sujeitos escolhidos e também da relevância dos seus achados para o entendimento dos grandes processos da História. Por isso, Provas de liberdade é ao mesmo tempo um libelo em defesa do jogo de escalas e uma demonstração de como proceder para incorporar o protagonismo dos sujeitos em uma análise dos processos históricos.

Os autores não trataram seus personagens como típicos ou excepcionais. A cada momento, na geração de Rosalie, de sua filha Elisabeth, de seu neto Edouard Tichant ou dos sobrinhos e sobrinhos-netos dele, Scott e Hébrard buscaram retratar momentos difíceis de tomada de decisão, de escolhas entre diferentes caminhos possíveis. Cada capítulo acaba com alguém embarcando rumo a uma nova fase na vida, sempre sob pressão ou ameaça. Foi assim quando Rosalie, já liberta, mas sem documento oficializado de sua liberdade, teve que fugir de Saint Domingue para Cuba com a filha Elisabeth em 1803, ou ainda quando a africana embarcou Elisabeth com sua madrinha para New Orleans, na Louisiana, em 1809 e voltou para o Haiti, agora independente. Foi ainda o caso da escolha feita por Elisabeth e seu marido, Jacques Tinchant, ele também filho de emigrantes haitianos de origem africana, de partir com quatro filhos para a França, país onde teriam direitos civis que não eram reconhecidos às pessoas livres de cor na Louisiana escravista da década de 1840. Foi igualmente a escolha de Edouard, nascido na França em 1841, de se juntar a dois de seus irmãos que trabalhavam em manufaturas de charutos em New Orleans. Na Louisiana, Edouard se engajou num batalhão de pessoas de cor durante a Guerra Civil, do lado da União, e depois entrou para a política, sendo eleito deputado da Assembleia Constituinte da Louisiana durante a Reconstrução, quando defendeu a igualdade de direitos civis, políticos e públicos para todos os cidadãos. Em cada trajetória e em cada momento vemos sujeitos fazendo escolhas em condições adversas, reagindo às limitações impostas pela conjuntura, protagonizando eventos e processos históricos como as transformações da escravidão e sua abolição, o pós-emancipação, ou mesmo a resistência ao nazismo na Segunda Guerra Mundial, história que antes víamos apenas de longe.

O diferencial metodológico do livro está na aproximação com o campo do Direito. Em primeiro lugar, os autores lançaram um novo olhar para os registros individuais. Sob a lupa do historiador cuidadoso, os documentos revelaram histórias complexas da aquisição e exercício de direitos (à propriedade, à liberdade, à nacionalidade, à cidadania), desnaturalizando-os e inscrevendo-os num campo de disputas. Assim, o direito à propriedade sobre escravos pode vir de uma apropriação ilegítima, posteriormente formalizada, como a que aconteceu entre milhares de ex-escravos de Saint Domingue que migraram para Cuba e depois para a Louisiana, onde a escravidão persistia: acabaram reescravizados. Em segundo lugar, Scott e Hébrard convidam os leitores a perceber como os protagonistas conferiam importância aos documentos escritos, mesmo que às vezes não pudessem ler. Essa consciência levou Rosalie a fazer questão de uma carta de alforria mesmo já sendo emancipada, pois nos territórios para onde iria ainda havia escravidão e ela sabia que precisaria provar sua condição. Nisso, percebemos que o entendimento sobre o significado e mesmo o conteúdo dos documentos sempre esteve em disputa entre as diversas forças sociais (incluindo as autoridades), e que as pessoas frequentemente se moviam na incerteza; não havia garantia plena de que uma pessoa livre de cor não fosse reescravizada, pois a fronteira entre escravidão e liberdade era bem mais porosa e cinzenta do que antes imaginávamos. Por último, é preciso ressaltar novamente a importância da abordagem simultânea em diferentes escalas, pois, ao narrar a história pelo fio condutor dos embates dessa família pelo reconhecimento de direitos – à liberdade, à respeitabilidade, à dignidade e igualdade perante a lei – os autores fizeram uma história social centrada na luta por direitos, sobretudo direitos humanos, no período entre a Revolução Francesa e o fim da Segunda Guerra Mundial, quando o protagonismo dos negros, mulheres e povos submetidos à colonização forçou sua ressignificação e ampliação até serem reconhecidos como universais.

Em suma, Provas de liberdade é uma obra acadêmica rigorosa e inovadora que os leitores terão o prazer de ler como um romance.

MAMIGONIAN, Beatriz Gallotti. – Universidade Federal de Santa Catarina. Florianópolis, SC, Brasil. [email protected].

 

Hajari, as fúrias da meia-noite de Nisid: o legado mortal da partição da Índia | Oliver Stuenkel

A partição, a divisão do subcontinente indiano em dois países em 1947, sempre será lembrada como uma das maiores tragédias do século XX, envolvendo uma das maiores migrações humanas forçadas da história, deslocando mais de 10 milhões de pessoas. Isso levou a mais de um milhão de mortes no contexto da saída da Grã-Bretanha do subcontinente e da independência da Índia e do Paquistão. Finalmente, foi o capítulo de abertura de uma das rivalidades mais complexas e não resolvidas do mundo, produzindo um hot spot nuclear que muitos consideram o mais perigoso do mundo. Nisid Hajari escreveu um livro muito legível sobre a política da Partição, detalhando as negociações e dinâmica de energia na véspera de 15 de agosto de 1947.

Com habilidade jornalística, o autor fornece retratos íntimos dos personagens principais do livro, Jawaharlal Nehru e Mohammed Ali Jinnah. Gandhi, Vallabhbhai Patel (Sardar) e Lord Louis Mountbatten também aparecem com frequência, mas Hajari descreve essencialmente o drama da Partition como um show de dois homens.

Enquanto Hajari se destaca em transformar um evento complexo e pesado em um virador de páginas, sua conta é centrada na Índia e, no final das contas, muito tendenciosa às visões de Nehru para fornecer uma conta equilibrada. O primeiro primeiro-ministro da Índia, o leitor é informado nas primeiras páginas do livro, era “arrojado”, “famoso por algumas das mãos”, tinha “maçãs do rosto aristocráticas e olhos altos que eram piscinas profundas – irresistíveis para suas muitas admiradoras”. “Apesar de desdenhoso das superficialidades, ele cuidou muito da aparência”, maravilha-se o autor. Ao longo do livro, Hajari descreve as qualidades supostamente sobre-humanas de Nehru, por exemplo, quando ele oferece o risco de sua vida para proteger os muçulmanos em Old Delhi. Jinnah, por outro lado, é amplamente descrito como um bandido sedento de poder que carecia de princípios “irascível” e ”

Nehru, o autor admite, também tinha falhas. Como escreve Hajari, Nehru se recusou a aceitar a Liga Muçulmana como parceiro da coalizão em 1937, exceto em termos humilhantes que incluíam a fusão incondicional dos partidos parlamentares da Liga Muçulmana no Congresso. O comportamento arrogante e distante de Nehru era precisamente o que Jinnah precisava para fortalecer as ansiedades que os muçulmanos tinham em relação à Índia dominada pela maioria hindu. E, no entanto, o livro deixa poucas dúvidas sobre quem é o vilão da história.

O que talvez seja mais problemático com esse relato é que a idéia de criar o Paquistão é descrita como pouco mais do que uma manobra usada por Jinnah para retomar sua carreira política após o retorno de Gandhi da África do Sul e a ascensão do povo hindu. O congresso o empurrou para a margem. Depois que sua jovem esposa se suicida, Jinnah se muda para uma casa sombria com sua irmã do mal, Fátima. Enquanto Nehru é movido por altos ideais, sugere o livro, Jinnah é movido pela amargura e pelo desejo de vingança.

No entanto, a idéia do Paquistão era muito mais do que um mero argumento de barganha proposto por Jinnah. Hajari permanece calado sobre figuras-chave como Muhammad Iqbal, uma das figuras mais importantes da literatura urdu e o filósofo que inspirou o Movimento Paquistanês. O autor parece sugerir que seria necessário apenas um representante mais moderado da Liga Muçulmana para evitar a Partição.

Contudo, esse argumento ignora que as eleições supervisionadas pelos britânicos em 1937 e 1946, que o Congresso dominado pelos hindus venceu com facilidade, apenas endureceram a identidade muçulmana e tornaram inevitável a divisão. A política britânica de definir comunidades com base na identidade religiosa, que alterou fundamentalmente a autopercepção indiana, requer muito mais atenção para explicar a dinâmica que levou à Partição. Churchill, em particular, viu consolidar uma identidade muçulmana na Índia e alimentar tensões sectárias como essenciais para prolongar o domínio britânico no subcontinente (ele apoiou ativamente a causa de Jinnah nos anos anteriores a 1947).

Hajari reconhece que a decisão de Mountbatten de antecipar a retirada da Grã-Bretanha e deixar um cartógrafo despreparado traçar as fronteiras dentro de 40 dias (sem visitar as regiões afetadas, como o autor nota corretamente) tornou todo o projeto muito mais mortal do que poderia ter sido em outras circunstâncias . Jinnah dificilmente poderia ter antecipado tal comportamento irresponsável pelos britânicos.

Como escreve Pankaj ( Mishra, 2007 ), ninguém havia se preparado para uma transferência massiva de população. Mesmo quando milícias armadas vagavam pelo campo, procurando pessoas para sequestrar, estuprar e matar, casas para saquear e trens para descarrilar e queimar, a única força capaz de restaurar a ordem, o Exército Indiano Britânico, estava sendo dividida em linhas religiosas – soldados muçulmanos no Paquistão, hindus na Índia. Em breve, muitos dos soldados comunalizados se uniriam a seus co-religiosos na matança de facções, dando à violência a partição de seu elenco genocida … Os soldados britânicos confinados em seus quartéis, ordenados por Montana para salvar apenas vidas britânicas, podem provar ser a imagem mais duradoura do retiro imperial.

As Fúrias da meia-noite não descobrem muitas fontes novas e os especialistas não encontrarão nada que mude de opinião, mas o livro é bem pesquisado. Uma exceção um tanto estranha é a Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), uma organização hindu de direita, que Hajari abrevia erroneamente como RSSS ao longo do livro.

Apesar de seu viés, o livro aponta para a importância de um ponto de virada histórico crucial que continua a moldar os atuais debates geopolíticos. Como a disciplina de Relações Internacionais, em particular, continua se concentrando demais no que aconteceu na Europa após a Segunda Guerra Mundial, são necessários muitos outros livros sobre as consequências da guerra na Ásia e em outras partes do mundo.

Referências

Mishra, Pankaj. Feridas de saída: o legado da partição indiana. 13 de agosto de 2007. Disponível em: http://www.newyorker.com/magazine/2007/08/13/exit-wounds ; Acesso em: 12 jan. 2016. [  Links  ]

Oliver Stuenkel – Professor Assistente de Relações Internacionais, Faculdade de Ciências Sociais, Fundação Getulio Vargas (FGV). São Paulo, SP, Brasil. E-mail: [email protected].


STUENKEL, Oliver. Hajari, as fúrias da meia-noite de Nisid: o legado mortal da partição da Índia. Massachusetts: Houghton Mifflin Harcourt, 2015. 328p. Resenha de: STUENKEL, Oliver. Revista Brasileira de História. São Paulo, v.36, n.71 São Paulo, jan./abr. 2016.

Migración peruana en Santiago: prácticas, espacios y economías – GARCÉZ H (EA)

GARCÉZ H., Alejandro. Migración peruana en Santiago: prácticas, espacios y economías. Santiago: Ril Editores, 2015. Resenha de: CORTÉS, Vicente. Estududios Atacameños, San Pedro de Atacama, n.51, dic., 2015.

  1. ¿Qué es “un problema de espacio”?

¿Qué es lo que un etnógrafo puede decirnos acerca del espacio? El libro Migración peruana en Santiago, del profesor Alejandro Garcés (Universidad Católica del Norte), aborda “un campo de fenómenos que describen la presencia y la diferencia que la migración peruana introduce en el espacio urbano [de Santiago]” (14-15). El problema parece, de esta forma, fácilmente definido: un problema de concentración de migrantes peruanos, y la ocupación o territorialización del espacio público, que dan lugar a una “aglomeración de lo peruano” (15). Problema de espacio inmediatamente correlativo y coextensivo a un problema identitario, o mejor —como dice con precisión el auto—, a un problema de denotación.

  1.   De la antropología a una etnografía fenomenológica

No habría que equivocarse, sin embargo. No hay unidad hipostasiada de “lo peruano” ni mucho menos la intención de delimitar “el espacio de lo peruano”. El autor pretende, a la vez, mucho más que la mera taxonomización, identificación y caracterización de un grupo supuestamente homogéneo, y también mucho menos; puesto que el autor parece haber renunciado de entrada al saber antropológico que tiende a reducir la sociedad o colectividad migrante a una supuesta identidad peruana (determinante de todo un carácter, de una serie de hábitos, de un ethos correlativo a una esencia, si se quiere), reducción que no es sino la reducción del problema del proceso migratorio a un problema policial o psicológico. Mucho más también, puesto que se trata de un trabajo etnográfico: la descripción de una población en proceso de migración y de los modos de producción de espacios (residenciales, económicos, culturales, de ocio). De suerte que la pregunta no es “¿qué es lo peruano?”; la pregunta es “¿cómo ‘lo peruano’ ha llegado a constituirse en la forma en que precisamente se ha constituido y se sigue constituyendo?”. Dicho de otra forma: ¿cómo lo peruano ha llegado a constituirse en un proceso experiencial que es indisociablemente interno y externo? El lector atento habrá notado que estamos frente a un libro con profundas raigambres filosóficas: toda una etnografía fenomenológica de la experiencia migrante, una etnografía de los fenómenos de formación social de la ocupación territorial migrante. Así las cosas, para hacer la etnografía de la territorialización peruana en Santiago, no se puede intervenir el “campo de fenómenos” con un logos supuestamente anterior a la voz (y menos cuando la unidad de un grupo, como nota el autor [19] solo puede fijarse por el trayecto que va de un país de origen a una ciudad de destino). Es necesario dejar discurrir la voz del migrante y atender a lo que dice. Y es precisamente como comienza esta investigación: el etnógrafo logra introducirse en una reunión de migrantes peruanos en la discoteca-restaurante La Conga (Santiago Centro) para no solamente “presenciar” o “ver”, sino también, y sobre todo, escuchar la voz migrante. ¿Qué se dice? Sería ingenuo creer que el etnógrafo se encontrará por fin con la expresión auténtica de “lo popular” del “otro”. Los problemas son de praxis: los migrantes plantearon problemas tales como la necesidad de construir una “mediación entre origen y destino” (problema residencial o de “territorialidad otra” [32]), o “la disputa de una legitimidad para la interlocución con las autoridades locales chilenas” (problemas de fiscalización y policial); por último, la necesidad de “desconcentrar la zona” económica ocupada por ellos mismos en Santiago Centro (problema de la “economía étnica”). Al “problema de espacio”, problema de la “diferencia migrante” (21), responde, desde dentro, toda una política de espacios. Lección profunda: cuando no se tiene nada que decir, hay que comenzar por escuchar.

  1. Espacio y lugar

Con esto tenemos también la matriz directora del presente trabajo: no se trata de saber cuán o cuán poco integrados están los peruanos (por qué no los colombianos, o los mismos chilenos, pregunta el autor en una nota importante de la página 19); tampoco se trata de acusar discriminaciones. El problema es el de la “constitución de un locus”, esto es, no de un mero espacio indeterminado, homogéneo, sino de un lugar cualitativamente diferenciado: “locus de recursos” o de “estigmatización”. En efecto, “estos espacios presentan en su interior un carácter propio, una especificidad de interacciones y prácticas sociales, de sentidos producidos por la experiencia migrante, que le dotan de una densidad específica” (20). ¿Quiere esto decir que volvemos al paradigma del migrante popular, identificado como tal y obligado a expresarse como tal? En ningún caso2. A la delimitación territorial (residencial y comercial) corresponde una dinámica interna que “determina su propia permeabilidad” (20). Y es que las dinámicas de estos lugares requieren constantemente de flujos extraños al círculo circunscrito a lo identitario (como es el caso de la articulación de las economías étnicas con capitales de pequeños empresarios chilenos), que dislocan el imaginario antropológico de la pureza de la economía étnica (capítulo tres). Porosidad del espacio, entonces, de los lugares ocupados por los migrantes peruanos; porosidad que en nada contradice la constitución de una colectividad, sino que la implica, más bien. De modo tal que, si hay algo como “lo peruano” en Santiago de Chile, esta identidad se construye, en esta ciudad, por sus espacios, o más bien por los modos de ocupación, de territorialización (que es siempre, por supuesto, una re-territorialización), a partir de una multiplicidad de individuos migrantes que vienen a conectarse —entre sí y con “autóctonos”— con sus particularidades en una compleja trama de ocupación territorial: formación de un “lugar”, de una diferencia en el espacio. Y aquí entra sin duda un tercer y último problema: no solo hay un problema de espacios, ni un problema de la diferencia migrante, sino también un problema de denotación, es decir, de los modos de denominación de “lo peruano” con los que, tanto desde dentro como desde fuera, “se aglutinan diversos sentidos acerca del espacio [ocupado por los migrantes peruanos]” (28). Aglutinación significante y funcional del espacio de identificación que se constituye como lugar a partir de determinaciones y denominaciones tanto extrínsecas como intrínsecas.

  1. “Centralidades migrantes”

El autor se ve en la necesidad de inventar el concepto de “centralidad migrante”, que permite una exploración de la experiencia migrante a partir de tres ejes: uno, el “vínculo entre lo espacial y lo social”; dos, las “formas comerciales y prácticas de ocupación del espacio público”; y tres, las formas de denotación, de estigmatización y de confinamiento que surgen de las instituciones locales chilenas. Así, este concepto permite incluir en el estudio de la experiencia migrante la “yuxtaposición de la concentración de la residencia y del comercio migrante” (22), distanciándose del concepto clásico de “enclave”, por no adaptarse a la complejidad del objeto de estudio de la presente investigación3. Ciertamente este distanciamiento no debe ser interpretado en términos de oposición. El autor es consciente de la importancia de los trabajos de Portes (y otros) al respecto: mediante el concepto de “enclave” ha sido posible explorar un fenómeno social que no se correspondía con la matriz de desarrollo de las ciudades elaborado por la escuela de Chicago (41-46)4. La migración peruana en Santiago, efectivamente, responde a algunos de los criterios que podrían hacer creer que se trata de un enclave en sentido estricto. Sin embargo, “supone otra estrategia de integración al mercado de trabajo, al mismo tiempo que constituyen un nuevo patrón de asentamiento urbano” (45). Por ejemplo: en los emprendimientos peruanos en Chile no hay una clara división social del trabajo (empresario peruano que contrate peruanos como mano de obra barata), sino que descansan muchas veces en el trabajo familiar (107-111). Pero sobre todo, mientras que “la fuerza de la idea de enclave radica en su capacidad de confinar unas prácticas, la idea de centralidad migrante parte de la descripción de lo confinado para comunicarlo con aquello que le rodea, esto es, le definen también su permeabilidad, su porosidad” (48). En efecto:

“(…) las formaciones comerciales de la migración peruana en Santiago forman parte de la construcción de un espacio público de la migración, un marco de visibilidad para la heterogeneidad propia de lo urbano, y en esa línea podemos interpretarlas como una estrategia de apropiación del espacio urbano en el marco de la experiencia migrante peruana, que aglutina una diversidad de otras dimensiones que por supuesto exceden la dinámica propiamente económica o comercial” (49).

Las centralidades migrantes determinan así la unidad fenoménica de investigación del presente estudio.

De este modo se articula el libro en torno a los diferentes aspectos que implica el concepto de “centralidad migrante”: primero, se propone un “examen del proceso económico interno que da lugar a los comercios”, que permite mostrar los límites de la noción de “economía étnica” (capítulo tres); segundo, un “análisis de las centralidades migrantes como espacios en que se produce un proceso de territorialización de la experiencia migrante” a través de la “construcción de una memoria de la ocupación de estos espacios en Santiago de Chile” (capítulo cuatro); tercero, se trata de la cuestión de la ocupación del espacio público (calle), ocupación que funciona como principio de reproducción de la experiencia migrante (capítulo cinco); por último, en cuarto lugar, y como consecuencia de lo analizado en el capítulo anterior, se analizan los “dispositivos que operan en contra de la indisciplina que estos usos suponen, y que valiéndose de la supuesta inseguridad, ilegalidad y falta de higiene vinculadas al comercio de alimentos, denotan y/o estereotipan lo peruano para confinarlo en otro lugar, para relocalizar una diferencia que se hace molesta sobremanera en espacios del centro de la ciudad, ahora recargados de sentido patrimonial” (capítulo seis).

  1. Algunas remarcas conclusivas

El libro da cuenta de una profunda y larga investigación, tanto de un acabado estudio de campo como de una potente discusión intelectual, a la vez etnográfica y filosófica. De esta forma, se es capaz de responder a la pregunta: ¿qué es lo que un etnógrafo podría enseñarnos acerca del espacio? Contra la construcción de imágenes guiadas por criterios comunicacionales, hay que responder de manera tajante: hay una producción, una formación siempre colectiva del espacio, o más bien, como ya se dijo, del lugar; una apropiación y apertura colectiva de los espacios de la ciudad. El libro de Alejandro Garcés es una obra importante para la etnografía en Chile y está sin duda marcado por el esfuerzo de toda una generación de antropólogos y sociólogos que tanto ha buscado la rigurosidad científica como la creatividad conceptual.

Notas

2Aunque el autor no lo cita, hay varios puntos de encuentro teórico con Le philosophe et sespauvres de J. Rancière.

3El “enclave étnico” se define como “la concentración en un espacio físico de firmas empresas étnicas que emplean una proporción significativa de trabajadores de la misma minoría” (43).

4“Contra la supuesta idea de la dispersión espacial como proceso geográfico simultáneo a la integración social de los migrantes, las trayectorias de estos mismos en destino nos hablan de una persistencia del centro como una importante fuerza aglutinadora de la residencialidad y de la economía migrante en la ciudad” (61).

Vicente Cortés – Universidad Alberto Hurtado y Universidad Diego Portales.

Acessar publicação original

[IF]

BUSTOS Beatriz (Comp), PRIETO Manuel (Comp), BARTON Jonathan (Comp), Ecología política en Chile: naturaliza/ propriedade/ conocimiento y poder (T), Editorial Universitaria (E), GIMINIANI Piergiorgio (Res), JACOB Daniela (Res), Estudios Atacameños (EA), Ecologia política, América/Chile (L), Natureza, Propriedade, Conhecimento, Poder

BUSTOS, Beatriz; PRIETO, Manuel; BARTON, Jonathan (Compiladores). Ecología política en Chile: naturaliza, propriedade, conocimiento y poder. [Sn.]: Editorial Universitaria, 2015. Resenha de: GIMINIANI, Piergiorgio;  JACOB, Daniela. Estudios Atacameños, San Pedro de Atacama, n.53, nov., 2016.

 

El libro “Ecología política en Chile: naturaleza, propiedad, conocimiento y poder”, editado por Beatriz Bustos, Manuel Prieto y Jonathan Barton, reúne a doce investigadores afiliados a universidades nacionales e internacionales, que comparten un interés en el estudio de los procesos eco-políticos que están afectando Chile. Los nueve capítulos que componen este libro dan fe de una gran heterogeneidad de enfoques analíticos y de las localidades de investigación. A pesar de su diversidad, los capítulos de “Ecología Política en Chile” se encuentran organizados a partir de una reflexión conceptual sobre los elementos claves para establecer un análisis comparativo y un diálogo entre las distintas posibilidades de investigación abiertas por la ecología política. Los editores proponen pensar la ecología política a partir de cuatro dimensiones: naturaleza, propiedad, conocimiento y poder. Al problematizar estas cuatro dimensiones, el libro nos invita a preguntarnos sobre cuáles son las naturalezas que las prácticas de uso y conservación de recursos naturales producen desde el punto de vista tanto ontológico como epistemológico.

El enfoque hacia la producción ontológica y epistemológica de la naturaleza en cuanto proceso político es una de las principales novedades del volumen. Sin embargo, no es la única. En los debates analíticos y políticos existe una tendencia a reducir la ecología política a oposiciones dicotómicas, que obscurecen la fragmentación e hibridación de lo político en las relaciones de poder en juego en los conflictos ambientales. Los capítulos de este libro, en particular los capítulos de Palomino-Schalscha y de Román y Barton, nos invitan a considerar el conflicto socio-ecológico más allá de categorías binarias, demostrando el carácter inmanentemente político de estos procesos. Esto va acorde al planteamiento de los autores sobre la ecología política como una postura que “rompe con el mito de la naturaleza como fenómeno prepolítico” (50). La reflexión sobre lo político avanzada por los autores de este libro, nos ayuda a reconocer las especificidades de este fenómeno en la ideología y lógica neoliberal. Esta consideración es inevitable debido a que cualquier estudio de ecología política en Chile, un bastión del neo-liberalismo desde el comienzo de la dictadura militar en 1973, hace evidente los mecanismos particulares de esta ideología en los procesos extracción y, en menor medida, de conservación de recursos naturales en la esfera pública como privada. A diferencia de lo que pueda pensarse en un primer momento, el neoliberalismo no es simplemente la ausencia de Estado, sino que más bien se caracteriza por la reconfiguración de la gobernanza pública según modelos de lógica financiera, (y ya no la teoría política o filosofía moral) con el fin de sustentar la expansión del mercado, en este caso, de recursos y servicios naturales. A pesar del evidente énfasis de la gobernabilidad medio ambiental neoliberal en el extractivismo, el neoliberalismo en el campo ecológico (como en tantos otros) no es un fenómeno exento de contradicciones. El ejemplo más evidente es el así llamado “neoliberalismo verde”, que mediante la propiedad privada de territorios coarta el extractivismo de recursos, iniciativa que va acorde a las lógicas y expansión del mercado. Como bien señala Palomino-Schalscha en su capítulo sobre los senderos pewenche Trekaleyin en el Alto Bío-Bío, dentro de las mismas lógicas neoliberales, hay espacio para la reapropiación de estas por parte de la sociedad civil, dando espacio a la contestación con el efecto de producir espacios de “aguante”, como fue propuesto por la antropóloga Elizabeth Povinelli (2011).

Otro aspecto llamativo de este libro es la apertura de un espacio de diálogo teórico entre corrientes de pensamiento que no suelen entrar en relación. Los capítulos de este libro se inspiran tanto en los principios de la acumulación por desposesión desarrollado por David Harvey (2003) y en general por la geografía neo-marxista a las corrientes post-humanas, inspiradas en el trabajo de Donna Haraway (2008) y Bruno Latour (2008) en el estudio de la ciencia y tecnología. La relación entre estas dos corrientes permite ver cómo su conjunción es solo en apariencia contradictoria. Por un lado, un enfoque estructural nos permite ver quién produce e impone modelos epistémi-cos dominantes sobre la naturaleza; por otro lado, una perspectiva post-humanista nos invita a reconocer cómo el conocimiento en sí mismo, es un proceso de construcción ontológico donde resulta difícil plantear una clara distinción entre conocimientos científicos y sociales. Ambas posibilidades coexisten en conflictos medioambientales, como el desastre ambiental provocado por la celulosa Arauco que vio la pérdida de vida de cien Cisnes de Cuello Negro en Valdivia, presentado por Sepúlveda y Sundberg, y el desarrollo de enfermedades causada por la sobrepoblación de salmón comercial en todo el sur de Chile analizado por Bustos. El estudio de estos tipos de casos se vuelve necesario por una reflexión crítica constante sobre la cultura del experticia, como un campo de saber a -politicizado que caracteriza la producción de conocimiento y políticas públicas en Chile.

Otras dos novedades relevantes de este libro son la pro-blematización del concepto de propiedad en las disputas medioambientales y la relación entre colonialismo y ex-tractivismo en juego, en los procesos eco-políticos contemporáneos en Chile. Los capítulos de Manuel Prieto y David Tecklin, demuestran como la propiedad es una relación de poder práctica más allá de su carácter legal. De esta forma, la propiedad aparece tanto como una imposición gubernamental y como un campo político abierto a fracturas, contradicciones y resistencias. La relación entre extractivismo y colonialismo es evidente en consideración de una larga historia de expropiación de recursos naturales hacia los pueblos originarios en Chile, legitimizada, principalmente, por mecanismos legales de propiedad como el de la terra nullius. La faceta opuesta del racismo ambiental es la penetración de ideas y símbolos asociados a los pueblos indígenas en el movimiento ambientalista, un fenómeno ampliamente documentado a nivel global (Tsing 2005). A pesar del riesgo implícito de esencializar las sociedades indígenas, el conocimiento de sus nociones eco-cosmológicas pueden contribuir al problemático reconocimiento de la diversidad cultural en Chile (o más bien su falta) y al desarrollo de nuevos valores medioambientales universales, un punto planteado por Rozzi en su capítulo sobre ética biocultural.

A pesar de las contribuciones que se han hecho explícitas, hay una interrogante que inevitablemente aparece al leer el texto ¿Hasta qué punto este libro sólo aplica marcos teóricos globales, provenientes de centros de producción de conocimiento a Chile, que vendría a ser periférico a estos? De hecho, rellenar un vacío analítico en un lugar como Chile, puede parecer inicialmente como el trabajo típico de traducción de conceptos desarrollados en los centros de una particular disciplina, en este caso los departamentos de geografía en las universidades del “norte”, y la aplicación de esto a un contexto supuestamente periférico. La centralidad de la traducción entre centros y periferias del saber académico ha sido destacada en los estudios coloniales para recalcar cómo ciertos lugares son destinados a ser casos de estudio y otros centros de producción de teoría. Es innegable que en este libro hay un interés loable en presentar al lector chileno e hispano hablante, algunas de las discusiones globales contemporáneas en geografía desarrolladas principalmente en el mundo anglófono. Sin embargo, la comunicación generada entre los contribuidores de este libro, de distintos contextos académicos, demuestra implícitamente no solo lo que el estudio del caso chileno puede beneficiar en términos de comprenderse a sí mismo mediante marcos teóricos globales, sino también lo que la comunidad académica y política global puede aprender de Chile. De esta manera, algunos conceptos que han tenido su génesis en el norte vienen a desterritorializarse y a enriquecerse con otras experiencias, dialogando y modificando el modo en que aparecen en el lugar de su génesis estos mismos conceptos.

Más allá de las contribuciones y discusiones teóricas de este libro, que hemos listado anteriormente, vale volver también a lo planteado por Tom Perreault en el prefacio del libro “el conocimiento académico crítico sirve tanto para la crítica como para la acción” (9). Esta frase, estrechamente vinculada a los orígenes de la ecología política y a su relación a los movimientos sociales, deja desde un comienzo este libro como una promesa inacabada. La función crítica está cumplida con creces, ahora queda esperar a ver cómo estas ideas son capturadas y resignificadas en las luchas ambientales que se están dando en el Chile actual, para sólo de este modo pasar a la tan ansiada acción.

Referências

Latour, B. 2008. Reensamblar lo social: una introducción a la teoría del actor-red. Buenos Aires: Manantial.         [ Links ]

Harvey, D. 2003. The new imperialism. Oxford University Press.         [ Links ]

Haraway, D. J. 2008. When species meet. Vol. 224. U of Minnesota Press.         [ Links ]

Povinelli, E. A. 2011. Economies of abandonment: Social belonging and endurance in late liberalism. Durham, NC: Duke University Press.         [ Links ]

Tsing, A. L. 2005. Friction: An ethnography of global connection. Princeton University Press.         [ Links ]

Piergiorgio Di Giminiani – Programa de Antropología y CIIR (CONICYT/FONDAP/15110006), Pontificia Universidad Católica de Chile. Avenida Vicuña Mackenna 4860, Macul, Santiago ([email protected]).

Daniela Jacob – CIIR (CONICYT/FONDAP/15110006), Pontificia Universidad Católica de Chile. Avenida Vicuña Mackenna 4860, Macul, Santiago ([email protected]).

Acessar publicação original

[IF]

 

 

 

 

Caminhos cruzados: migração e construção do Brasil moderno (1930-1950) | Odair da Cruz Paiva

As marcas das primeiras levas de migrantes que chegaram ao bairro já em meados da década de 1930 continuam presentes, revelando as idades da história. A decodificação dos desafios do presente nos obriga, assim, a deslindar os diferentes tempos que o constitui. Questões e problemas gerados pelas gerações passadas mantêm-se para além do momento em que foram criados e assumem formas diferenciadas a cada novo presente. O trabalho do historiador deve apontar para um olhar sobre o presente e faz emergir o passado que igualmente o constitui.

Odair da Cruz Paiva (p. 279)

“Caminhos cruzados” já seria um título bastante oportuno para se atribuir a um livro que nasce de uma minuciosa pesquisa que tem como principal objeto de estudo o tema migração. Mas, ao se aprofundar na obra percebemos a cada momento que a expressão é muito mais significativa, vai além desse primeiro encontro. Ainda no prefácio, a Profa. Dra. Zilda Márcia Grícoli nos expõe que seu orientando, como pesquisador, consegue com sucesso transpor para a vida acadêmica seus próprios anseios, seus incômodos pessoais, gerados ainda no seio familiar e instigado principalmente pelas histórias contadas por sua mãe (migrante e nordestina). Por outro lado, continua a professora, esse envolvimento com o tema não o impede de priorizar o rigor metodológico, muito pelo contrário. E tal contexto é facilmente identificado ao nos defrontarmos com as 306 páginas da obra de Odair da Cruz Paiva, que nascem de uma pesquisa para obtenção do título de doutor em História Social pela USP.

Desse modo, torna-se bastante apropriada a leitura da obra em diversos aspectos, mas principalmente para percebemos como o autor, graduado pela PUC-SP, demonstra o quanto pode ser rico o ofício do historiador. Uma riqueza que está em conseguir dar conta tanto de aspectos gerais da sociedade, e, ao mesmo tempo, tornar possível a busca de respostas para questões que passam por um campo mais específico, porque não dizer individual. No caso de Paiva, como filho de migrantes nordestinos, questionamentos gerados de acordo com as contradições vivenciadas em sua própria história de vida foram fatores que nitidamente o impulsionaram para a construção desta bela obra.

Assim, fica evidenciado o importante papel do pesquisador, já que observamos a presença de um termo que não pode estar ausente: a experiência. A memória de Paiva entrecortada por memórias de outros, de migrantes antes de tudo, lhe indicavam que a migração nordestina para São Paulo precisaria ser melhor explicada. Pensar o porquê do deslocamento, o desenraizamento, os estranhamentos gerados, vem precedido de o porquê e como procurar. Dessa forma, através de experiências pessoais e da experiência acadêmica, o autor trilha um caminho em que irá cruzar uma diversidade muito grande de fontes. Em conjunto com memórias de vida – inclusive a sua própria – documentos dos mais variados tipos foram somados, alguns ainda inéditos, e mostraram-se valiosos do ponto de vista do historiador que enxerga além das aparências, que busca nas fontes oficiais ou não algo que pode ser encontrado, mas que aos olhos dos desatentos pode permanecer oculto.

O autor, em sua pesquisa, se deteve em muitos documentos produzidos pelo poder público entre os anos de 1930 e 1950. Em sua maioria tratam de dados estatísticos a respeito da demografia e economia de municípios do interior e da capital do estado de São Paulo. Documentos produzidos pela Secretaria da Agricultura, da Indústria e do Comércio que incluíam, ainda, números registrados pela Hospedaria dos Imigrantes. A análise realizada através de uma exaustiva pesquisa permitiu que se originassem muitas indagações e reflexões que culminaram com a construção de uma hipótese fundamental para o estudo da migração nordestina em São Paulo. Assim, Paiva formula a tese de que esse fluxo migratório tinha como característica principal em seu primeiro momento, já nas décadas iniciais do século XX, um sentido rural-rural estimulado por iniciativas públicas associadas aos interesses do capital agro-exportador. E, num segundo momento, teria se transformado em uma migração rural-rural-urbana, articulada por interesses da acumulação do capital, que havia se direcionado, por sua vez, para as atividades industriais.

Nesse sentido, Paiva busca entre as conseqüências da Primeira Guerra Mundial a origem de tal contexto. O conflito teria trazido um decréscimo significativo de braços produtivos para a própria Europa, por conseguinte, e de acordo com as estatísticas buscadas por Paiva, o número de trabalhadores estrangeiros que entravam no Brasil diminuía significativamente, já que em sua esmagadora maioria vinham das regiões mais afetadas pela guerra. Os imigrantes europeus, portanto, já não eram mais a melhor alternativa. A opção agora se direcionava para a valorização do elemento nacional, mais especificamente, do nordestino. Ao mesmo tempo, a Guerra e, principalmente a Crise de 1929, provocaram transformações no padrão de acumulação do capital, já que a cafeicultura apresentava sérios problemas e, conseqüentemente, o setor urbano-industrial recebia um grande impulso em São Paulo. Como o planejamento da elite paulista, em conjunto com o governo Vargas, já envolvia o deslocamento de grandes contingentes de mão-de-obra para o café, isto é, para o campo no Oeste Paulista e outras regiões (principalmente o Paraná), a necessidade aumentava na medida em que a industrialização se desenvolvia e assim surge a chamada “política de subsídios migratórios”. Uma política que consistirá basicamente em captar e encaminhar mão-de-obra em larga escala do nordeste para o interior de São Paulo, primeiro para a cafeicultura, depois para a cotonicultura e para as indústrias, estas sim localizadas na capital paulista.

Todo esse processo, vale lembrar, como diz Paiva, tem outro importante elemento facilitador. A “política de subsídios” foi beneficiada pela excelente malha ferroviária existente, que pôde transportar um enorme contingente de trabalhadores de forma simples e ágil por diferentes regiões, desde o norte de Minas Gerais, até a capital e o interior de São Paulo e arredores. Em outras palavras, café e indústria, elite agrária e urbana, tiveram interesses intrínsecos e a ferrovia foi um instrumento poderoso nas mãos dessa oligarquia paulista.

Nesse sentido, é importante dizer que mesmo a noção de inferioridade numérica da migração nordestina para São Paulo em relação à migração intra-regional nas décadas de 1930 e 1940 é bastante contestável. O autor, valendo-se das fontes ainda inéditas na utilização dessa temática, nos mostra que os estudos dos fluxos migratórios do interior para a capital de São Paulo não consideraram que muitos dos migrantes eram antigos nordestinos que haviam sido arregimentados em sua terra natal para servirem de mão-de-obra nas lavouras de café e só num segundo momento se dirigiram para a indústria. Logo, a migração rural-rural-urabana não foi computada pelas estatísticas e muitos nordestinos engrossaram indevidamente os números das migrações internas do estado de São Paulo.

Estruturado em três capítulos, o livro, já em sua primeira parte, nos instiga a refletir sobre o quanto sertão e cidade se confundem. Como, de acordo com suas próprias necessidades, os migrantes desenraizados “reeditam em São Paulo, aspectos de sua cultura e formas de sobrevivência de suas regiões de origem” (p. 41). Assim, o autor nos conduz à periferia de São Paulo, conceituando-a, caracterizando-a e exemplificando-a, principalmente a partir do caso de um bairro em específico: São Miguel Paulista. Ao realizar uma rica narrativa historiográfica, principalmente a partir da chegada do grande contingente nordestino quando da instalação da empresa Nitro Química em 1935, nesse distante lugar da cidade, Paiva faz com que seus leitores possam ter uma base concreta do quanto foi significativa a presença do elemento nordestino na constituição do que hoje é uma das maiores metrópoles do mundo. Lançando mão de outros estudos realizados e das memórias coletadas por outros pesquisadores, o autor nos traz a imagem de um migrante nordestino que se faz sujeito da história da cidade (construindo a periferia), da história do bairro (da “reedição” de muitos elementos de sua cultura de origem), da história da Nitro Química (do operário que tem consciência de sua classe e que pôde por vários momentos se mobilizar por melhores condições de trabalho).

No segundo capítulo, temos contato diretamente com o processo que permitiu ao autor chegar a sua tese principal. Paulatinamente, vai sendo desvelado todo o sistema de captação, triagem e encaminhamento da mão-de-obra migrante nordestina para São Paulo. O texto afirma que era uma reedição de mecanismos antigos que, naquele momento, porém, tinha um direcionamento diferente que se voltava para a valorização do elemento nacional. Ou seja, poder público e iniciativa privada participavam conjuntamente de um organismo que minuciosamente pensava qual trabalhador se deveria buscar e que estava atento em articular com as elites do próprio nordeste (já que estudos minuciosos sobre o perfil da população e da economia de vários municípios nordestinos foram encontrados por Paiva). Além disso, no interior desse sistema se verifica a entrada de outras entidades privadas que percebem nesse meio um excelente “negócio” financiado pelo Estado e que, por fim, demonstra que justamente por isso vai arregimentar mais braços do que as lavouras paulistas necessitavam. Por conseqüência, através de depoimentos e documentos da própria Secretaria, o historiador se depara com uma importante questão que lhe dará mais subsídios para sua tese: a questão da mobilidade. Segundo as palavras do próprio autor:

A questão da mobilidade da mão-de-obra migrante inserida no campo vem reforçar nosso argumento sobre a dinâmica do processo migratório que, em nosso ponto de vista, tinha dois aspectos inter-relacionados: num primeiro momento ele parte de uma dinâmica rural-rural e, em seguida, na saturação ou na inviabilidade da continuidade no campo, esses trabalhadores migraram para a cidade. (p. 169).

Desse modo, é aberto o espaço para a terceira e última parte do trabalho, que possui uma denominação bastante interessante e que está em plena conformidade com exposto acima: “A migração em São Paulo: modernização sem mudança”. Como é possível já antecipar, aqui o autor nos mostra que não ocorre nenhuma transformação na sociedade, apenas mudanças pontuais: investimentos transferidos do café para o algodão e para a indústria e mão-de-obra não mais imigrante, agora migrante. O conservadorismo dos grupos dominantes continua predominando. Sendo assim, a “política de subsídios migratórios” foi uma reedição da política de imigração, porém as velhas estruturas de dominação agora investem sobre um novo projeto de nação, que traz consigo a valorização do trabalhador nacional por um lado e, por outro, vem acompanhada de uma construção negativa do nordeste, que, no limite, contentará as oligarquias tradicionais. No que se refere às elites do nordeste do país, neste caso, caracterizar essa região como a imagem do atraso, resultado de uma geografia que simplesmente lhe coloca como produto da seca e que não lhe permite crescimento, facilitou a captação de recursos do Estado por parte desses que detém o poder local.

Já com relação às elites do Centro-Sul, que enfrentavam resistências à migração nordestina por parte de sua população, principalmente por meio da imprensa – nutridos por um sentimento eurocêntrico –, a idéia negativa do nordeste vai dar argumentos para uma espécie de “dever” que São Paulo teria para como os seus, neste caso, considerados compatriotas nordestinos. São Paulo sendo a “locomotiva do Brasil” – uma idéia que também passa a ser difundida nessa mesma época – teria os recursos e o saber técnico necessários para resolver o problema da região e, além disso, “educar”, melhor dizendo, “civilizar” os oriundos de outro ponto da nação que por uma questão “natural” não tinha condições de se desenvolver: um “esforço eugênico” (p. 206). Nesse caso, a obra nos traz mais um dado interessante. A Hospedaria dos Imigrantes, de acordo com relatos de ex-funcionários analisados por Paiva, era um local em que:

[…] buscava-se uma assepsia do trabalhador rural, informada por uma lógica urbana, […] regras de segurança e higiene ou procedimentos como o registro da matrícula e do encaminhamento eram impostos e, por vezes, transgredidos pelos trabalhadores; estas transgressões foram avaliadas como falta de higiene, falta de cultura ou pobreza [grifos do autor] (p. 212).

O livro de Odair da Cruz Paiva vem desse modo ao encontro do debate sobre as correntes migratórias internas, mas como podemos observar vai além. Ele vem acompanhado do debate inevitável sobre a questão das identidades e no caso específico a questão do nordestino em São Paulo. Bastante necessário se faz que essa discussão continue ganhando espaço em todos os níveis da sociedade, inclusive do ponto de vista acadêmico, já que na “São Paulo imigrante” o nordeste migrante foi por muito tempo silenciado.

Luciano Deppa Banchetti – mestrando no Programa de Estudos Pós-Graduados em História da PUCSP. Bolsista CNPq.


PAIVA, Odair da Cruz. Caminhos cruzados: migração e construção do Brasil moderno (1930-1950). Bauru: EDUSC, 2004. Resenha de: BANCHETTI, Luciano Deppa. Nordestinos em São Paulo: o deslindar de uma trajetória. Cordis – Revista Eletrônica de História Social da Cidade. São Paulo, n.2, 2009. Acessar publicação original [DR]

Migração e mão-de-obra: retirantes cearenses na economia cafeeira do Centro-Sul (1877-1901) – GONÇALVES (RBH)

GONÇALVES, Paulo Cesar. Migração e mão-de-obra: retirantes cearenses na economia cafeeira do Centro-Sul (1877-1901). São Paulo: Humanitas, 2006. 246p. Resenha de: LEITE, Rosângela Ferreira. Revista Brasileira de História, São Paulo, v.27, n.54, dec. 2007.

A importância das correntes migratórias e as formas de utilização de diferentes grupos de população nas lavouras do Centro-Sul do Brasil, no momento de crise do cativeiro, são temas recorrentes na historiografia brasileira.

O caso específico da transferência de migrantes cearenses, ainda no século XIX, para utilização nas plantações de café parece-nos, no entanto, um encaminhamento original ao estudo da organização da mão-de-obra no momento de superação da escravidão.

Paulo Cesar Gonçalves, retomando clássicas obras sobre a história do Brasil, enfrentou o desafio de compreender como foi se constituindo um mercado de trabalho no seio de um processo de reorganização econômica, permeado tanto por novas demandas de mercado, quanto pela construção de idéias que dessem suporte aos conteúdos políticos emergentes naquele momento.

Para responder a esses anseios, o autor fez uso de um espectro variado de documentação: por meio de listas da Hospedaria dos Imigrantes, relatórios de presidentes de província, ofícios da Secretaria da Agricultura, mapas estatísticos, livros de registro da Companhia de Vapores, anais do Parlamento e jornais de São Paulo, Rio de Janeiro e Ceará, constrói um quadro explicativo fincado sob os sentidos econômicos da migração dos retirantes cearenses, mas que não despreza, em momento algum, as propostas de civilização encravadas no bojo das medidas apresentadas pelos diferentes protagonistas da cena brasileira do período entre 1877 e 1901.

As secas do Nordeste funcionaram como um elemento desencadeador da expulsão dos cearenses de seus espaços originais, dos inchaços de cidades como Fortaleza e das conseqüentes medidas de envio desses livres pobres para o Centro-Sul. Os retirantes, no contexto de estiagem alarmante, tornaram-se desprovidos de seus meios essenciais de subsistência, o que garantiu recolocação dessas populações de forma favorável – para setores da elite econômica – em novos espaços produtivos que possuíam demanda por trabalhadores.

Há que se considerar, no entanto, que esse processo não foi linear. A riqueza deste livro encontra-se exatamente na análise que permite compreender as contradições imanentes à utilização dos retirantes e, ao mesmo tempo, a depreciação da importância, por parte de alguns setores dirigentes, desses livres pobres no mercado de trabalho em formação.

Como diferentes grupos econômicos foram se articulando na crise do cativeiro? Como esses grupos poderiam incorporar os cearenses, preservando costumes patriarcais e relações de mando baseadas na violência? Essas são algumas das questões que Paulo Cesar Gonçalves procura discutir por meio desta obra.

Abordar as vicissitudes do processo de organização da mão-de-obra no momento de escravidão agonizante representa enfrentar a problemática sobre os sentidos da (re)elaboração das idéias acerca da Nação no período de declínio tanto do Império, quanto do trabalho escravo. O autor apresenta duas respostas importantes a tais questões. Para ele, a circulação das populações permitiu e, ao mesmo tempo, foi fruto de um processo de proletarização por meio do qual foram se constituindo mãos-de-obra disponíveis. Esse processo favoreceu, efetivamente, a organização dos trabalhadores para os cafezais como fenômeno que se deu fora dos limites geográficos São Paulo. Por esse viés interpretativo, a organização produtiva funcionava como componente central para o emprego adequado de diferentes grupos humanos de acordo com os interesses dominantes à época. Nesta mesma chave explicativa, o trabalho livre e baseado em relações permeadas por salário só pôde se constituir no Brasil pela interlocução entre as necessidades produtivas, variantes a cada momento, e as relações sociais fortemente assentadas na coerção de diferentes grupos de trabalhadores.

O século XX, iniciado pouco após a proclamação da República, recolocou velhos problemas à sociedade brasileira, muitos deles ligados à questão de como gerir contradições latentes às relações de trabalho num mundo de recente passado escravista e completamente dominado pelas relações capitalistas.

As formas e os conteúdos dessas contradições são matéria-prima para os estudos sobre as populações livres pobres. O livro de Paulo Cesar Gonçalves apresenta-se como uma importante referência nesta ceara de debates.

Rosângela Ferreira Leite – Centro de Ciências Humanas, Faculdade de História – Pontifícia Universidade Católica de Campinas (PUC/Campinas). Rodovia Dom Pedro I, km 136, Parque das Universidades. 13086-900 Campinas – SP – Brasil. E-mail: [email protected]

Acessar publicação original

[IF]

Crossing the 49th Parallel: Migration from Canada to the United States, 1900-1930 – RAMIREZ (CSS)

RAMIREZ, Bruno. Crossing the 49th Parallel: Migration from Canada to the United States, 1900-1930. Ithaca & London: Cornell University Press, 2001. 219p. Resenha de: NEIDHARDT, W. W. Canadian Social Studies, v.38, n.2, p., 2004.

Professor Ramirez has provided us with an excellent study of the migration movement from Canada to the United States in the period from 1900-1930. His monograph is clearly a ground-breaking piece of work that fills a major gap in the migration historiography of both countries. It is probably one of the best books on the subject since the excellent but somewhat limited and definitely dated book by Marcus Hansen and John B. Brebner, The Mingling of the Canadian and American Peoples, which was published back in 1940. There does, of course, already exist a considerable body of the published material dealing with the French Canadian migration to the United States during the 19th century. However, the rest of the migration story has received relatively little attention even though about 2.8 million people moved from Canada to the United States from 1840-1940. Approximately two thirds of these emigrants were non-French Canadians. Crossing the 49th Parallel does much to remedy this situation.
However, this is a book that will probably only appeal to someone who specializes in immigration history. I would surmise that most high school students would use this study of Canadian-American cross-border immigration only if they were doing some very specialized research project. The rightful place for Crossing the 49th Parallel seems to be at the post-secondary level of education.

So what will an interested reader find in this book? First of all, Crossing the 49th Parallel is clearly a well-researched book with an almost overwhelming amount of densely packed information. The writing is precise and to the point, although several paragraphs that are more than one page in length could perhaps have been restructured. Within its covers are 19 pages of detailed documentation, 18 Tables of Statistics, several charts, 20 photos, a brief appendix and a very useful index. The book is also carefully structured. There is a good preface in which the author introduces the subject matter; five more or less equally long chapters make up the main body of the monograph. An excellent conclusion rounds out the book.

Chapter 1 is entitled Societies in Motion in Nineteenth Century North America and it provides the necessary background information without which the remaining chapters would seem strangely isolated. In this chapter the author explains how and why Quebec, Ontario and the Maritimes contributed to the enormous population flow into the United States particularly New England, the Great Lakes region and the American Mid-west. He also examines the roles played by agriculture, commerce and industry in this southward movement of peoples.

In Chapter 2, the author examines what he calls The Rise of the Border. He argues that by the end of the 19th century, the Canadian-American border – which once used to be relatively open to cross-border migration – was no longer a mere line drawn by international agreements to mark the end of one national territory and the beginning of another; it had also become a system of controls to prevent the entry of unwanted persons into U.S. territory (p.39). It was the time when numerous inspection points began to sprout all along the Canadian-American border.

Emigration from French Canada to the United States is the title of chapter 3 and the focus here is, of course, the French Canadian migration to the United States, particularly to the New England region. Here the author – who has already written extensively on this generally well-known topic – analyzes the roles played by geographic proximity and economic opportunity in enticing so many French Canadians to leave their homeland and settle down in the petits Canadas that began to appear in many American cities. This French Canadian exodus was, according to Ramirez, largely a farm to city move (p.86) and he presents ample evidence that the presence of kin or fellow villagers(p.75) in many of these American cities served, in fact, as a primary attraction for many French Canadians. He concludes that throughout the first three decades of the new century the majority of French Canadians chose a U.S. location in which they had a member of their immediate family, a relative, or a friend waiting for them (p.76). The author also provides his readers with considerable detail about some of the men, women and children who left during this migration; who they were, from what walks of life they came, and their plans.

The focus of Chapter 4 is Emigration from English Canada: 1900-1930. Once again the same questions are asked: who were the emigrants that went to the United States? Where did they come from? Why did they leave and where did they go? For example, we are told that these emigrants came from various backgrounds and from all walks of life and that Ontario had been the home of most of them – although considerable numbers also came from the Maritimes and the West. They all hoped to find a better way of life south of the border and they made their new homes in nearly all the states of the American republic (p.105). The vast majority of them chose to settle in Massachusetts, New York, Michigan, but some also settled in Washington and California. The number of English-speaking emigrants was considerably larger than their French-speaking counterparts and Ramirez writes that on most days for every French Canadian who emigrated to the United States, two Anglo-Canadians did likewise(p.97). It is interesting to note that English Canadians, once they had settled in the United States, did not develop the same kind of ethnic institutions and did not create the same demographic clusters as their French-speaking counterparts. In fact, Ramirez states, regional dispersion and occupational diversity were the hallmarks of the Anglo-Canadian movement (p.100). Most of the English Canadian emigrants would make their homes in the cities of America and Ramirez gives considerable attention to Detroit because it acted as a continental crossroads of population and labor power (p.111). This chapter also examines some of the difficulties that Canadian emigrants encountered as they tried to cross the border and more often than not were confronted by some very hard-nosed
customs inspectors who had enormous discretionary powers as to who could enter. The migration of English Canadians actually began to slow down by 1927 and not surprisingly, of course, came to a virtual halt with the onset of the Great Depression.

The Remigration Movement from Canada is the fifth and final chapter of the book and it examines in considerable detail how Canada became an important gate through which men and women of all nationalities sought to enter the United States legally and illegally (pp.139-140). In fact, one of the more remarkable statistics found in this chapter is the fact that one in five persons who joined the migration flow from Canada to the United States was someone who had first immigrated to Canada and had resided there for a certain length of time (p.139). According to Professor Ramirez, these remigrants, too, came from all Canadian provinces with Ontario and the western provinces leading the way. Not surprisingly, most of these men and women chose to settle not far from the Canadian-American border with New York, Michigan and Washington becoming the three most prominent destinations. Once again, Ramirez provides his readers with all kinds of statistical detail about these remigrants. One particularly informative section deals with Canada’s Italian community and its participation in the migration movement to the United States in the early years of the 20th century.

There is no question that Crossing the 49th Parallel makes a valuable contribution to the migration historiography of North America. Hopefully it will find its rightful place on the bookshelves and research tables of colleges and universities.

S. Neidhardt – Toronto, Ontario.

Acessar publicação original

[IF]