Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri | Alfredo Miginini (R)

Filosofia e Historia da Biologia 8 Otello Palmieri
Otello Palmieri | Detalhe de capa |

SCOTT The common wind 11 Otello PalmieriLeggendo un lavoro di ricerca spesso ci si trova davanti ai risultati di un processo lungo e complesso in cui la soggettività del ricercatore solo di rado viene messa in risalto. L’impiego di fonti orali all’interno della ricerca storica ha contribuito a far emergere la consapevolezza di dover esplicitare la posizione di chi conduce la ricerca stessa, visto che è proprio l’incontro fra soggettività diverse a produrre le fonti che poi vengono usate [1]. Enrico Pontieri e Alfredo Mignini avevano ben chiaro questo impianto metodologico al momento di iniziare il lavoro che si sarebbe poi tradotto nel libro oggetto di questa recensione. In occasione di una precedente pubblicazione Mignini aveva già avuto modo di riflettere sulle modalità di raccolta e di uso delle fonti orali [2]. Più recentemente, come Pontieri, ha pubblicato un saggio all’interno di un volume sulla storia del Partito comunista italiano a Bologna [3]. Mignini fa parte da anni dell’associazione Storie in Movimento – che, fra le altre cose, pubblica «Zapruder. Rivista di storia della conflittualità sociale» – e in particolare della Redazione Web, di cui è co-coordinatore. Enrico Pontieri collabora con la Fondazione Gramsci-Emilia Romagna per la quale il 24 aprile del 2020 ha curato un appuntamento sulla storia della Resistenza.

Proprio la Resistenza è uno dei temi centrali del libro dei due giovani ricercatori, incentrato sulla storia di Otello Palmieri. Gli autori iniziano il racconto in ordine cronologico, partendo però dal loro punto di vista: dal primo incontro a Bologna con un conoscente di Palmieri, quando l’idea di realizzare un’intervista era già nell’aria ma non aveva ancora assunto un carattere definito, alla scoperta di nuove notizie sulla sua vita. Dopo le prime pagine sappiamo già che Otello Palmieri ha fatto per alcuni mesi il partigiano e che, a guerra finita da alcuni anni, è stato accusato di aver partecipato all’uccisione di un oste nel suo paese in provincia di Bologna, Oliveto. Proprio nel momento in cui la denuncia stava per trasformarsi in un mandato di cattura Palmieri lasciò l’Italia insieme a due suoi compagni per ritornare solo dopo aver ottenuto la sentenza di assoluzione. È proprio la sentenza il primo documento con cui gli autori si misurano: mettono in evidenza i tanti punti ancora poco chiari e iniziano a formulare alcune domande a cui però si può cercare di rispondere solo usando altre fonti, come le interviste allo stesso Palmieri. A questo punto gli autori portano il lettore a Oliveto e poi all’interno della casa di Palmieri a Crespellano, sempre in provincia di Bologna.

Si arriva così all’incontro e alla prima intervista: superata l’iniziale titubanza Palmieri inizia a raccontare, diventando in breve un fiume in piena, con i due autori che faticano a stargli dietro. Spuntano fuori anche due vecchie valigie riportate da Palmieri in Italia dalla Cecoslovacchia e piene di quaderni e di materiali utili. Arrivati a pagina 26 del libro sono già stati toccati i temi più importanti: la Resistenza e l’iscrizione al Partito comunista italiano, l’uccisione dell’oste di Oliveto, l’esilio in Cecoslovacchia, l’assoluzione, il ritorno in Emilia, il nuovo trasferimento in Svizzera. Tante cose, tutte insieme. Gli autori denunciano un certo smarrimento e forse per il lettore è lo stesso.

Decidono quindi di ricominciare da capo, dal 1927, anno della nascita di Otello Palmieri. Si arriva quasi subito a uno dei momenti chiave: il 17 agosto 1944 Palmieri, appena diciassettenne, venne catturato da un gruppo di repubblichini insieme ad altre persone e riuscì a sfuggire grazie all’aiuto di un medico e della sorella infermiera. Una volta tornato in paese si unì alla Resistenza. Gli autori però fanno notare come in alcuni documenti ufficiali Palmieri risulti partigiano già da prima del rastrellamento. È uno dei punti in cui Mignini e Pontieri tirano fuori le discrepanze fra ciò che ascoltano durante le interviste e ciò che risulta da altre fonti come il contenuto delle valigie conservate da Palmieri, documenti giudiziari e pubblicistica. Il pregio del metodo usato è di non arrivare a conclusioni affrettate o nette, mettendo però in evidenza i dubbi e cercando un modo per provare a scioglierli. Gli autori mettono quindi il luce la collaborazione che esisteva fra i partigiani della zona e i giovani del paese già prima del rastrellamento del 1944, soprattutto nel fornire informazioni sulla presenza di soldati tedeschi o repubblichini in zona [4]. La conoscenza reciproca facilitò l’ingresso di Palmieri fra i partigiani dove ottenne anche un nuovo nome, Battagliero (nome di un valzer emiliano e titolo del primo capitolo del volume). Palmieri a quel punto si trovò inserito in un gruppo in cui ci sono anche persone molto più grandi di lui e dei suoi amici: una di queste era Antenore Lanzarini, ucciso il 19 novembre 1944. Alla ricostruzione delle circostanze della morte di Lanzarini e alle due versioni proposte da Palmieri gli autori dedicano alcune delle pagine più interessanti del libro. Palmieri racconta poi dell’inverno del 1944 e dell’ordine del generale statunitense Harold Alexander di sospendere le operazioni belliche su larga scala durante i mesi più freddi dell’anno. Gli autori però non si accontentano e ottengono informazioni sugli spostamenti delle colonne partigiane e su delle azioni volte a recuperare delle armi o del cibo a Oliveto e nelle zone limitrofe. Si arriva quindi al momento che fin dalle prime pagine è sembrato essere una svolta nella vita di Palmieri: i giorni dell’attentato al segretario del Partito comunista italiano Togliatti (14 luglio 1948). Palmieri racconta dell’occupazione del municipio con le armi della Resistenza e il conseguente intervento del Pci di zona che riportò la calma a Oliveto e generò una certa frustrazione fra i militanti: la Rivoluzione non era all’ordine del giorno. Arrivati a questo punto l’oste del paese era già stato ucciso (4 dicembre 1945) ma sarà solo nell’estate del 1949 che Palmieri e altri due suoi compagni finirono per essere vicini all’arresto. La fuga avvenne appena in tempo e, grazie all’aiuto del Partito comunista, Palmieri e gli altri riuscirono a raggiungere la Cecoslovacchia. Una volta arrivato a Praga, Palmieri, come tutti i suoi compagni, dovette cambiare (di nuovo) nome e su indicazione del Partito comunista iniziò a chiamarsi Enrico Grassi, titolo del secondo capitolo del libro.

Qui gli autori ricostruiscono la vita di Palmieri e degli altri italiani costretti a rifugiarsi al di là della Cortina di ferro: l’apprendimento della lingua ceca e la scuola di formazione politica predisposta dal Partito con la conseguente delusione di Palmieri una volta capito che il Partito non li stava facendo studiare per fare la Rivoluzione in Italia, i rapporti con degli emigrati ideologicamente più convinti, la nascita della redazione della trasmissione radiofonica Oggi in Italia, lo stupore di fronte all’epurazione del segretario generale del Partito comunista ceco, Rudolf Slánský [5]. Finita la scuola Palmieri, in controtendenza rispetto alle scelte dei suoi compagni, scelse di iniziare un percorso di formazione professionale e venne impiegato in un’industria meccanica. Nel giro di due anni si trasferì in un’altra città e qui incrociò alcuni ex membri della Volante rossa, ex partigiani di area lombarda fatti scappare dal Pci in Cecoslovacchia per metterli al riparo da accuse di omicidi e di altri reati. Il soggiorno all’estero era però ormai prossimo alla fine: nel settembre del 1953, arrivata la notizia dell’assoluzione, Palmieri tornò in Italia, in apparenza senza esitazioni. Una volta arrivato in Emilia si sposò con Giovanna, la sua fidanzata storica. Sembrava il preludio a una nuova fase di stabilità e invece nel giro di pochi mesi la coppia si spostò di nuovo, questa volta per raggiungere la Svizzera. Gli autori dedicano alla ricostruzione del ritorno in Italia e della scelta di tornare a emigrare un “Intermezzo” in cui cercano di andare oltre la prima risposta data da Palmieri, ossia la necessità di guadagnare una somma per ripagare un debito contratto in occasione del matrimonio. Tramite un gioco di ipotesi e frasi prese dalle interviste i due autori ci restituiscono l’insoddisfazione di Palmieri per l’ipotesi di un «posto» fisso in Italia proposto dal Partito comunista emiliano contrapposto a un «lavoro» da cercare, forse da inventare e poi da praticare in Svizzera [6]. Si arriva così al terzo capitolo, intitolato Otti, diminutivo di Otello in tedesco. Qui la storia di Palmieri si lega a quella dell’emigrazione italiana in Svizzera: Palmieri trova lavoro, è apprezzato anche grazie alla formazione ricevuta in Cecoslovacchia e nel tempo rafforza la sua posizione, anche se nel paese elvetico non tutti vedevano di buon occhio l’arrivo di tanti lavoratori dall’Italia. Finisce per ammirare il paese in cui si è stabilito e nel quale però non rimarrà una volta raggiunta la pensione [7], momento di un nuovo ritorno in Emilia.

Il libro termina con il racconto di una passeggiata degli autori insieme a Palmieri a Oliveto, sui luoghi che sono stati lo scenario di una parte dei fatti descritti nelle pagine precedenti. Proprio nelle ultime righe Mignini e Pontieri riconoscono che diversi punti della storia non sono stati chiariti del tutto, ci sono ancora dei dubbi e non è stato possibile fugarli. Non si è riusciti a chiarire del tutto la vicenda dell’uccisione dell’oste e il ritrovamento di un faldone all’interno dell’archivio del Tribunale di Bologna con le carte del processo proprio nelle settimane di chiusura del lavoro si è scontrato con la quasi indifferenza di Palmieri che ha smorzato l’entusiasmo dei due ricercatori. Rimane il dubbio che in un archivio di Praga ci sia ancora l’autobiografia che al momento dell’arrivo in Cecoslovacchia il Partito comunista chiedeva agli emigrati di scrivere. Resta soprattutto il rammarico per un diario smarrito da Palmieri al ritorno dalla Cecoslovacchia. Rimangono poi altri punti non chiariti, altre strade non prese, altre domande non fatte o delle risposte non approfondite. Questo però è ciò che accade in ogni ricerca storica, anche se non sempre viene esplicitato e il lettore quindi può non accorgersene. Pontieri e Mignini si sono messi invece in gioco fin dalla prime pagine e, condividendo con il lettore la storia della ricerca e mettendo in mostra i limiti della stessa, hanno finito per scrivere un ottimo libro di metodo, godibile anche dal punto di vista narrativo.

Notas

1 PORTELLI, Alessandro, Problemi di metodo. Sulla diversità della storia orale, in BERMANI, Cesare (a cura di), Introduzione alla storia orale, vol. I, Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, Roma, Odradek, 1999, pp. 149-166 (in particolare, pp. 160-161). Il contributo è stato originariamente pubblicato in Primo maggio, Saggi e documenti per una storia di classe, 13, 1979, pp. 54-60.

2 MIGNINI, Alfredo, Un lavoro da non sfruttare nessuno. Storie di vita dalla periferia di Bologna, Roma, Aracne, 2016. Si veda in particolare la parte introduttiva in cui l’autore riflette sull’uso delle fonti orali.

3 CAPUZZO, Paolo (a cura di), Il Pci davanti alla sua storia: dal massimo consenso all’inizio del declino. Bologna 1976, Roma, Viella, 2019.

4 MIGNINI, Alfredo, PONTIERI, Enrico, Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri, Bologna, Pendragon, 2019, p. 43.

5 Ibidem, p. 102.

6 Ibidem, p. 138.

7 Ibidem, p. 166.

Alessandro Stoppoloni (Roma, 1989) è un archivista libero professionista. Si è laureato in scienze storiche nel 2015 nell’ambito del corso integrato italo-tedesco organizzato dall’Università di Bologna e da quella di Bielefeld con una tesi dal titolo Fra teoria e pratica: la psicologia politica di Peter Brückner (1966-1978). Per «Diacronie» si occupa di recensioni e cura saltuariamente le traduzioni dalla lingua tedesca.


MIGININI, Alfredo; PONTIERI, Enrico. Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri. Bologna: Pendragon, 2019, 222p. Resenha de: STOPPOLONI, Alessandro. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.45, n1, mar. 2021. Acessar publicação original [IF].

#ODIO. Manuale di resistenza alla violenza delle parole | Federico Faloppa (R)

Filosofia e Historia da Biologia 10 Otello Palmieri
Federico Falopa | Foto: Piano P |

SCOTT The common wind 13 Otello PalmieriIl tema dei discorsi d’odio ha oramai una consolidata tradizione di studi, in particolare in campo sociale e giuridico [1]. Quel che appare realmente nuovo nel panorama degli hate speech è la pervasività e la rapidissima diffusione di questi stessi per effetto della diffusione che viene oggi consentita ai messaggi d’odio dai social network. È in questo contesto che si inserisce il libro del linguista Federico Faloppa [2], professore di Italian Studies and Linguistics all’Università di Reading, dedicato proprio al tema dei discorsi d’odio e alla loro proliferazione sul web. L’autore ci offre una prima, parziale, risposta agli interrogativi “Perché questo è avvenuto e perché si è verificato in questi termini”:

Usiamo in modo interconnesso i social media come strumento di supporto alle nostre reti sociali, di espressione della nostra identità e di analisi dell’identità altrui. Nel giro di pochi anni è decisamente cambiato il nostro approccio al mezzo, il senso della nostra comunicazione, il modo in cui produciamo i nostri messaggi. E questo – va da sé – vale anche per i messaggi che veicolano odio[3].

Il manuale, come viene definito il volume dall’autore nel sottotitolo, è diviso in cinque sezioni. La prima di esse (capp. 1 e 2) è dedicata a cercare di tratteggiare il significato di hate speech: una definizione che, sottolinea Faloppa, rimane problematica. Quella fornita dal Consiglio d’Europa può tuttavia costituire una base di partenza:

l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo, e comprende la giustificazione di queste varie forme di espressione, fondata su una serie di motivi, quali la “razza”, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale [4].

Per un ulteriore schema interpretativo utile a classificare i discorsi d’odio, Faloppa ci invita a guardare alla Pyramid of Hatred proposta dalla Anti-Defamation League e dallo Shoah Foundation Institute della California all’inizio del XXI secolo: in questa rappresentazione l’espressione di sentimenti negativi può giungere sino, al vertice della piramide, alla volontà di sterminio deliberata e sistematica, ultimo stadio prima della traduzione in realtà e pratiche concrete dell’hate speech. Dal punto di vista storico il secondo capitolo, “Genealogie”, ci aiuta a comprendere come ci troviamo di fronte a un fenomeno di lungo periodo: se è nella seconda metà dell’Ottocento che prende avvio lo studio sistematico delle espressioni offensive e discriminanti nei confronti di altri popoli, è di un secolo più tardi l’istituzione di strumenti volti a limitare il razzismo linguistico.

La seconda sezione (capp. 3 e 4) si sofferma invece sul quadro normativo e offre al lettore una vista d’insieme. Uno dei meriti principali del volume è infatti quello di analizzare in prospettiva comparata la situazione di diversi paesi, argomentando le ragioni per cui i legislatori hanno preferito muoversi in un senso estremamente permissivo – ad esempio, negli Stati Uniti, dove questo atteggiamento ha originato un vasto dibattito [5] – o ponendo maggiori limiti, come è avvenuto in Europa [6]. Si ha così l’opportunità di contestualizzare la situazione italiana confrontandola, ad esempio, con quella britannica, tedesca o francese. Quel che emerge è una pluralità di risposte, in cui molto spesso il risultato finale in termini normativi è frutto di una mediazione fra l’esigenza di intervenire e la tradizione culturale del singolo paesi in termini di libertà di espressione. L’equilibrio è sempre sottile perché, almeno nel caso italiano: «Quando […] l’espressione è discriminante, insultante, diffamante o quando sfocia in un’azione delittuosa può – deve – conoscere restrizioni, previste dalla legge» [7].

La terza sezione (capp. 5, 6 e 7) “Hate speech 2.0” ritorna sulla questione degli interventi normativi nel campo del discorso d’odio, in particolare sul web. È qui che troviamo il nucleo dell’analisi di Faloppa. Per comprendere il fenomeno l’autore si sofferma su due caratteristiche: da una parte la “virtualità” dell’hate speech, dall’altra la sua viralità. La mancanza di un rapporto diretto fra chi offende e chi viene offeso impedisce di prendere atto degli effetti innescati dall’espressione di odio: un meccanismo che genera un processo di progressiva deresponsabilizzazione. Deresponsabilizzazione che è anche alla base dell’atteggiamento di una parte della politica, che cavalca le espressioni d’odio per costruire il suo consenso e assicurarsi un tornaconto elettorale, come Faloppa evidenzia a più riprese [8]. Inoltre la viralità del messaggio – e la sua permanenza – creano effetti perniciosi, in grado di dar luogo a effetti duraturi e difficilmente reversibili perché replicabili e moltiplicabili quasi all’infinito, in un effetto “camera dell’eco”. L’odio, inoltre, sottolinea Faloppa, si dissemina in forma individuale e con maggior facilità, quasi per effetto di un riflesso condizionato, secondo la logica del re-post.

La quarta sezione (capp. 8, 9) è quella in cui emerge la forza dell’analisi di Faloppa, che tratteggia un’analisi quantitativa, ma soprattutto qualitativa del discorso d’odio sul web in Italia. Lo sguardo viene così spostato anche sui sotterfugi impiegati per veicolare messaggi d’odio: i grafismi, l’utilizzo di scritte apparentemente non offensive o persino l’impiego di alcuni font. Un tema che rappresenta un filone assai prolifico, come dimostrano recenti analisi, ad esempio, sui meme [9].

Gli ultimi capitoli del manuale (10, 11 e 12) sono invece dedicati al contrasto degli hate speech, alle strategie da impiegare. Faloppa, da linguista, osserva come sarebbe necessario guardare.

[…] proprio alle modalità – che passano attraverso il linguaggio e la sua dimensione pragmatica – si dovrebbe forse guardare con più attenzione. Non tanto lo studio dei possibili profili quanto l’analisi dei comportamenti e delle modalità in cui i messaggi d’odio vengono prodotti e diffusi mi sembra infatti offrire un approccio più funzionale e aderente alla realtà […] [10]

L’autore suggerisce di distinguere fra troll e odiatori seriali, odiatori occasionali e semplici follower: discriminare il profilo di chi sta esprimendo un sentimento negativo è utile perché sulle ultime categorie di haters è possibile agire, sostiene Faloppa, nell’intento di interrompere la spirale dell’odio.

Una considerazione non dissimile da quella sviluppata da Littler e Kondor riguardo all’islamofobia.

We also highlight the role that can be played by civil society organisations, in particular identifying the potential for social and economic pressure to be exerted against mainstream media forums promoting islamophobia, and for micro-targeting to be employed on social media to reach and challenge those who are most at risk of engaging in Islamophobic hate crime [11].

Il volume – come specifica l’autore – è largamente ispirato dalla riflessione collettiva sorta intorno al Tavolo per il contrasto ai discorsi d’odio: si può in qualche modo considerare come un manuale engagé, come dimostra proprio la quinta parte, più espressamente dedicata alle strategie da mettere in campo per contrastare i discorsi d’odio. Una parte dell’analisi che viene sviluppata è però un utile strumento anche per gli storici. Di fronte al fenomeno dell’hate speech diventa essenziale dotarsi degli strumenti cognitivi e interpretativi giusti per potersi orientare: se da una parte il tema del quantitativo si innesta su quello di lungo periodo dei discorsi d’odio [12], dall’altra per ogni studioso di scienze sociali diviene una necessità confrontarsi e gestire grandi quantità di dati [13].

Faloppa rimarca infine la labilità del confine fra discorso e crimine d’odio:

Spesso si sente dire – da chi vuole minimizzarne la portata – che il discorso d’odio è molto diverso dal crimine d’odio per il fatto che in un caso si tratta solo di parole (‘ma che cosa vuoi che sia’, ‘stavo scherzando’, ‘e che sarà mai, sono solo parole’), nell’altro di un atto di discriminazione vera e propria, o di un’aggressione fisica, che sarebbe cosa ben più grave al punto da condurre alla probabile istruttoria di un procedimento penale. Ma la differenza tra hate speech e hate crime, come sappiamo, è prevalentemente giuridica. […] Non si tratta tanto di ribadire – con John L. Austin e la sua «teoria degli atti linguistici» – che con le parole non solo si dice, ma si fa qualcosa. Si tratta piuttosto di considerare quale peso abbia l’hate speech tanto a livello individuale quanto a livello collettivo, colpendo indirettamente tutto il gruppo di cui fa o potrebbe far parte la persona aggredita. Si tratta di capire quali sono le sue conseguenze reali: nel breve, medio e lungo periodo [14].

Gestire questa mole di informazioni e saper individuare le linee di faglia su cui si muovono i sentimenti – grazie ai social media – è un’opportunità che si offre agli storici di oggi: sarà fondamentale, negli anni a venire costruire competenze e metodologie in grado di riuscire a raffinare l’indagine sociale. In questo senso libri come #Odio potranno rivelarsi non solo manuali per la resistenza, ma anche per la costruzione di una consapevolezza condivisa.

Notas

1. Cfr., tra gli altri: MATSUDA, Mari et al. (eds.), Words That Wound: Critical Race Theory, Assaultive Speech, and the First Amendment, Boulder (CO), Westview Press, 1993; HERZ, Michael, MOLNAR, Peter (eds.), The Content and Context of Hate Speech. Rethinking Regulation and Responses, New York, Cambridge University Press, 2012. In ambito storico gli studi si sono sinora concentrati sul tema del negazionismo, intimamente legato al tema del discorso d’odio.

2. Tra le pubblicazioni dell’autore sul tema del razzismo e dei discorsi d’odio: FALOPPA, Federico, : f mu z n d “d v ”, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000; ID., Parole contro: la rappresentazione d “d v ” n ngu n n d , Milano, Garzanti, 2004; ID., Razzisti a parole (per tacer dei fatti), Roma-Bari, Laterza, 2011; ID., n un : ng n d un n , Roma, Aracne, 2013.

3. [libro digitale: epub] FALOPPA, Federico, #ODIO. Manuale di resistenza alla violenza delle parole, Torino, UTET, 2020, cap. 6 “Tutta colpa della rete?”, par. “Odio onlife”.

4. Ibidem, cap. 1 “Definire il discorso d’odio”, par. “Una definizione di partenza”.

5. Cfr. fra gli altri: DELGADO, Richard, STEFANCIC, Jean, Must We Defend Nazis? Why The First Amendment Should Not Protect Hate Speech And White Supremacy, New York, New York University Press, 2018.

6. Si veda ad esempio la vicenda di Geert Wilders: HOWARD, Erica, Freedom of Expression and Religious Hate Speech in Europe, London – New York, Routledge, 2018, pp. 138-165.

7. [libro digitale: epub] FALOPPA, Federico, #ODIO, cit., cap. 4 “Il caso italiano”, par. “Alcune certezze e molti dubbi”.

8. Cfr. Le analisi sui tweet e i post di Matteo Salvini: ibidem, cap. 9 “Oltre il lessico”, par. “Noi, loro”.

9. TUTEN, Marc, HAGEN, Sal, «(((They))) rule: Memetic antagonism and nebulous othering on 4chan», in new media & society, 22, 12/2020, pp. 2218-2237.

10. [libro digitale: epub] FALOPPA, Federico, #ODIO, cit., cap. 11 “L’incognita delle emozioni”, par. “Haters and Co.”.

11. LITTLER, Mark, KONDOR, Kathy, Terrorism, h h nd ‘ umu v x m m’ n F k: udy, in ZEMPI, Irene, AWAN, Imran (eds.), The Routledge International Handbook of Islamophobia, London – New York, Routledge, 2019, pp. 374-384, p. 382.

12. Cfr. ad esempio: FINKELSTEIN, Joel, ZANNETTOU, Savvas, BRADLYN, Barry, BLACKBURN, Jeremy, «A Quantitative Approach to Understanding Online Antisemitism», in Arxiv.org, 5 settembre 2018, URL: < arXiv:1809.01644v1 > [consultato il 27 febbraio 2021].

13. SALGANIK, Matthew J., Bit by bit. L n ’ d g , Bologna, Il Mulino, 2020.

14. [libro digitale: epub] FALOPPA, Federico, #ODIO, cit., cap. 12 “Il bisogno di reagire”, par. “Dalla parte delle vittime”.

Jacopo Bassi ha conseguito la Laurea Triennale in «Storia del mondo contemporaneo» presso l’Università di Bologna sostenendo una tesi in Storia e istituzioni della Chiesa ortodossa dal titolo Tra Costantinopoli e Atene: Il passaggio delle d d ’E ’ mm n z n d Ch d G ‘P x ’ d 1928; presso lo stesso ateneo, nel 2008, ha discusso la tesi specialistica in Storia della Chiesa dal titolo Epiro crocifisso o liberato? La Chiesa ortodossa in Epiro e in Albania meridionale nel XX secolo (1912-1967). Attualmente collabora con le case editrici Il Mulino e Zanichelli. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Bassi >


FALOPPA, Federico FALOPPA. #ODIO. Manuale di resistenza alla violenza delle parole. Torino: UTET, 2020, 291p. Resenha de: BASSI, Jacopo. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, n.45, v.1, mar. 2021. Acessar publicação original [IF].

US public diplomacy in socialist Yugoslavia 1950-70. Soft culture cold partners | Carla Konta (R)

Filosofia e Historia da Biologia 9 Otello Palmieri
Carla Konta | Foto: Narod HR |

SCOTT The common wind 12 Otello PalmieriDalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, un numero crescente di studi ha affrontato il tema delle relazioni internazionali da una prospettiva diversa, non limitata alla dimensione della diplomazia tradizionale, ma diretta ad esaminare aspetti in precedenza trascurati, relativi ad esempio all’uso della cultura come strumento per promuovere l’immagine di un paese all’estero e quindi come risorsa essenziale nell’ambito della politica internazionale. La public diplomacy, insieme al soft power di cui questa rappresenta una delle principali espressioni, è così diventata la protagonista di un ricco filone di ricerche, animato in gran parte dalla storiografia anglosassone. Facendo spesso riferimento ai noti lavori di Joseph Nye, numerosi ricercatori hanno sviluppato su diversi versanti geografici e cronologici il tema del soft power, declinandolo principalmente attraverso la prospettiva della diplomazia culturale o, appunto, della public diplomacy, il cui rapporto con la cultural diplomacy è stato interpretato in modo non sempre univoco [1]. Una parte importante degli studi prodotti si è occupata, prevedibilmente, anche se non in modo esclusivo, del caso statunitense nel periodo della Guerra fredda: a tale proposito, il soft power, la diplomazia culturale e la public diplomacy erano visti come indispensabili risorse a disposizione della superpotenza americana per aumentare la propria influenza all’estero soprattutto in funzione di contenimento e contrasto dell’Unione Sovietica [2].

È in questa cornice che si colloca il volume di Carla Konta, ricercatrice formatasi alle Università di Fiume (Croazia) e Trieste, che ha già dedicato diversi studi in particolare alle relazioni fra Stati Uniti e Jugoslavia socialista, da una prospettiva spesso metapolitica, interessata in special modo alla dimensione culturale e all’interazione di idee e ideologie nella proiezione di una determinata immagine degli USA in Europa [3]. Il filo conduttore del volume, che analizza i rapporti fra Stati Uniti e Jugoslavia dal 1950 al 1970, è il soft power esplicato dalla public diplomacy statunitense nelle sue diverse articolazioni, ma in modo particolare l’azione esercitata dalle due agenzie protagoniste della propaganda culturale americana in Jugoslavia, l’USIA (United States Information Agency), che elaborava le linee strategiche da Washington, e l’USIS (United States Information Service), che operava sul territorio jugoslavo. Il volume fa in parte riferimento al filone di studi, ben rappresentato dalla storica serba Radina Vučetić, relativo al «Coca-Cola Socialism», ovvero alle modalità dell’adozione di alcuni aspetti del consumismo occidentale e in particolare americano nel contesto della Jugoslavia socialista, soprattutto negli anni Sessanta [4].

Il terminus a quo temporale da cui muove l’indagine è l’espulsione della Jugoslavia di Tito dal Cominform nel giugno del 1948 e il conseguente avvicinamento agli Stati Uniti, il cui obiettivo sarà, specialmente nella fase più acuta della Guerra fredda, durante le amministrazioni Truman e Eisenhower, di sostenere la Jugoslavia in funzione antisovietica [5]. Gli Stati Uniti però non si limitarono a supportare il regime di Belgrado dal punto di vista finanziario e militare, ma avviarono un’articolata politica di public diplomacy nel paese socialista, allo scopo di trasmettere una certa immagine dell’occidente filtrato attraverso il prisma dell’american way of life. Non si trattava di un compito semplice, perché la macchina del soft power doveva dimostrare la superiorità del modello americano, rappresentato sostanzialmente dal connubio fra libertà politiche e libertà economiche, senza tuttavia criticare direttamente il modello opposto, quello del socialismo pianificato. Condivisibile è l’impostazione del volume, per cui le attività di public diplomacy, che avevano effettivamente finalità di carattere propagandistico – portate avanti in modo spesso indiretto e allusivo – non possono essere sbrigativamente e superficialmente ridotte ad una manifestazione dell’imperialismo americano. Si trattava piuttosto di un delicato gioco delle parti fondato su un complesso equilibrio, per cui gli Stati Uniti tentavano di fare leva sulla diversità jugoslava e sulla sua peculiare collocazione internazionale per attirare a sé, per mezzo degli strumenti della cultura, la società e parti dell’intelligencija e della classe politica più giovane e aperta alle novità che giungevano d’oltreoceano. D’altra parte, la Jugoslavia accettava le attività americane in quanto aveva bisogno dell’appoggio di Washington e poiché teneva a dimostrare all’occidente le proprie peculiarità – l’autogestione, il «socialismo dal volto umano» –, che la distinguevano dal conformismo filosovietico dei paesi del «socialismo reale».

Tramite un approfondito lavoro di ricerca condotto principalmente negli archivi americani, serbi e croati e basato inoltre su un’ingente mole di documenti diplomatici editi, su una serie di interviste e sulla consultazione di periodici e letteratura specialistica, Carla Konta ricostruisce in modo puntuale e dettagliato l’evoluzione della public diplomacy americana in Jugoslavia, attraverso sei capitoli, più l’introduzione e la conclusione, in cui vengono analizzati tutti gli strumenti impiegati dalla propaganda culturale americana. Fra questi strumenti, gestiti dagli uffici dell’USIS attivi in Jugoslavia, vi erano le biblioteche americane, la distribuzione di riviste quali «Life», «Time», «Newsweek», oltre a riviste di moda – si scopre fra l’altro che degli abbonati alla stampa americana vivevano anche nei piccoli centri di campagna –; inoltre, la diffusione di musica americana (la sound diplomacy), attraverso le trasmissioni radio di Voice of America. L’atteggiamento delle autorità jugoslave era mutevole, per cui pur permettendo l’esplicarsi delle attività culturali americane, a volte si tendeva a stringere le maglie, ad esempio nei momenti di maggiore tensione internazionale, quando più forti erano le pulsioni antioccidentali alimentate dalla propaganda governativa: nel 1953-54 per la questione di Trieste o, successivamente, durante la guerra del Vietnam [6].

Uno dei maggiori pregi del volume di Carla Konta è proprio quello di evidenziare l’ambivalenza del rapporto fra Stati Uniti e Jugoslavia sul piano delle relazioni culturali: se da un lato ad esempio i film e le canzoni americane ebbero un grande successo – Tito stesso amava i film western e apprezzava la musica jazz e rock [7] –, dall’altro le autorità diffidavano di quel crescente successo in ampli strati della popolazione e in modo particolare fra gli studenti e gli intellettuali. L’appeal esercitato dagli Stati Uniti interessava gruppi sociali variegati: ad esempio, le donne che alla fiera americana di Zagabria potevano ammirare gli elettrodomestici di ultima generazione e i supermercati american style o gli studenti che grazie alle borse Fulbright o della Ford Foundation potevano entrare in contatto con gli ambienti più dinamici del mondo culturale e universitario statunitense.

Proprio il fatto che la Jugoslavia fosse una realtà socialista diversa e più aperta rispetto ai regimi comunisti dell’Europa orientale implicava quindi una maggiore possibilità di penetrazione dell’influenza americana – in particolare dal punto di vista culturale –, ma questo fatto a sua volta portava ad alimentare la diffidenza di una parte dei funzionari di partito per un’attività che minacciava di influenzare in senso filo-occidentale e anticomunista particolarmente le giovani generazioni. Tuttavia – sottolinea a ragione l’autrice – nonostante i dibattiti di carattere ideologico che caratterizzavano la parte più ortodossa del partito sull’incompatibilità fra marxismo e consumismo occidentale, era pur vero che proprio il consumismo, cui guardava l’economia di mercato socialista varata in Jugoslavia alla metà degli anni Sessanta, rendeva il modello americano particolarmente interessante agli occhi del regime di Tito. Non a caso, i primi supermarket aperti in Jugoslavia fra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta – la «supermarket revolution» di cui parlava Dennison Rusinow [8] – si ispiravano precisamente a quel modello. Dopotutto, probabilmente fu in gran parte l’adozione dei paradigmi consumisti occidentali e quindi il raggiungimento di un relativo benessere, specialmente se paragonato agli standard di vita medi del «socialismo reale», ad aver consentito alla Jugoslavia di vantare, fra gli anni Sessanta e Settanta, una coesione interetnica che la crisi degli anni Ottanta avrebbe compromesso, dando il via alla dinamica che avrebbe successivamente portato all’implosione degli anni Novanta, lungo le linee di frattura dei contrapposti nazionalismi [9].

I rischi insiti nell’uso della categoria euristica del soft power, fra cui quello di sopravvalutare gli effetti della public diplomacy o della diplomazia culturale sulle realtà cui si rivolgono, sono evidenti [10]; d’altra parte, è necessario tener presente l’osservazione di Joseph Nye, secondo il quale lo scopo del soft power è di creare determinate condizioni che possono essere poi sfruttate sul piano politico, benché i concreti risultati politici delle attività culturali non siano agevolmente quantificabili [11]. Ad esempio, nel volume si evidenzia come molti importanti esponenti della dissidenza jugoslava, riunitisi fra gli anni Sessanta e Settanta intorno alla rivista «Praxis», avessero trascorso soggiorni di studio negli Stati Uniti, entrando così in contatto con pensatori marxisti quali Herbert Marcuse e Howard Parsons, che fra l’altro avevano a loro volta partecipato a un’edizione della scuola estiva organizzata dalla rivista sull’isola dalmata di Curzola [12]. Ma in quale misura questi e altri contatti fra intellettuali jugoslavi ed esponenti della cultura americana possano aver contribuito ad orientare i primi verso il dissenso politico non è dato appurare. Carla Konta dimostra di essere ben consapevole delle cautele epistemologiche indispensabili nel momento in cui ci si accosta a categorie concettuali quali il soft power e la public diplomacy, rendendo anche per questo motivo convincente l’impianto metodologico del suo lavoro, che contribuisce decisamente ad arricchire le nostre conoscenze sulla “diplomazia informale” statunitense nella Jugoslavia socialista.

Notas

1. SCHNEIDER, Cynthia P., «Cultural Diplomacy: Hard to Define, but You’d Know It If You Saw It», in The Brown Journal of World Affairs, XIII, 1/2006, pp. 191-203; GOFF, Patricia M., Cultural Diplomacy, in COOPER, Andrew F., HEINE, Jorge, THAKUR, Ramesh (edited by), The Oxford Handbook of Modern Diplomacy, Oxford, Oxford University Press, 2013, pp. 419-435; MELISSEN, Jan, Public Diplomacy, cit., pp. 436-452.

2. NYE, Joseph S., Soft Power. The Means to Success in World Politics, New York, Public Affairs, 2004; MELISSEN, Jan, The New Public Diplomacy. Soft Power in International Relations, London, Palgrave Macmillan, 2005; GRAHAM, Sarah Ellen, Culture and Propaganda. The Progressive Origins of American Public Diplomacy, 1936-1953, London-New York, Routledge, 2016; HART, Justin, Empire of Ideas. The Origins of Public Diplomacy and the Transformation of US Foreign Policy, Oxford-New York, Oxford University Press, 2013; GIENOW-HECHT, Jessica C.E., DONFRIED, Mark C. (edited by), Searching for a Cultural Diplomacy, New York-Oxford, Berghahn Books, 2010; CUMMINGS, Milton C., Cultural Diplomacy and the United States Government. A Survey, Washington D.C., Centre for Artists and Culture, 2003.

3. Ad esempio: KONTA, Carla, Eleanor Roosevelt in Yugoslavia Between Wedge Strategy and Cold War Internationalism, in FAZZI, Dario, LUSCOMBE, Anya (edited by), Eleanor Roosevelt’s Views on Diplomacy and Democracy. The Global Citizen, London, Palgrave Macmillan, 2020, pp. 65-82; ID., Nice to Meet You, President Tito… Senator Fulbright and the Yugoslav Lesson for Vietnam, in SNYDER, David J., BROGI, Alessandro, SCOTT-SMITH, Giles (edited by), The Legacy of J. William Fulbright: Policy, Power, and Ideology, Lexington, University Press of Kentucky, 2019, pp. 241-260.

4. VUČETIĆ, Radina, Coca-Cola Socialism. Americanization of Yugoslav Culture in the Sixties, Budapest-New York, Central European University Press, 2017 [ed. or.: 2012].

5. LEES, Lorraine M., Keeping Tito Afloat. The United States, Yugoslavia, and the Cold War, University Park (PA), Pennsylvania State University Press, 2005.

6. SLUGA, Glenda, The Problem of Trieste and the Italo-Yugoslav Border. Difference, Identity, and Sovereignty in Twentieth-Century Europe, New York, SUNY Press, 2001; MARK, James, APOR, Péter, VUČETIĆ, Radina, OSEKA, Piotr, «‘We Are with You, Vietnam’: Transnational Solidarities in Socialist Hungary, Poland and Yugoslavia», in Journal of Contemporary History, L, 3/2015, pp. 439-464; VUČETIĆ, Radina, «Yugoslavia, Vietnam War and Antiwar Activism», in Tokovi istorije, 2/2013, pp. 165-180.

7. KONTA, Carla, US public diplomacy in socialist Yugoslavia, 1950-70. Soft culture, cold partners, Manchester, Manchester University Press, 2020, pp. 64, 95.

8. RUSINOW, Dennison, Yugoslavia. Oblique Insights and Observations, essays selected and edited by Gale STOKES, Pittsburgh (PA), University of Pittsburgh Press, 2008, pp. 26-41.

9. LUTHAR, Breda, PUŠNIK, Maruša (edited by), Remembering Utopia: The Culture of Everyday Life in Socialist Yugoslavia, Washington, New Academia Publishing, 2010; PATTERSON, Patrick Hyder, Bought and Sold: Living and Losing the Good Life in Socialist Yugoslavia, Ithaca, Cornell University Press, 2011.

10. Ad esempio si veda KEARN, David W., «The hard truths about soft power», in Journal of Political Power, IV, 1/2011, pp. 65-85.

11. Cit. in KONTA, Carla, US public diplomacy in socialist Yugoslavia, 1950-70, cit., p. 171.

12. Ibidem, pp. 157-158.

Stefano Santoro è ricercatore (RTDb) in Storia dell’Europa Orientale al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste, con abilitazione scientifica nazionale come professore associato. Fra le sue pubblicazioni: L’Italia e l’Europa orientale. Diplomazia culturale e propaganda 1918-1943 (Milano, FrancoAngeli, 2005), Dall’Impero asburgico alla Grande Romania. Il nazionalismo romeno di Transilvania fra Ottocento e Novecento (Milano, FrancoAngeli, 2014); a curato, con F. Zavatti, Clio nei socialismi reali. Il mestiere di storico nei regimi comunisti dell’Europa orientale (Milano, Unicopli, 2020).


KONTA, Carla. US public diplomacy in socialist Yugoslavia, 1950-70. Soft culture, cold partners. Manchester: Manchester University Press, 2020, 193p. Resenha de: SANTORO, Stefano. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.45, n.1, mar. 2021. Acessar publicação original [IF].

Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale | Maria Luisa di Felice (R)

Filosofia e Historia da Biologia 11 Otello Palmieri
Maria Luisa di Felice | Foto: FG |

SCOTT The common wind 14 Otello PalmieriMaria Luisa Di Felice, ricercatrice universitaria in Storia contemporanea presso la Facoltà di Studi umanistici dell’Università di Cagliari, oltre ad avere all’attivo una vastissima produzione scientifica e un percorso formativo e professionale in lettere e archivistica, dal 2009 è responsabile scientifico del progetto di ricerca su «Renzo Laconi, il politico e l’intellettuale. Studio e valorizzazione del pensiero e dell’opera». Un progetto di ricerca che ha realizzato l’obiettivo di recuperare, riordinare e inventariare l’archivio privato di Laconi, portando alla luce la rilevanza nazionale del suo contributo intellettuale e politico negli anni di attività all’Assemblea Costituente e alla Camera dei Deputati. Nel corso di tali ricerche, Di Felice ha pubblicato alcune prime monografie: Renzo Laconi. Per la Costituzione. Scritti e discorsi (2010) e Renzo Laconi, la formazione intellettuale e politica. Dagli anni giovanili alla nascita della Repubblica (2011) [1]. Il volume edito nel 2019 da Carocci – articolato in quindici capitoli e 685 pagine – «ha assorbito in sé anche i due precedenti» [2] e rappresenta l’ultima tappa di un lavoro biografico monumentale, corredato da fotografie e disegni realizzati dallo stesso Laconi, a coronamento di una esaustiva biografia intellettuale e politica sull’esponente comunista sardo. La messa a disposizione dell’archivio privato di Laconi e della sua biblioteca[3] ha contribuito in maniera determinante alla realizzazione dello studio. In particolare, il suo archivio personale – conservato presso la Fondazione Gramsci di Roma – rappresenta un’eredità politica e culturale ricchissima, con i suoi oltre cento Quaderni, definiti come un autentico «archivio nell’archivio». Laconi infatti aveva l’abitudine di annotare le proprie riflessioni, organizzandone in maniera sistematica la conservazione. Tra le fonti complementari si annoverano i fondi non ancora sufficientemente esplorati, come quelli del Gruppo parlamentare del Pci e del Consiglio regionale della Sardegna, accanto ad altri più noti (ad esempio: le carte della Direzione del Pci e dell’Archivio storico della Camera dei deputati). Il volume concretizza l’obiettivo di integrare le diverse opere parziali pubblicate nel corso degli anni [4], fornendo un quadro d’insieme, una visione organica di una biografia intellettuale e politica. I primi capitoli sono dedicati all’infanzia di Laconi a Sant’Antioco (CA), agli anni giovanili e universitari vissuti a Cagliari, dove si laurea in filosofia; al periodo in cui è insegnante a Firenze, all’adesione al Pci nel 1942 e all’esperienza come caporale nell’esercito dal 1943. Il libro si sofferma sul periodo di intenso impegno politico per la ricostruzione del Partito comunista nell’isola, all’indomani della caduta del fascismo: sul ruolo di segretario di federazione a Sassari e sulla partecipazione ai lavori della Consulta regionale sarda. L’opera sottolinea con precisione come il percorso di Laconi sia marcato al contempo dalla scelta di Gramsci come maestro, come guida intellettuale e umana [5], e dalla spiccata sintonia politica con la linea togliattiana. Eletto appena trentunenne all’Assemblea costituente (incarico per cui, nonostante la sua attenzione e sensibilità al movimento dei minatori del Sulcis-Iglesiente [6], lascia la fascia di Sindaco di Carbonia a Renato Mistroni), Laconi partecipa alla Commissione dei 75 nonché ai lavori del comitato di redazione, detto «dei 18», che materialmente ha il compito di tradurre le discussioni, svolte nell’Assemblea e nelle tre sottocommissioni, in puntuali enunciati normativi. Tale esperienza – sottolinea a giusto titolo Di Felice – rappresenta «la chiave di volta del suo percorso politico e intellettuale» [7]. Laconi contribuisce in maniera significativa e originale all’elaborazione della Costituzione italiana, facendosi portatore di idee innovative sul regionalismo e sulle tematiche autonomistiche, rivelatesi anticipatrici anche rispetto alla cultura politica del proprio partito. Dopo l’invito rivolto nell’aprile 1945 da Palmiro Togliatti ai «compagni sardi […] a comprendere che non devono avere nessuna paura di essere loro gli autonomisti, perché l’autonomia è una rivendicazione democratica rispondente agli interessi del popolo sardo» [8], Laconi è tra i pochi comunisti insulari a raccogliere l’esortazione del segretario nazionale, nonostante la posizione ferma e indifferente del Pci isolano. La linea autonomista del Pci diventa netta in seguito all’estromissione dei comunisti dalla coalizione di governo nazionale: nel 1947, sostiene Sircana, il partito diventa «paladino del decentramento regionale, considerandolo un fattore di equilibrio democratico perché avrebbe assicurato all’opposizione la possibilità di accesso alla direzione politica di ampie zone dell’Italia» [9]. La svolta in Sardegna è sancita dal II Convegno regionale dei quadri, tenutosi a Cagliari il 25 e 26 aprile 1947, in presenza del segretario Togliatti. È in questa fase che all’Assemblea costituente Laconi sostiene l’«apertura verso l’ordinamento regionale, purché non di tipo federale né omogeneo su tutto il territorio nazionale; differenziazioni tra le regioni; ostilità verso la frammentazione della potestà legislativa; ampia autonomia a Sardegna, Sicilia e regioni di confine con potestà legislativa primaria su alcune materie, escludendo in primo luogo quelle che avrebbero potuto essere oggetto di riforme strutturali; potestà legislativa più circoscritta alle altre regioni; assemblee regionali costituite nel rispetto della piena sovranità popolare […] contributo dello Stato allo sviluppo del Mezzogiorno attraverso la pianificazione economica» [1]0. Su quest’ultimo punto, a partire dal «Congresso del popolo sardo» nel maggio 1950, Laconi e i comunisti insulari si batteranno costantemente al fine di ottenere l’approvazione del «Piano di Rinascita economica e sociale della Sardegna», previsto dall’articolo 13 dello Statuto regionale, che avverrà soltanto nel 1962.

Per comprendere la rilevanza innovatrice del contributo di Togliatti e di Laconi al regionalismo e all’autonomismo sardo del Partito comunista – problematica alla quale l’opera di Maria Luisa Di Felice fornisce un contributo essenziale – può risultare utile la comparazione con la federazione còrsa del Partito comunista francese [11]. Nell’isola, situata a pochi chilometri a nord della Gallura, la distanza sul tema dell’autonomia è notevole (d’altronde, mentre lo statuto della Regione autonoma della Sardegna viene approvato nel 1948, bisognerà attendere il 1982 per il primo Statut particulier della Corsica). All’epoca della svolta autonomista del Pci sardo, la federazione comunista còrsa è manifestamente centralista e giacobina. L’organizzazione partitica ha raggiunto il suo apice, dopo essersi rafforzata esponenzialmente proprio negli anni della clandestinità e della resistenza, combattendo le pretese irredentiste e l’occupazione fascista dal novembre 1942 al settembre 1943. Tuttavia il Pcf còrso, rispetto alle federazioni del continente, presenta dei caratteri di originalità: l’isola viene definita una «piccola patria» all’interno della «grande patria» francese e, secondo la lettura storica dei comunisti insulari, il popolo còrso – mai sottomesso né all’invasione pisana, né a quella genovese e nemmeno alla Francia monarchica – con la rivoluzione del 1789 ha scelto di propria iniziativa di diventare repubblicano e francese.

Chiusa la breve parentesi comparativa, occorre ricordare che, in seguito all’approvazione della Costituzione italiana, Renzo Laconi si divide tra l’impegno di deputato (carica che ricopre senza interruzioni dalla I alla IV legislatura) e gli incarichi regionali. La sua attività politica è intensa e allo stesso tempo tormentata, segnata dall’aspra dialettica con Velio Spano, rivoluzionario di professione durante la clandestinità e segretario regionale del Pci nel decennio 1947-1957 [12]. Nel mese di dicembre del 1957 Laconi gli succede alla carica di segretario e resterà alla guida del Comitato regionale sardo fino al novembre 1963, periodo ampiamente documentato e descritto nei capitoli conclusivi della biografia. Laconi scompare prematuramente a Catania all’età di 51 anni, nel 1967.

Con un lavoro imponente, curato e approfondito, Maria Luisa Di Felice mette a disposizione degli studiosi quest’opera che rappresenta il «degno traguardo di numerosi anni di studio»13. La lettura non sempre è agevole, il testo a tratti risulta fin troppo scrupoloso, con dettagli e precisazioni talvolta evitabili. Ma complessivamente si tratta di un libro indispensabile non solo per la conoscenza biografica di Laconi, ma anche per approfondire la storia politica della Sardegna e del Pci sardo, nonché la questione del regionalismo e dell’autonomismo che ha profondamente marcato la storia insulare e nazionale.

Notas

1. LACONI, Renzo, Per la Costituzione. Scritti e discorsi, a cura di Maria Luisa DI FELICE, Roma, Carocci, 2010; DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi, la formazione intellettuale e politica. Dagli anni giovanili alla nascita della Repubblica, Roma, Carocci, 2011.

2. DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale, Roma, Carocci, 2019, p. 17.

3. LAI, Gianna (a cura di), La biblioteca di Renzo Laconi, Cagliari, Cuec, 2020.

4. LACONI, Renzo, Parlamento e Costituzione, a cura di Enrico BERLINGUER, Gerardo CHIAROMONTE, Roma, Ed. Riuniti, 1969; LACONI, Renzo, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi sulla Sardegna, 1945-1967, a cura e con introduzione di Umberto CARDIA, Cagliari, Edes, 1988; SCANO, Pier Sandro, PODDA, Giuseppe (a cura di), Renzo Laconi, Un’idea di Sardegna, Cagliari, Aipsa, 1998.

5. DI FELICE, Maria Luisa, «Il Gramsci di Renzo Laconi», in Studi e ricerche, I, 2008, pp. 213-228.

6. DI FELICE, Maria Luisa, «Fare politica: Renzo Laconi, i minatori e la lezione di Gramsci», in Le Carte e la Storia, 1/2015, pp. 99-116.

7. DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale, cit., p. 15.

8. Ibidem, p. 97.

9. SIRCANA, Giuseppe, s.v. «Renzo Laconi», in Dizionario biografico degli italiani, vol. 63, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana 2004.

10. DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale, cit., p. 159.

11. Sul tema: DI STEFANO, Lorenzo, Le Pcf en Corse et le Pci en Sardaigne, 1920-1991: implantation militante, histoire électorale, identité insulaire, tesi di dottorato (in corso di redazione dal settembre 2018), UMR CNRS 6240 LISA, Università di Corsica.

12. Sul confronto fra Spano e Laconi: MATTEI, Sebastian, «Autonomia e rinascita. Velio Spano e Renzo Laconi nella Sardegna del secondo dopoguerra», in Studi storici, LIX, 2/2018, pp. 493-523. Su Spano: MATTONE, Antonello, Velio Spano. Vita di un rivoluzionario di professione, Cagliari, Della Torre, 1978; HÖBEL, Alexander, «Velio Spano», in Dizionario biografico degli italiani, Vol. 93, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2018; nonché il libro di memorie: GALLICO SPANO, Nadia, Mabrùk: ricordi di un’inguaribile ottimista, Cagliari, AM&D, 2005.

13. MINNUCCI, Virginia, «Recensione a DI FELICE, Maria Luisa, Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale», in Archivio storico italiano, 2020, pp. 666-667.

Lorenzo DI STEFANO (1989) È dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Corsica “Pasquale Paoli” con una tesi intitolata Le Pcf en Corse et le Pci en Sardaigne, 1920-1991: implantation militante, histoire électorale, identité insulaire. È stato operatore di servizio civile presso la Fondazione Gramsci di Roma, dove si è occupato della catalogazione del fondo librario di Paolo Spriano. Nel 2016 ha conseguito con lode la laurea magistrale in Scienze politiche presso l’Università degli studi di Teramo.


DI FELICE, Maria Luisa. Renzo Laconi. Una biografia politica e intellettuale. Roma: Carocci, 2019, 685p. Resenha de: DI STEFANO, Lorenzo. Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, v.45, n.1, mar. 2021. Acessar publicação original [IF].

Torcidas Organizadas na América Latin – HOLLANDA; AQUILAR (DSSC)

HOLLANDA, Bernardo Borgues Buarque de; AQUILAR,  Onésimo Rodríguez (eds.). Torcidas Organizadas na América Latina. Rio de Janeiro: 7Letras, 2017, 232 pp. Resenha de: FERREIRA, Daniel Vinícios. Diacronie Studi di Storia Contemporanea v. 42, n. 2, 2020.

L’America Latina comprende buona parte del continente americano: il suo concepimento teorico, tuttavia, sarebbe sorto solamente nel XIX°secolo; una differenza radicale che si riscontra non soltanto rispetto all’Europa, ma anche guardando agli Stati Uniti1. Nell’ambito della cultura sportiva il calcio si sarebbe reso protagonista tra i latino-americani e da esso sarebbero sorte a partire dalla seconda metà del Novecento formazioni di tifosi associate alle sottoculture giovanili.

Nel campo scientifico brasiliano sono dei pionieri degli studi sul tifo Roberto Da Matta (riguardo alla rappresentazione di politica e democratica) e Simoni Guedes. Per quel che riguarda gli studi più recenti vale la pena menzionare quelli di Ronaldo Helal, Victor de Andrade Melo, Arley Sander Damo, Gilmar Mascarenhas, Irlan Simões e Bernardo Borges Buarque de Hollanda, i quali si occupano della storia del tifo, delle identità e configurazioni delle tifoserie (come nel caso delle tifoserie organizzate), degli stadi (e delle loro trasformazioni) in Brasile.

È in questo tentativo di pensare in maniera critica il tifo latino-americano che ci si presenta il lavoro Torcidas Organizadas na América Latina, curato dai ricercatori Bernardo Buarque de Hollanda (Brasile) e Onésimo Rodriguez Aguilar (Costa Rica), entrambi autori di riferimento per il tema. L’opera in oggetto è anche il risultato di alcuni incontri accademici sulla questione, a riprova dello sforzo tuttora in atto di colmare una lacuna di opere sul tema e favorire la reciproca conoscenza tra i ricercatori che si occupano di calcio in America Latina.

Il libro riunisce nove articoli, frutto di ricerche sviluppate in contesti differenti, ma raccolte in una pubblicazione collettanea pensata per il pubblico brasiliano. Gli autori differiscono quanto alla formazione scientifica, benché a prevalere nelle analisi sia uno sguardo storico-antropologico. A partire da questioni specifiche (come la violenza), essi cercano di svelare i complessi significati socio-culturali implicati nel tifo organizzato presso i gruppi giovanili in diversi paesi del subcontinente.

Sílvio Aragón, antropologo e professore dell’Universidade Nacional do Mar de Plata (Argentina), analizza il rapporto tra i mutamenti politici in Argentina e la trasformazione delle soggettività e dei processi di socializzazione delle tifoserie, avendo come focus la comprensione della violenza in questi collettivi. L’esperienza considerata da Aragón è quella della barra2 brava La Gloriosa Butteler, legata al Clube Atlético San Lorenzo del quartiere Almagro (Buenos Aires). Il contesto neoliberale avrebbe contribuito ad esacerbare l’individualismo sul piano sociale corrodendo i vincoli tradizionali, esacerbando nella contesa le differenze/alterità, condizione, questa, che diviene maggiormente drammatica per quegli individui in difficoltà sul piano sociale o economico. Per quel che riguarda i clubs, questi avrebbero gradualmente perduto il loro carattere associativo per promuovere sempre più la logica consumista. Tra i tifosi, invece, i vecchi vincoli ed impegni collettivi più ampi, che favorivano generalmente il legame con la sinistra peronista, avrebbero ceduto il passo a sempre più intense ed aggressive lotte per il potere all’interno della tifoseria. In tale contesto la violenza all’interno o tra gruppi di barras sarebbe gradualmente divenuta sempre più naturale e banale. Questa violenza – associata a identità plasmate da una certa idea di mascolinità – rimetterebbe a concetti razionali (come l’idea di aguante3), e renderebbe possibile l’acquisizione di uno status all’interno della barra, non riflettendo così qualcosa di accidentale o irrazionale.

Marcelo Faria Guilhon, scienziato sociale e laureato in Giurisprudenza, svolge un’analisi circa la traiettoria storica delle tifoserie organizzate in Brasile attraverso la considerazione della violenza e del trattamento legislativo riservato a questi gruppi da parte dello Stato. Guilhon mette in risalto il modo in cui la forma-tifoseria si origina durante gli anni in Brasile con la popolarizzazione e massificazione del calcio nei principali centri del Paese (anni Venti e Trenta). Proprio dalle tifoserie avrebbe cominciato a prevalere, tra le tribune del Paese, un ethos più attivo e performativo. Per quel che riguarda invece le tifoserie organizzate, queste avrebbero avuto la loro origine negli anni Trenta per poi toccare l’apice negli anni Ottanta, quanto i collettivi sarebbero divenuti numerosi e avrebbero cominciato ad esercitare un’influenza politica nei clubs. Tali

3 Il termine è traducibile come “resistenza, sopportazione”. Il concetto di aguante è fondamentale per comprendere l’ethos del tifoso delle cosiddette barras-bravas in América Latina. Tale concetto ritrova la sua matrice nelle tifoserie argentine – la più influente ed estesa in America Latina (in Brasile a prevalere è invece il modello delle tifoserie organizzate). Aguante sarebbe dunque um concetto polisemico dalla connotazione positiva, in generale associato al corpo e alle varie forme assunte dalla capacità del tifoso di donarsi al suo club collettivi risulterebbero intimamente associati alla cultura popolare (come il samba e il carnevale). Nel contesto della dittatura militare anche queste tifoserie fecero proprie strutture gerarchizzate e burocratizzate. La violenza (che era sempre esistita nel calcio) si sarebbe ulteriormente intensificata con l’emergere di un’estetica e di un comportamento più aggressivi tra i gruppi, un fenomeno in seguito rafforzato dal contesto neoliberale e dalla diffusione di «tribù urbane» (nell’intero paese), note per l’uso della corporeità nelle loro espressioni (fatte di musica e danza, come nel punk e nell’hip-hop). Osservando la legislazione Guilhon afferma che lo Statuto del Tifoso4 ha normato la concezione del tifoso in quanto cittadino e consumatore. In una nuova legge (del 2010, precedente alla Coppa del Mondo e alle Olimpiadi brasiliane) sono stati inseriti nuovi dispostivi che avrebbero trattato direttamente delle tifoserie organizzate, rendendo peraltro possibile che le responsabilità ricadessero sui gruppi (e non sugli individui) per quegli atti che si fossero verificati all’interno della tifoseria. Il ricercatore pone l’accento sul disaccordo di questa legge con i princìpi costituzionali (e coi diritti fondamentali) del paese, oltre a metterne in risalto la probabile inefficacia. Arriva quindi alla conclusione per cui la legislazione rivela presupposti ingannevoli in un contesto di caro biglietti, nuovo formato degli stadi e in cui viene imposto una nuova modalità di tifare contrapposta alla tradizione culturale di tifo delle classi popolari.

Miguel Cornejo, professore presso la Facoltà di Educazione dell’Università di Concepción (Cile), ci offre un articolo che si concentra sulla natura socio-identitaria delle barras in Cile e sulla questione della violenza. Sarebbe proprio quest’ultima ad essere aumentata sino a salire alla ribalta a partire dalla fine del XX secolo. Il comportamento radicale dei barristas (maggioritariamente giovani uomini di classe bassa) sarebbe complesso e dovrebbe essere inteso quale espressione all’interno di una configurazione di relazioni complesse, della quale fa parte l’atomizzazione degli individui in un contesto più ampio di globalizzazione e corrosione del concetto di cittadinanza. In Cile spiccano due barras principali, Los de Abajo (Universidad Catolica) e Garra Blanca (Colo-Colo). Cornejo sostiene che i giovani barristas, socialmente emarginati, si sarebbero appropriati degli stadi di calcio, potendosi sentire lì protagonisti e liberi, accolti in una comunità. Il calcio avrebbe così rivestito un ruolo centrale nelle loro vite, definendone identità, alterità, gruppi di appartenenza e linee di conflitto. I clubs e i dirigenti si sarebbero avvalsi di questo appoggio senza però conferire alle barras una responsabilità istituzionale. Per quel che riguarda la legislazione, il ricercatore mette in rilievo leggi e programmi atti ad impedire e punire la violenza a partire dal 1994, ma che non avrebbero compiuto grandi passi in avanti. Per il 2012 sono messe in rilievo nuove modifiche normative, ispirate a modelli europei, con le quali si proibisce ai tifosi di portare oggetti (quali estintori5, striscioni e fumogeni) e si promuove il collettivi risulterebbero intimamente associati alla cultura popolare (come il samba e il carnevale). Nel contesto della dittatura militare anche queste tifoserie fecero proprie strutture gerarchizzate e burocratizzate. La violenza (che era sempre esistita nel calcio) si sarebbe ulteriormente intensificata con l’emergere di un’estetica e di un comportamento più aggressivi tra i gruppi, un fenomeno in seguito rafforzato dal contesto neoliberale e dalla diffusione di «tribù urbane» (nell’intero paese), note per l’uso della corporeità nelle loro espressioni (fatte di musica e danza, come nel punk e nell’hip-hop). Osservando la legislazione Guilhon afferma che lo Statuto del Tifoso4 ha normato la concezione del tifoso in quanto cittadino e consumatore. In una nuova legge (del 2010, precedente alla Coppa del Mondo e alle Olimpiadi brasiliane) sono stati inseriti nuovi dispostivi che avrebbero trattato direttamente delle tifoserie organizzate, rendendo peraltro possibile che le responsabilità ricadessero sui gruppi (e non sugli individui) per quegli atti che si fossero verificati all’interno della tifoseria. Il ricercatore pone l’accento sul disaccordo di questa legge con i princìpi costituzionali (e coi diritti fondamentali) del paese, oltre a metterne in risalto la probabile inefficacia. Arriva quindi alla conclusione per cui la legislazione rivela presupposti ingannevoli in un contesto di caro biglietti, nuovo formato degli stadi e in cui viene imposto una nuova modalità di tifare contrapposta alla tradizione culturale di tifo delle classi popolari.

Miguel Cornejo, professore presso la Facoltà di Educazione dell’Università di Concepción (Cile), ci offre un articolo che si concentra sulla natura socio-identitaria delle barras in Cile e sulla questione della violenza. Sarebbe proprio quest’ultima ad essere aumentata sino a salire alla ribalta a partire dalla fine del XX secolo. Il comportamento radicale dei barristas (maggioritariamente giovani uomini di classe bassa) sarebbe complesso e dovrebbe essere inteso quale espressione all’interno di una configurazione di relazioni complesse, della quale fa parte l’atomizzazione degli individui in un contesto più ampio di globalizzazione e corrosione del concetto di cittadinanza. In Cile spiccano due barras principali, Los de Abajo (Universidad Catolica) e Garra Blanca (Colo-Colo). Cornejo sostiene che i giovani barristas, socialmente emarginati, si sarebbero appropriati degli stadi di calcio, potendosi sentire lì protagonisti e liberi, accolti in una comunità. Il calcio avrebbe così rivestito un ruolo centrale nelle loro vite, definendone identità, alterità, gruppi di appartenenza e linee di conflitto. I clubs e i dirigenti si sarebbero avvalsi di questo appoggio senza però conferire alle barras una responsabilità istituzionale. Per quel che riguarda la legislazione, il ricercatore mette in rilievo leggi e programmi atti ad impedire e punire la violenza a partire dal 1994, ma che non avrebbero compiuto grandi passi in avanti. Per il 2012 sono messe in rilievo nuove modifiche normative, ispirate a modelli europei, con le quali si proibisce ai tifosi di portare oggetti (quali estintori5, striscioni e fumogeni) e si promuove il questi vengono

controllo delle relazioni tra barras e clubs. L’autore conclude argomentando le ragioni per cui il problema della violenza è più complesso e richiederebbe altre misure per essere affrontato meglio, come ad esempio ripensare il ruolo delle barras, la promozione di politiche pubbliche di inclusione e il miglioramento delle infrastrutture degli stadi.

Alejandro Villanueva Bustos, sociologo con una formazione pedagogica, sviluppa invece un’analisi critica sulle barras colombiane e sulla questione della violenza. Bustos afferma che se la relazione barras/violenza in Colombia risale al 1990, soltanto dieci anni dopo lo Stato decise di proporre delle politiche su questo tema. La violenza nel calcio si verificherebbe al di là del contesto degli stadi e delle partite, dal momento che è presente anche nei quartieri e può essere legata ad altri problemi come le bande criminali urbane. Nel 2004 il governo lanciò un progetto (“programmi di convivenza”) a Bogotá per occuparsi del problema. Tale progetto ha visto riuniti vari attori sociali, tra cui alcuni rappresentanti delle barras, avente per base un comitato il cui scopo era la condivisione della responsabilità nella risoluzione del problema a partire dalla convivenza/tolleranza tra le barras e dall’inclusione dei suoi membri. Il già citato decreto sarebbe divenuto, nel 2009, la base per un’altra legge – questa volta applicata all’intera Colombia – che estese il modello delle commissioni e dei “programmi di convivenza” all’intero Paese (agendo in maniera integrata e preventiva). Questo comportò peraltro nuove limitazioni e regole per gli spettacoli sportivi con l’emergere di un protocollo nazionale per standardizzare e regolamentare la gestione delle tifoserie, dando così origine a El estatuto del Hincha o el aficionado (2012). Il ricercatore valuta positivamente questi progetti, in quanto avrebbero reso possibile una diminuzione della violenza. Ciononostante il lavoro dovrebbe essere intensificato, sia attraverso un maggiore impegno dei clubs e delle barras, sia rivolgendo l’attenzione ad altre istanze sociali (come un’educazione di buon livello, il lavoro e l’offerta per il tempo libero dei giovani).

Onésimo Rodríguez Aguilar, antropologo e professore presso la Scuola di Antropologia dell’Università della Costa Rica, conduce un’analisi socio-storica sulla barra della Costa Rica (La Ultra Morada) sorta nel 1995 ed associata al club Deportivo Saprissa (Prima divisione). Egli tratta dei conflitti (l’uso e le pratiche di potere) verificatisi all’interno della barra nel corso degli anni per il suo controllo. I suoi principali leaders (8), che sostenevano la presidenza, si denominavano “cavalieri della tavola rotonda” e provenivano da due grandi aree della città di San José: Los del Sur (area più popolare) e Los del Norte (area più di classe media). In tali conflitti il bene comune e la lotta di classe avrebbero dominato i repertori retorici delle due fazioni in lotta, il cui fine comune era il dominio autoritario e il controllo soggettivo della massa dei tifosi, a vantaggio di un gruppo dirigente. Queste contese avrebbero avuto come sfondo una formazione eterogenea ed instabile di collettività, ma anche di appartenenze, lealtà e identità. Aguilar conclude affermando che la barra era un collettivo con un’organizzazione politica complessa, con rivalità complesse (al di là degli spazi ludici) e perciò molto distante da qualsiasi presupposto di omogeneità.

Jacques Ramírez Gallegos, professore dell’Instituto del Altos Estudios Nacionales (IAEN) dell’Ecuador, tratta delle barras dell’Ecuador (sorte nell’ultimo trentennio del XX secolo e che guadagnarono forza negli anni Novanta) soffermando la sua attenzione sul tema della violenza. Egli fa qui riferimento ad alcune barras legate ai principali clubs del Paese (a Quito e Guayaquil). Gallegos mette in risalto il fatto che la comprensione della violenza nel calcio ecuadoriano non può prescindere dal prendere in considerazione il tema del regionalismo: il bipolarismo politico-economico (ed urbana) tra le due principali città dell’Ecuador (Quito e Guayaquil) e la stessa difficoltà storica del paese di consolidarsi in uno Stato-nazione centralizzato, cosa ha avuto ripercussioni sul mantenimento di forti regionalismi (e per estensione sull’organizzazione provinciale del calcio). Oltre a ciò, l’autore analizza l’ascesa stessa delle barras ed i contenuti sociali che coinvolgono i giovani barristas, come la simbologia della mascolinità, del successo, del sessismo, dell’omofobia e del razzismo contro gli afroamericani e/o indios. Un simile percorso sarebbe stato più volte trascurato dal potere pubblico ecuadoriano che, a partire dal XXI secolo avrebbe cercato di promuovere misure per combattere la violenza (come punizioni più rigorose e miglioramento degli stadi), seppur sulla base di proposte superficiali.

Gli antropologi Roger Magazine (professore dell’Universidad Iberoamericana di Città del Messico) e Sergio Fernández Gonzállez (professore dell’Universidad Autónoma Metropolitana di Xochimilco) ci offrono un’analisi sulla trasformazione delle tifoserie in Messico tra il 1995 ed il 2014, quando le tradizionali porras6 vennero gradualmente sostituite dalle barras. Sottolineano il fatto che, in tale processo, vi fu un mutamento nelle forme di potere all’interno dei gruppi di tifosi e una barrificazione dei quartieri messicani: in altri termini, la territorialità di queste località cominciò ad essere permeata dalla simbologia e perfino dalle contese tra le barras. Magazine e González affermano inoltre che la trasformazione del tifo in Messico si era verificata parallelamente (venendone a sua volta influenzata) alla transizione stessa della società messicana, storicamente associata al corporativismo clientelare statale, nella direzione di una società più autonoma – ma anche atomizzata e caratterizzata da un maggiore iato tra ricchi e poveri – in un contesto che era già quello della globalizzazione e delle politiche neoliberali. I ricercatori arrivano a considerare le barras alla stregua di spazi alternativi per l’espressione della cultura popolare in Messico – ed anche del divenire plurale e della democratizzazione dell’urbe – e che tuttavia finirono per essere stigmatizzate come icone della violenza da parte di vari settori della società, il cui giudizio risente di una prospettiva classista. Un’interpretazione errata ed eccessiva, giacché la violenza nel calcio sarebbe legata alla complessità di tanti altri fattori.

I sociologi Aldo Panfichi, professore presso la Pontificia Università Cattolica (Perù) e Jorge Thieroldt, professore presso l’Università del Kansas (Usa), offrono un’analisi (comparativa e storica) della relazione tra calcio e identità in Perù. L’esperienza analizzata è quella del club Alianza Lima e del Clube Universitário de Deportes. Gli studiosi sottolineano come l’Alianza Lima sia storicamente legata ai neri, ai meticci e ai settori popolari e consacrata all’immaginario di un calcio più estetico. L’Universitário sarebbe invece il club degli universitari e della classe medio-alta, dedito a un calcio più muscolare nel gioco. Il classico avrebbe conosciuto la sua ascesa alla fine degli anni Venti, diventando da allora sempre più importante. Nell’ultimo trentennio del Novecento sorsero le barras associate ai clubs. In uno scenario segnato da convulsioni politiche, autoritarismo, impoverimento e corruzione, il calcio avrebbe canalizzato le rivalità sociali e sarebbe servito anche all’esercizio di distinte forme di violenza fisica e simbolica da parte dei gruppi giovanili emergenti. Nel contesto delle barras, la vecchia dicotomia che rappresentava le identità e le rivalità tra i clubs sarebbe stata risignificata a partire da alcune persistenze.

La collettanea si chiude con un articolo di Leonardo Mediondo, professore di sociologia presso l’Università Ort (Uruguay). Mediondo tratta delle barras e dei tifosi uruguaiani, concentrandosi su due clubs: il Clube Atlético Peñarol ed il Clube Nacional de Futebol. In un breve testo non suddiviso per tematiche egli esplora varie possibilità e aspetti di approfondimento delle tematiche dell’identità, delle soggettività e dell’appartenenza sportiva nella realtà (eterogenea) della società uruguaiana. In tale prospettiva interpreta anche il coinvolgimento dei differenti tipi di tifosi e di barras nelle rappresentazioni simboliche e nelle attività legate agli assembramenti.

Il libro Torcidas Organizadas na América Latina si rivela essere un opera di riferimento sulla tematica, apportando una varietà interessante e rilevante di esperienze e questioni presentate e delineate in modo chiaro. Può inoltre vantare una certa originalità in virtù del taglio che propone. Per quanto già esistessero dei lavori sul tifo nel sub-continente – e tra questi merita una menzione speciale il pionerismo del ricercatore argentino Pablo Alabarces7 – vi sono molte questioni ancora poco esplorate all’interno di quest’ambito. Tra queste quella della violenza, che preoccupa sempre più le autorità e le figure coinvolte nello sport nella regione (e che spesso viene ancora combattuta in maniera errata). L’opera ha come merito principale quello di offrire al lettore (non soltanto latino-americano e/o accademico) uno sguardo panoramico e introduttivo sulle relazioni tra calcio e società secondo una prospettiva che permette di pensare oltre il prisma limitante dello Stato-nazione o delle norme del senso comune.

Notas

1 BURKE, Peter, A ideia de América Latina, in BURKE, Peter, O historiador como colunista, Rio de janeiro, Civilização Brasileira, 2009, pp. XX-XX.

2 Con il termine barra l’Autore si riferisce ad un tipo di tifoseria perlopiù giovanile e più animato della norma [ N.d.T.]

4 Legislazione promulgata in Brasile nel 2002 con la quale si è cominciato a trattare specificamente degli spettatori delle partite di calcio.

5 Tra le tifoserie latinoamericane è invalsa l’usanza di introdurre estintori caricati con i colori della squadra;  questi vengono impiegati in alternativa (o assieme) ai fumogeni per i festeggiamenti [NdT].

6 Le porras si distinguono dalle barras in quanto si configurano più come “confraternite” di amici ed eventualmente dei rispettivi parenti e presentano uno “stile di tifo” meno violento [N.d.T.]

Pablo Alabarces è uno dei più importante intellettuali dell’America Latina, specialista nell’indagine sulle connessioni tra calcio e società. L’autore è considerato in questo campo um pioniere per opere come ALABARCES, Pablo (comp.), Futbologías. Fútbol, identidad y violência en América Latina, Buenos Aires, CLACSO, 2003; ma anche per lavori di riferimento sul tema come: ID., Fútbol y Patria, Buenos Aires, Prometeo Libros, 2002; ID., Hinchadas, Buenos Aires, Prometeo Libros, 2005.

Daniel Vinícius Ferreira – È titolare di un dottorato di ricerca binazionale in Storia presso l’Università Federale del Paraná (UFPR) e l’Universitat Autònoma de Barcelona (UAB). Si occupa del tema delle identità e delle appartenenze nella globalizzazione del calcio riservando una particolare attenzione ai clubs spagnoli e brasiliani. Attualmente è ricercatore presso l’UFPR nel Nucleo di Studi “Futebol e Sociedade” (NEFES).

Graziano Mazzocchini – Dottorando in Filosofia Contemporanea presso l’Università Federale di Minas Gerais (UFMG), Brasile, ha conseguito la laurea triennale e la laurea magistrale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Bologna. Si occupa perlopiù del pensiero di Michel Foucault e di teoria critica tedesca.

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O Brasil inventado pelo Visconde de Porto Seguro. Francisco Adolfo de Varnhagen, o Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro e a construção da ideia de Brasil-Colônia no Brasil-Império (1838-1860) | Renilson Rocha Ribeiro

Lo storico Renilson Rosa Ribeiro è attualmente professore dell’Universidade Federal do Mato Grosso, dove svolge i suoi incarichi accademici di docenza e ricerca nel campo della didattica della storia e della storia del Brasile ottocentesco. Anche se radicato con anima e cuore a Cuiabá, la formazione di Renilson R. Ribeiro è avvenuta a São Paulo, stato di nascita dell’autore, presso l’Universidade Estadual de Campinas (Unicamp). L’opera intitolata O Brasil inventado pelo Visconde de Porto Seguro, pubblicata nel 2015, è il risultato della sua tesi di dottorato in storia culturale.

Il libro rappresenta prima di tutto un’opportunità di prendere contatto con il lavoro di questo promettente ricercatore, ma si tratta di una pietra miliare nella storiografia brasiliana sul periodo ottocentesco, soprattutto per ciò che riguarda gli studi sulla costruzione di una storia nazionale del XIX secolo coerente, in grado di conferire un significato storico leggittimatore a quello che era il neonato Stato nazionale monarchico brasiliano. L’opera tratta delle tappe fondanti della storiografia nazionale – fissate intorno alla figura di Francisco Adolfo de Varnhagen (São João de Ipanema 1816 – Viena 1878) e della sua opera História Geral do Brasil1–, del ruolo esercitato in questo processo dall’IHGB (Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro) e del ruolo centrale che lo sviluppo di una narrazione storica del Brasile coloniale esercitò nella creazione del Brasile monarchico del Secondo Impero.

Il libro è diviso in tre capitoli, ciascuno contenente una propria tesi, che concorrono nella parte conclusiva ad un solo esito: l’invenzione storica del Brasile Colonia è parte di un progetto politico di costruzione dello Stato nazionale improntata sul modello del Secondo Regno. Il sottotitolo del libro Francisco Adolfo Varnhagen, o IHGB e a construção da ideia de Brasil-Colônia no Brasil-Império (1838-1860) anticipa la struttura del testo proposta dall’autore.

Il primo capitolo, Invenções dos outros: as biografias de Varnhagen e a escrita da história do Brasil (1878-1978) presenta il processo di invenzione biografica di Varnhagen quale patrono della storia del Brasile e storico simbolo del progetto storiografico dell’IHGB, elaborato a partire dagli scritti biobibliografici realizzati tra il 1878, anno della morte di Varnhagen, e il 1978. Attira l’attenzione la strategia teorica e metodologica scelta dall’autore per affrontare la questione della biografia di Varnhagen: coerentemente con i suoi convincimenti teorici, Renilson R. Ribeiro non si propone di realizzare una nuova biografia di Varnhagen o di ricostruire il percorso storico del visconte di Porto Seguro, ma si lancia in qualcosa di più audace. Ispirato da Dominick LaCapra e dalla sua Nuova storia intellettuale2, l’autore analizza Varnhagen come un testo, ossia, mettendo in evidenza il modo in cui le biografie hanno costruito un Varnhagen-IHGB, al servizio di un progetto istituzionale volto a trasformare l’IHGB nella “Casa della Memoria Nazionale”.

In questa modo l’autore fugge dalla tentazione biografica di dare un’unica e coerente interpretazione della vita di colui di cui viene scritta la biografia; rifugge anche da una prospettiva storicistica che condurrebbe a un’esternalità al testo. La sua concezione del contesto si rifà in misura maggiore ad un’intertestualità articolata piuttosto che all’intento oggettivista di tracciare un panorama dei fatti al di fuori del testo, caratteristica che lo metterebbe in rotta di collisione con i suoi convincimenti teorici.

I documenti analizzati in questa prima sezione sono le biografie, i necrologi, gli encomi, le memorie e le prefazioni che miravano a esaltare Varnhagen e che fiorirono dopo la sua morte, nel 1878, all’interno della stessa rivista dell’IHGB. Renilson R. Ribeiro analizza come l’IHGB si appropriò della figura di Varnhagen per costruire una tradizione storiografica brasiliana. Realizzando reiteratamente biografie su Varnhagem e concedendogli il titolo di patrono della storia del Brasile, l’IHGB si poneva come istituzione autorevole e significativa nel processo di produzione della storia del Brasile. Fare di Varnhagen un eroe del pantheon degli artefici della storia del Brasile significava glorificare anche l’IHGB.

Nel primo capitolo, Varnhagen assurge al ruolo di oggetto costruito dai discorsi prodotti dall’IHGB e dagli intellettuali vicini a questa istituzione. Nel secondo capitolo, Varnhagen abbandona la condizione di oggetto delle rappresentazioni discorsive e diviene soggetto della sua storicità.

In Invenções de si: as cartas de Varnhagen e a escrita da história do Brasil, l’autore analizza le rappresentazioni che Varnhagen diede di sé, dell’IHGB, del ruolo dello storico, delle tensioni e delle dispute interne all’IHGB e dei testi storici. Renilson R. Ribeiro mostra un Varnhagen che rappresenta se stesso come un intellettuale di Stato e che vede nel processo di scrittura e pubblicazione della História geral do Brasil un incarico politico in favore dello Stato brasiliano e della monarchia.

L’autore mostra i retroscena delle scelte documentali, tematiche e cronologiche dell’opera di Varnhagen, così come la sua frustrazione di fronte alla ricezione silenziosa dell’opera da parte dei colleghi dell’IHGB. La strategia del testo permane evidenziando, per mezzo delle lettere, un Varnhagen in cerca di un riconoscimento che non ottenne in vita, ma solamente dopo la sua morte.

Qui sarebbe interessante rilevare che, mentre Varnhagen cercava di acquisire un controllo sulla costruzione di sé – o meglio, sulla base di come desiderava essere rappresentato – la sua memoria cominciò a essere utile all’IHGB per i propri interessi solamente nel momento in cui lui non ebbe più modo di controllare e influire su questo processo. A prescindere dal risentimento in vita per l’assenza di riconoscimento da parte dei suoi colleghi, l’eredità di Varnhagen si rafforzò in tal misura da rendere l’IHGB dipendente dalla sua memoria per legittimarsi come istituzione-autorità nell’edificazione della storia del Brasile. Per via del suo costante dialogo con la storiografia tradizionale sempre in cerca di tematiche, Varnahgen non è visto solo come un compilatore di documenti, ma come un intellettuale protagonista nel processo di scrittura della storia del Brasile. Per Renilson R. Ribeiro, il processo di ricerca e organizzazione dei documenti, di cui Varnhagen fu un uomo chiave, era zeppo di questioni storiografiche molto sentite nel Brasile del XIX secolo: «la scelta di cosa raccogliere, sistematizzare, archiviare e pubblicare ha dischiuso i sentieri che la narrazione storica desiderava tracciare»3.

Nel terzo capitolo del libro, Renilson R. Ribeiro analizza il processo di costruzione dell’intreccio cronologico e tematico dell’opera di Varnhagen alla luce del progetto di sapere-potere che l’opera si propone, cioè di costruire una narrazione in grado di stabilire un’identità essenzializzata e coerente della nazione con l’intento di delimitarla come un’entità univoca, omogenea e imprescindibile. In Inventando a Colônia “Coroada”: os enredos cronológicos e temáticos da Historia geral do Brazil (1854/1857) e o tempo Saquarema (1839-1860) Renilson R. Ribeiro, a partire dall’analisi dettagliata della prima edizione dell’opera História geral do Brasil, porta il lettore a stravolgere il passato coloniale brasiliano per accogliere la costruzione discorsiva elaborata da Varnhagen in funzione del progetto di fabbricazione della nazione come verità storiografica.

È tutto qui: un manuale su come inventare la nazione, fissare la sua identità, a partire dalla costruzione di una narrazione storica. Si tratta delle origini della nazione, dei suoi miti fondativi, della formazione del popolo, degli episodi simbolici, della scelta degli eroi rappresentativi – tra tanti altri elementi costituenti di questa narrazione – che fissano l’idea fondante del Brasile coloniale: una specie di infanzia della nazione, la cui inesorabile maturità, nella prospettiva varnhageniana, sarebbe stata lo Stato monarchico del Secondo Impero.

Renilson R. Ribeiro si propone di «fare la storia dell’emergere di un oggetto, di un sapere, di un tempo e di uno spazio di potere: il passato coloniale brasiliano»4. In questa triade, il passato stabilisce il campo d’azione del sapere in questione, la storia; il termine coloniale marca il periodo definito e, infine, l’aggettivo brasiliano punta alla progettazione di un territorio. All’interno di questa triade, il popolo è il soggetto e le sue azioni rappresentano gli episodi attraverso cui costruire una storia marcata dalla linearità e dalla continuità fino al processo di consolidamento come Stato indipendente.

L’origine della nazione fu così fissata nell’episodio della scoperta del Brasile, la formazione del popolo nel processo di descrizione delle tre razze (indios, neri e portoghesi), nel mito fondatore (l’invasione olandese) e, successivamente, nelle relazioni mai interrotte fino al conseguimento della maturità della nazione (indipendenza del Brasile).

La definizione della storia coloniale brasiliana a partire da questa trama narrativa fissata da Varnhagen si impose come modello e finì per essere riprodotta. Secondo Renilson R. Ribeiro, nei manuali scolastici e nei libri didattici di storia del Brasile elaborati fin dal secolo XIX e nel corso del XX secolo – nonostante presentino differenze teoriche, metodologiche e ideologiche – è possibile identificare la griglia cronologica e tematica stabilita da Varnhagen, a partire dalla narrazione della scoperta del Brasile da parte dei portoghesi, passando per il tema della formazione etnico-razziale del popolo brasiliano, il processo di conquista e il dominio coloniale, le invasioni olandesi e il processo che culmina con l’indipendenza del Brasile: «in larga misura digerirono l’idea della Colonia come culla del Brasile indipendente, o meglio, della storia come “biografia della nazione”»5.

Dunque, O Brasil inventado pelo Visconde de Porto Seguro è un libro che pone nuovamente una questione importante per coloro che lavorano per la produzione della conoscenza: da chi o da cosa è prodotta la conoscenza? A chi serve il mestiere di storico? Che tipo di relazioni gerarchiche di autorità legittima? A che tipo di relazioni di potere è indissolubilmente legato?  Tra le diverse questioni affrontate da Renilson R. Ribeiro questa sembra essere fondamentale. Varnhagen era cosciente che il suo progetto di scrivere una storia del Brasile serviva una causa politica, ossia, aveva una chiara finalità: aiutare a impilare i mattoni dello Stato monarchico brasiliano fornendogli una storia dotata di costumi e di un’identità coerente. Il progetto di Varnhagen chiarisce le relazioni di sapere e potere che attraversano la produzione storiografica e getta luce anche sulla ricerca storica odierna e le sue conseguenze politiche per il tempo presente.

La varietà attuale dei temi di ricerca e degli approcci teorici che sono presenti nei corsi di laurea e negli istituti di ricerca, non fa della produzione storica e storiografica qualcosa di neutro rispetto ai progetti politici, siano essi istituzionali, partitici, associativi o personali. Urge più che mai una necessaria presa di posizione, una chiarezza intellettuale riguardo alle conseguenze della scrittura della storia.

Parafrasando una categoria gramsciana, ogni intellettuale è organicamente legato a un progetto di potere, ogni storia è compromessa nel servire come fonte di legittimità e autorità alle gerarchie che costituiscono relazioni di potere. Renilson R. Ribeiro ci mostra che Varnhagen scrisse la sua storia consapevole del progetto di potere che difendeva; questo ci porta a domandarci: i nostri attuali ricercatori, dottorandi e storici sanno quali cause stanno servendo le loro storie?

Notas

1 VARNHAGEN, Francisco Adolfo de, História geral do Brasil. Antes da sua separacao e independencia de Portugal, 3 voll., Belo Horizonte-São Paulo, Itiatia – Editora de Universidade, 1981.

2 Cfr. LACAPRA, Dominick, Rethinking intellectual history. Texts, contexts, language, Ithaca- London, Cornell University Press, 1983.

3 RIBEIRO, Renilson Rosa, O Brasil inventado pelo Visconde de Porto Seguro: Francisco Adolfo de Varnhagen, o Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro e a construção da ideia de Brasil-Colônia no Brasil-Império (1838-1860), Cuiabá, Entrelinhas, 2015, p. 231.

4 Ibidem, p. 46.   5 Ibidem, p. 416.

Mairon Escorsi Valério si è addottorato in Storia culturale presso l’UNICAMP ed è professore associato dell’Universidade Federal da Fronteira Sul (UFFS) – Campus Erechim/RS. I suoi studi vertono sulla storia contemporanea dell’America Latina e sulla didattica della storia. È autore del libro Entre a cruz e a foice: D. Pedro Casaldáliga e a significação religiosa do Araguaia (Jundiaí, Paco Editorial, 2012).


RIBEIRO, Renilson Rosa. O Brasil inventado pelo Visconde de Porto Seguro. Francisco Adolfo de Varnhagen, o Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro e a construção da ideia de Brasil-Colônia no Brasil-Império (1838-1860). [?]:Entrelinhas, 2015, 448 pp. Resenha de: VALÉRIO, Escorsi.  Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, n. 27, v. 3 2016.

Brasil: Uma Biografia – SCHWARCZ; STARLING (DSSC)

SCHWARCZ, Lilia Moritz; STARLING, Heloisa Murgel Brasil: Uma Biografia. São Paulo: Companhia das Letras, 2015, 792 pp. Resenha de: MAYNARD, Andreza Santos. Diacronie Studi di Storia Contemporanea, n. 26, n. 2, 2016.

Edito nel 2015 dalla casa editrice Companhia das Letras, il libro è il risultato del lavoro congiunto di Lilia Moritz Schwarcz (professoressa dell’Universidade de São Paulo) e Heloisa Murgel Starling (professoressa dell’Universidade Federal de Minas Gerais). Benché fosse intenzione delle autrici sfuggire alle classificazioni, si tratta di una sintesi che affronta più di cinquecento anni di storia del Brasile. L’ampio volume di 792 pagine è suddiviso in 18 capitoli.

L’analisi sviluppata nel libro parte dai primi contatti degli europei con gli indigeni brasiliani, all’inizio del XVI secolo, e giunge fino alla contemporaneità: per l’esattezza sino al periodo successivo al ritorno alla democrazia, con la ripresa del governo da parte dei civili, in seguito all’elezione di Fernando Henrique Cardoso alla presidenza, nel 1995. L’opera offre tre raccolte di immagini di diversa tipologia: dipinti, illustrazioni, fotografie e documenti dell’epoca.

Su internet sono reperibili molte informazioni sul libro. Le librerie e i siti dediti al commercio online forniscono dati sull’opera e non è raro imbattersi in lettori che esprimono apprezzamenti entusiastici. All’interno di una strategia di commercializzazione, la stessa Companhia das Letras ha diffuso la parte iniziale in formato .pdf: il lettore curioso può così avere accesso a una parte del testo prima di decidere se procedere o meno all’acquisto del volume, che costa mediamente da 39,90 a 54,51 reais. In considerazione della fama di Lilia Moritz Schwarcz nel mercato editoriale brasiliano, del numero di pagine e di immagini, della qualità materiale e intellettuale dell’opera, si può affermare che non si tratti di una cifra esorbitante.

Una delle particolarità che attirano maggiormente l’attenzione sul libro è la proposta delle autrici di partire dalla biografia per comprendere il Brasile in prospettiva storica. Gli autori ci informano del fatto che “i brasiliani” sono i protagonisti di questa narrazione, gli uomini pubblici così come i personaggi “quasi anonimi”. Ed è con loro che gli autori iniziano l’opera. Sulla copertina troviamo una fotografia del 1958 scattata da Marcel Gautherot: l’immagine mostra uomini che lavorano all’edificazione del Senato Federale. Grazie questa provocazione iniziale, ricaviamo l’impressione che questa sia un’opera sulla storia della costruzione del paese: qualcosa che è stato realizzato da brasiliani famosi così come sconosciuti.

Nell’introduzione vengono esposte alcune idee e metodi che pervadono l’opera. Da un lato apprezziamo l’uso dei riferimenti letterari, una delle caratteristiche che conferiscono levità al testo. Al contempo, veniamo messi a parte delle nozioni di cittadinanza, democrazia, repubblica e giustizia sociale che verranno riprese nel corso dei capitoli. La visione critica delle autrici riguardo alla formazione storica del Brasile è permeata da queste categorie. Per quel che riguarda la nozione di cittadinanza si percepisce una sintonia con il testo di José Murilo de Carvalho Cidadania no Brasil: o longo caminho1, benché non sia menzionata l’opera e neppure l’autore. Possiamo considerare questa come l’altra particolarità del libro scritto da Schwarcz e Starling, ossia la tendenza a ridurre al minimo i riferimenti ad autori ed opere, così come l’uso di citazioni e note. Queste sono rispettosamente collocate in fondo al volume in modo da non interrompere il flusso del testo.

Anche nell’introduzione, le autrici si avvalgono di riferimenti letterari come Lima Barreto e Guimaraes Rosa. Ma è di Gustave Flaubert – e del suo personaggio Madame Bovary – che si servono per rifarsi al bovarismo, richiamandosi così a Sérgio Buarque de Holanda; un concetto che fa riferimento ad un’alterazione nella percezione della realtà. Le autrici associano le affermazioni di Lima Barreto e Sérgio Buarque de Holanda per affermare che «i brasiliani hanno un qualcosa di Bovary»2. Negare che il Brasile sia come questo personaggio, significherebbe creare le condizioni per una costruzione idealizzata dal paese. Secondo Schwarcz e Starling, il «bovarismo nazionale» si coagula con il “familismo”, ossia l’abitudine di trasformare ciò che è pubblico in privato. È possibile comprendere come in questo risieda la ricerca dell’identità nazionale.

Come si è accennato in precedenza, l’opera si apre affrontando il tema dei primi contatti (e alleanze) tra le società indigene e gli stranieri. In termini generali si può affermare che ci sono poche menzioni di autori accademici nell’opera; quando le rinveniamo, normalmente si tratta di autori classici. Ad esempio nell’introduzione è menzionato Sérgio Buarque de Holanda e le sue formulazioni sul «bovarismo nazionale» e sull’«homem cordial», l’uomo cordiale.

Nel secondo capitolo, dedicato all’impresa coloniale e alla produzione dello zucchero, la menzione a Gilberto Freyre è quasi obbligatoria e viene rispettata. È attraverso la sua opera che ci si approccia alla storia del mondo dello zucchero, seppure in forma letteraria, secondo il gusto delle autrici. Anche dando uno sguardo alla bibliografia si può percepire come questa sia incentrata su opere internazionali e lavori pubblicati in Brasile, soprattutto negli Stati di San Paolo, Rio de Janeiro e Minas Gerais.

In contrasto con la dolcezza dello zucchero, troviamo l’amarezza della schiavitù. Uno dei temi affrontati nel secondo capitolo è infatti ciò per cui in questo periodo il colore diviene «un marcatore sociale fondamentale»3: viene sviluppata una riflessione sui contrasti tra la vita dei nobili che non si dedicavano al lavoro manuale e i servi, che vivevano nelle senzalas, le catapecchie destinate agli schiavi. L’intento è quello di fare il punto sui differenti aspetti della società, per quanto facendo riferimento alla produzione della canna e dello zucchero le autrici si avvicinino all’ambito economico. Ci si concentra dunque sui profitti, sulla produzione dello zucchero e sul commercio. Il tema principale è dunque la canna da zucchero, mentre gli schiavi vengono trattati brevemente per essere poi ripresi nel capitolo successivo.

Il capitolo 3 è dedicato al tema della schiavitù in Brasile. Nell’introduzione, le autrici avevano già affermato come questa esperienza abbia marcato la storia sociale del paese. Si comprende quale sia l’eredità della schiavitù attraverso l’esperienza del dolore e della violenza di cui fu vittima la parte della popolazione povera e nera, così come dai processi di esclusione sociale. Questo capitolo risulta particolarmente duro, tanto quando affronta i maltrattamenti subiti dai neri durante le diverse epoche storiche, quanto nella misura in cui stimola la riflessione sulle pratiche violente esistenti nel paese e rivolte nei confronti della popolazione nera. Ci si oppone alla tesi secondo la quale il brasiliano non sarebbe violento così come a quella in grazia di cui esiste un mito della “democrazia razziale”. Le autrici lanciano poi una provocazione in merito alla permanenza delle pratiche discriminatorie e delle ingiustizie sociali a tutt’oggi patite dai neri.

Uno dei capitoli che spicca maggiormente è l’undicesimo, che tratta del Secondo Regno (1840-1889). Dal momento che Lilia Moritz Schwarcz ha scritto il libro As barbas do Imperador4, era prevedibile che il capitolo privilegiasse la figura di Pedro II. Il testo è particolarmente piacevole: si apprezza la commistione di informazioni relative agli aspetti privati e altre di carattere pubblico. La descrizione dei dettagli dell’intimità dell’imperatore senza dubbio costituisce un’attrattiva per il lettore. Per quel che riguarda le nozze contratte con l’imperatrice, si afferma che:

[…] tuttavia, neppure il migliore delle cerimonie nasconde le frustrazioni e molto si disse su quelle di Pedro. Malgrado le informazioni che abbiamo ricavato riguardo alle virtù dell’imperatrice, sembra che l’imperatore riuscisse a notare solamente i difetti: Teresa Cristina era bassa, obesa e un po’ zoppa. Si dice che il giovane monarca non sarebbe stato in grado di mascherare la sua delusione vedendola e che scoppiò a piangere tra le braccia della contessa di Belmonte, la sua governante, e sulla spalla del maggiordomo Paulo Barbosa, che gli avrebbe detto: «Si ricordi della dignità della sua carica. Faccia il suo dovere, figlio mio»5.

In questo passaggio risulta evidente la sensibilità che permea il libro. Le autrici sottolineano come una figura politica così eminente come Pedro II avesse sentimenti, volontà e problemi sentimentali, così come qualsiasi “quasi anonimo”: promuovono dunque l’umanizzazione dell’imperatore. Il tono intimista della descrizione di cui sopra è accompagnato da un’analisi che privilegia gli aspetti della politica nazionale dell’epoca. Questo è un esempio dello sforzo che le autrici hanno fatto per promuovere una connessione fra il pubblico e il privato. Nel capitolo 17, consacrato alla dittatura militare, le autrici ammettono la mancanza di unanimità in campo storiografico, anche se è possibile rinvenire una presa di posizione storiografica – quantunque anche politica – di fronte al “golpe” e al “regime militare”. L’approccio adottato nel capitolo si approssima dunque alla polarizzazione politica.

I decenni più recenti rimangono fuori dall’opera; le autrici giustificano questa scelta in considerazione del fatto che: «il tempo presente appartiene un po’ a ciascuno di noi e, probabilmente, tocca al giornalista prenderne nota con precisione e spirito critico»6. Marc Bloch discorderebbe dalle autrici su questo punto; nel libro L’Étrange Défaite7, mostra quanto sia importante l’analisi che lo storico produce indagando il tempo presente.

La struttura sensibile e allo stesso tempo critica dei capitoli porta nel lettore il desiderio di “saperne di più”. Le autrici, infatti, malgrado i propositi iniziali, arrivano sino a menzionare i governi Lula e Dilma Rousseff, la crisi politica attuale del Brasile e persino le manifestazioni di piazza che, dal giugno del 2013, hanno reso evidente l’inquietudine del popolo brasiliano di fronte ai molti casi di corruzione che hanno coinvolto i politici di vari partiti. Tuttavia, come detto in precedenza, c’è una scelta precisa alla base della scelta che mette da parte i fatti più recenti della storia nazionale. La giustificazione di ordine metodologico per lasciare il tempo presente ad una prossima opportunità di studio, deriva dal fatto che lo storico lavora con progetti già conclusi e per questa ragione la riflessione storica sui governi Fernando Henrique Cardoso e Lula deve ancora essere affrontata. Tuttavia l’argomentazione appare fragile a fronte di una grande mole di lavori accademici che analizzano il periodo, oltre all’abbondante disponibilità di documentazione prodotta dall’Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística (IBGE).

Nella conclusione le autrici ritornano sulla nozione di cittadinanza e commentano la difficile pratica di questa nozione in Brasile; ci si sofferma quindi sullo sforzo dei brasiliani per ottenere la democrazia e la repubblica. Al contempo sottolineano come la schiavitù modellò la società brasiliana con caratteristiche che permangono tutt’oggi. Risulta tuttavia bizzarro il fatto che le autrici abbiano lasciato da parte il periodo più recente della storia brasiliana, caratterizzato dall’inclusione sociale, da una diminuzione della disuguaglianza sociale, da un aumento dei neri nelle università grazie al sistema delle quote e dall’inserimento dell’obbligatorietà per legge dell’insegnamento della Storia della Cultura afro-brasiliana e indigena (leggi 10.639/2003 e 11.645/2008), una significativa conquista dei movimenti sociali.

Certamente siamo lontani da una situazione ideale, ma lasciare da parte l’analisi di questi cambiamenti genera problemi. Forse è questo il “tallone d’Achille” dell’opera: menzionare l’attualità senza imbarcarsi in un’analisi corrispondente. In altre parole rimarchiamo l’assenza di un’analisi della storia del tempo presente a fronte di riferimenti significativi ad esso.

In realtà si fa un rapido accenno ai provvedimenti sociali del governo Lula. La testimonianza degli scandali legati alla corruzione, coinvolgendo i principali dirigenti del Partido dos Trabalhadores (PT) occupa uno spazio maggiore nel testo. Le manifestazioni di piazza dei brasiliani del 2013 sono menzionate, ma compaiono solamente in termini generici come una manifestazione democratica del popolo brasiliano. Queste, di fatto, lo furono; tuttavia è opportuno precisare che il programma delle manifestazioni del 2013 era aperto anche a istanze più “conservatrici”. Tra le richieste vi era la fine della corruzione, ma anche il ritorno dei militari al potere, la cessazione del sistema delle quote nelle università e dei programmi sociali del governo federale. In calce all’opera, dopo la conclusione, le autrici inseriscono una sorta di “avviso” che avverte che il libro è andato in stampa quando sono avvenute le manifestazioni del 13 e del 15 di marzo del 2015. Questa insistenza nel menzionare fatti del presente senza l’accompagnamento di un’analisi critica risulta problematica sia dal punto di vista metodologico, sia da quello politico. Infine occorre puntualizzare che si tratta di un testo didascalico e analitico, ma soprattutto fluido e la cui lettura risulta piacevole. Si nota la preoccupazione delle autrici nel mantenere un linguaggio adatto ad un pubblico diversificato, non solamente accademico. L’opera risulta di immediato interesse per chi si occupa di storia del Brasile – storici, sociologi, politologi, antropologi, economisti –, ma può suscitare interesse anche al di fuori dell’ambito accademico. I capitoli possono essere letti in ordine progressivo, ma sono autonomi l’uno dall’altro.

Notas

1 CARVALHO, José Murilo de, Cidadania no Brasil: o longo caminho, Rio de Janeiro, Civilização brasileira, 2009 [12 ed.].

2 SCHWARCZ, Lilia Moritz, STARLING, Heloisa Murgel, Brasil: Uma Biografia, São Paulo, Companhia das Letras, 2015, p. 16.

3 Ibidem, p. 71.

4 SCHWARCZ, Lilia Moritz. As Barbas do imperador, D. Pedro II: um Monarca dos Trópicos. São Paulo, Companhia das Letras, 1999.

5 Ibidem. p. 273.

6 Ibidem, p. 20.

7 BLOCH, Marc, A estranha derrota, Rio de Janeiro, Jorge Zahar, 2011 [ed. orig. L’Étrange Défaite, Paris, Société des Éditions Franc-Tireur, 1946].

Andreza Santos Cruz Maynard si è laureata in Storia presso l’Universidade Federal de Sergipe, ha conseguito la Laurea specialistica nell’Universidade Federal de Pernambuco e si è addottorata presso l’Universidade Estadual Paulista “Júlio de Mesquita Filho”. Ricercatrice post-dottorale in Storia dell’ Universidade Federal Rural de Pernambuco, è stata borsista CNPq/FAPITEC con una borsa DCR (2014-2016). Fa parte del Grupo de Estudos do Tempo Presente (GET/UFS/CNPq) ed è professoressa del Colégio de Aplicação dell’Universidade Federal de Sergipe.

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Como conversar com um fascista. Reflexões sobre o cotidiano autoritário brasileiro – TIBURI (DSSC)

TIBURI, Márcia. Como conversar com um fascista. Reflexões sobre o cotidiano autoritário brasileiro. Rio de Janeiro: Record, 2015. 194 pp. Resenha de: SCHURSTER, Karl. Diacronie Studi di Storia Contemporanea, v. 27, n.3, 2016.

«Ciò che è in gioco è la riduzione dell’altro a un oggetto»1. Questa frase, tratta dall’ultimo libro della filosofa e artista gaúcha Márcia Angelita Tiburi forse è quella che meglio riassume tutto lo sforzo dell’autrice per far comprendere come agisca l’individuo fascista. Il suo intento principale è quello di analizzare, attraverso 67 brevi saggi, ciò che rimane del fascismo nella società attuale e quanto sia capace di produrre una soffocante quotidianità autoritaria. Niente di più opportuno nell’attuale congiuntura politica brasiliana.

L’8 marzo del 2016 l’Assemblea Legislativa dello Stato di Pernambuco, nel Nordeste brasiliano, ha cominciato a trattare un progetto di legge, presentato dal deputato Joel da Harpa appartenente al neonato Partido Republicano da Ordem Social (PROS), che dispone la proibizione dell’insegnamento di qualsiasi tematica relativa all’ideologia di genere in ambito educativo2. Questo progetto difende il divieto totale di discutere tematiche relative alla questione di genere cercando nella legislazione brasiliana un apparato atto a difendere un modello di famiglia che viene sistematicamente ridefinito attraverso un grande spazio di lotta e mobilitazione di gruppi e movimenti sociali. Il deputato fa ricorso nell’incipit del suo progetto all’aggettivo “difeso”, derivante dal latino defensus, “proibito”, per legiferare sul divieto dei docenti di trattare di questo argomento. È in questo spazio di discussione, su temi controversi, all’interno di una democrazia imperfetta, che si sono preservati gli spazi per quelle pratiche autoritarie che vengono inquadrate nelle analisi di Tiburi. Il suo intento è quello di promuovere un dibattito attraverso cui sia possibile stabilire un dialogo tra idee, proposte e persone che agiscono sotto l’egida del pensiero fascista utilizzando come principale strumento quello che è da tenere più caro trattando di fascismo: il dialogo. Per quale ragione è così importante per il deputato – appartenente a un milieu religioso e proveniente da un partito conservatore – mettere all’ordine del giorno dell’Assemblea Legislativa un progetto di legge che va contro i piani statali, municipali e nazionali in materia di istruzione? La sua proposta mira a evitare il dialogo e a normare ciò che l’altro può e deve essere, esattamente come una proposta fascista, o meglio, fascistizzante. In questo caso l’autrice ci fornisce una propria definizione di fascismo attraverso diversi esempi e riflessioni filosofiche, molte simili alle conclusioni a cui siamo giunti nella nostra tesi di dottorato3. Il fascismo per lei, come per noi, va molto oltre i limiti della politica o anche dell’economia, è all’interno di un campo filosofico nel quale il centro di gravità è qualcosa d’altro: nel caso dei fascismi, la negazione dell’altro. I testi risultano quindi un elemento di giunzione tra la filosofia di Theodor Adorno, il pensiero di Tzvetan Todorov e l’interpretazione della cultura di Homi Bhabha4.

Il testo da cui nasce il libro, Como conversar com um fascista, è una piccola, ma profonda, riflessione su come diverse pratiche sociali, quando non istituzionali, abbiano prodotto nel Brasile contemporaneo l’estinzione della politica. Questo annichilimento di quella che sarebbe per eccellenza l’arte del dialogo avrebbe generato il terreno fertile per la crescita dell’azione politica fascista e sarebbe presente nel nostro quotidiano attraverso ciò che la filosofia ha identificato come il «genocidio indigeno, il massacro razzista e classista contro i giovani neri e i poveri nelle periferie delle grandi città, la violenza domestica e l’assassinio delle donne, l’omofobia e la manipolazione dei bambini»5. Stando così le cose, il dubbio persistente risiede, qui, nella capacità della società di creare meccanismi capaci di impedire la ripetizione di fenomeni di autoritarismo e di odio attraverso una spiegazione rigorosa, adeguata e allo stesso tempo consistente, per i fenomeni dell’agire politico fascista in grado di negare l’esistenza dell’altro. Uno degli esempi più significativi di questo tentativo si ebbe nella stessa Germania, dove – malgrado l’enorme sforzo di denazificazione della società attuato subito dopo il 1945 e l’impatto del maggio 1968 – la società si mostrò incapace di offrire alle nuove generazioni strumenti critici per il superamento della seduzione del nazismo e dell’estremismo, consentendo l’emergere di un’ampia fascia di giovani affascinati dall’estremismo razzista e lo sviluppo dell’odio6. Lo stesso avviene con il nostro tempo presente. Trascorsi trent’anni dal processo di ridemocratizzazione del Brasile, ancora non siamo riusciti ad avanzare in forma sostanziale nella costruzione di una coscienza collettiva che privilegi la convivenza con le differenze. Viviamo ancora in un paese, come sostiene la filosofa, dove la differenza è qualcosa di insopportabile, dove le pratiche e i crimini dettati dall’odio passano come qualcosa di naturale o storicamente giustificabile. La professoressa Tiburi riafferma l’idea per cui le passioni sono sempre frutto di un apprendimento e si formano in noi attraverso l’esperienza. Il fascista, perciò – o colui che utilizza il fascismo come azione politica – è quell’individuo che ha vissuto e vive costanti esperienze di odio e diviene, con il passare del tempo, incapace di provare affetto per l’altro. Parafrasando l’autrice, questo individuo è stato ed è capace di introiettare l’«odio molto prima di riuscire a pensarlo»7.

È chiaro, in considerazione delle tematiche affrontate nel libro di Tiburi – la crisi e il fallimento della politica nella quotidianità brasiliana, la democrazia e l’autoritarismo, la questione di genere, con un’analisi su ciò che ha chiamato la logica dello stupro, la questione dell’aborto, la paura e l’odio in televisione, i problemi etnici-razziali, specialmente per ciò che riguarda la questione indigena – che l’autoritarismo è molto più che presente nella vita brasiliana. È stato sistematicamente trasformato in una pratica giornaliera e banale, producendo quello che Félix Guattari ha chiamato i microfascismi8. Perché il fascismo sia una realtà, sostiene, bisogna che sia alimentato da pratiche quotidiane, da una routine che lo riproduca e che sia in grado di normalizzarlo. Questo non sarebbe quindi solamente un modo di riprodurre il fascismo come pratica e alternativa, ma, ancor più, di sterminio della democrazia, non quella che abbiamo oggi, di facciata, ma quella che desideriamo, a cui ambiamo. Ciò che risulta abbastanza evidente nel libro è che, fino ad ora, tutte le trasformazioni intraprese dalla società o dalle istituzioni sociali come la scuola non sono state sufficienti a formare una nuova gioventù critica e svincolata dai brutali atti di razzismo e di violenza, simbolica e fisica, contro l’altro. Nelle strade, negli stadi di calcio, nei bar e persino negli ambienti di lavoro si moltiplicano gli atti di razzismo e di esclusione, come sottolinea l’autrice del libro9. Riusciremo a superare, discutendone in modo critico, ciò che è già stato chiamato il fascino, der schöne Schein, di una cultura della violenza e del rifiuto dell’altro nel nostro quotidiano? Il libro risponde a questa domanda in modo sufficientemente obiettivo, affermando che solo attraverso il dialogo e il ritorno alla politica saremo in grado di rigettare l’agire fascista non considerandolo come un alternativa.

Il volume, inoltre, affronta, a partire da Nietzsche e dalla sua teoria dell’eterno ritorno, il cosiddetto peso del rancore, di quello che non può essere dimenticato, di ciò che ogni individuo e società sopporta per un lungo periodo. Bisogna comprendere in certi contesti quali siano i mezzi attraverso cui si produce il risentimento e come questi stessi siano in grado di creare uno spazio per la disseminazione dell’odio. Gli esempi attuali del riemergere dell’odio si sono moltiplicati negli ultimi anni, specialmente in Brasile: contro i neri, le donne, gli omosessuali, i migranti interni o coloro che sono immigrati per ragioni politiche o economiche. Persino nell’ambito degli sport di massa, in particolare nel calcio, la moltiplicazione degli atti di razzismo – non sempre affrontati con la necessaria severità dalle autorità responsabili – e spesso, troppo spesso, perpetrati da giovani, mostrano nel contesto della crisi economica globale, con un tasso di disoccupazione elevato e una frustrazione collettiva, un grande vuoto nel campo della rappresentanza politica e una mancanza di azioni da parte della società civile per porre fine all’incessante costruzione di quel che Peter Gay ha chiamato «l’altro conveniente»10.

I fallimenti e le omissioni del nostro processo educativo sono stati in grado di porre un freno all’emancipazione da questo atto e hanno posto le condizioni perché potesse prosperare e risorgere l’odio razziale, di classe, di gruppo, di genere e contro tutti coloro che vengano identificati intenzionalmente o meno, come un “altro” essenzialmente diverso. L’analisi di questi temi è il centro di gravità di gran parte dei capitoli del libro, attraverso vari esempi che disvelano la quotidianità della società brasiliana.

I diversi saggi che riflettono sulla questione femminile e su tematiche in cui la discussione è molto accesa, come lo stupro e la legalizzazione dell’aborto, risultano dunque fondamentali per avvalorare la difesa costante da parte dell’autrice del rispetto, della tolleranza, della diversità come elementi in grado di inibire la moltiplicazione di sintomi, atti e comportamenti permanenti di discriminazione e di odio, molto spesso legati ad un semplice e brutale disegno volto al ritorno ad un passato che è stato vissuto come un trauma. È in quest’ottica che il libro si trasforma in una lettura necessaria per comprendere il Brasile e le sue attuali sfaccettature. Attraverso l’interpretazione di Márcia Tiburi, è possibile capire che anche le democrazie consolidate dal punto di vista istituzionale, come quella brasiliana, corrono rischi costanti quando le pratiche fascistizzanti diventano una faccenda quotidiana.

Notas

1 TIBURI, Márcia, Como conversar com um fascista. Reflexões sobre o cotidiano autoritário brasileiro, Rio de Janeiro, Record, 2015, p. 191.

2 Per approfondire, cfr., URL:

<http://200.238.101.22/docreader/docreader.aspx?bib=20160308&pasta=Mar%C3%A7o\Dia %2008 > [consultato il 26 maggio 2016].

3 SCHURSTER, Karl, A história do tempo presente e a nova historiografia sobre o Nacional Socialismo, Tesi di Dottorato – Storia comparata, Universidade Federal do Rio de Janeiro, 2012.

4 Cfr. BHABHA, Homi K., I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001 [Ed. originale The location of culture, London, Routledge, 1994].

5 TIBURI, Márcia, op. cit., p. 29.

6 Per approfondire si veda il documentario: Heil Hitler, Herr Lehrer! (LISKA, Peter, Heil Hitler, Herr Lehrer! Jugend unterm Hakenkreuz, 3sat, Germania, 2010, 50’). Il film è ricavato dal libro di Jürgen Kleindienst. Cfr. KLEINDIENST, Jürgen, Herr Lehrer: die Kindheit unter dem Hakenkreuz, 1933-1939, Frankfurt am Main, JKL, 1985.

7 TIBURI, Márcia, op. cit., p. 30.

8 Per approfondire l’argomento si veda: GUATTARI, Félix, Revolução molecular. Pulsações políticas do desejo, São Paulo, Brasiliense, 1981.

9 Cfr. l’articolo su «El País»: ALTARES, Guillermo, «Cerca de 26% dos judeus europeus dizem ter sofrido preconceito por causa de sua religião», in El País, 6 maggio 2014, URL:

< http://brasil.elpais.com/brasil/2014/06/05/sociedad/1401978023_851631.html > [consultato il 22 maggio 2016]. Su un altro fronte, gli atti di razzismo contro i neri, i beurs, i pardos, persino se si tratta di celebri giocatori di calcio, si moltiplicano con estrema frequenza e, quando i loro perpetratori vengono identificati, ci sorprendiamo per la loro giovanissima età.

10 GAY, Peter, O Cultivo do Ódio, São Paulo, Companhia das Letras, 1996.

Karl Schurster – È Schurster è stato ricercatore post-doc e ha conseguito il dottorato in Storia presso l’UFRJ (Universidade Federal do Rio de Janeiro). Insegna come professore dell’Universidade de Pernambuco nel campo di studi della Storia del Tempo presente ed è membro permanente del corso di Laurea in Scienze della Formazione presso la stessa università. Attualmente sta realizzando un secondo stage postdottorale presso la Freie Universität Berlin sotto la direzione del professor Stefan Rinke. I suoi interessi sono rivolti allo studio della politica internazionale, con particolare interesse sui conflitti, in particolare le guerre mondiali e l’olocausto. È stato vincitore del 2° posto al Premio Jabuti, assieme a Francisco Carlos Teixeira e Francisco Eduardo Almeida per il coordinamento dell’Atlântico: a história de um oceano, Rio de Janeiro, Editora Civilização Brasileira, 2013.

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O Cinema Vai à Guerra – TEIXEIRA DA SILVA; SHURSTER (DSSC)

TEIXEIRA DA SILVA, Francisco Carlos; LEÃO, Karl Shurster Sousa; LAPSKY, Igor (Org). O Cinema Vai à Guerra. Rio de Janeiro: Campus, 2015, 274 pp. Resenha de SANTIAGO JÚNIOR, Francisco das Chagas. Studi di Storia Contemporanea, n. 26, v. 2, 2016.

O Cinema vai à Guerra, libro curato da Francisco Carlos T. da Silva, Karl Schurster Leão e Igor Lapsky si inserisce nel solco della tradizione storiografica brasiliana attenta alla relazione fra storia e cinema. È importante contestualizzare il libro nel quadro degli studi storiografici sul cinema degli ultimi decenni. In Brasile, la storiografia si è approcciata al cinema a partire dal manuale A pesquisa histórica no Brasil, di José Honório Rodrigues, pubblicato nel 19521. Tuttavia, è stato solo a seguito della traduzione, nel 1976, del celebre testo di Marc Ferro, Cinema: uma contra análise da sociedade? nella raccolta collettanea História: novos problemas, curata da Jacques Le Goff e Pierre Nora, che ha preso avvio un movimento volto a dare maggior risalto ai film2. Nel 1988, il lavoro pionieristico Cinema e História do Brasil: propostas para uma história, scritto da Jean-Claude Bernardet e Alcides Freire Ramos, operò un’analisi di pellicole di fiction e documentari brasiliani, spesso alla luce della “storia del tempo presente” francese e prendendo in considerazione la proposta di Marc Ferro nel saggio già menzionato: l’uso del film come fonte storica; il film come rappresentazione della storia; il film come agente della storia3.

Negli anni Novanta il cinema, nella produzione accademica brasiliana, venne definitivamente considerato alla stregua di un oggetto storiografico. In quel decennio videro la luce le prime tesi specialistiche e di dottorato su questo tema e vennero pubblicate alcune traduzioni in lingua portoghese dei testi degli storici pionieri nello studio della relazione cinema-storia, come Marc Ferro, Pierre Sorlin e Robert Rosenstone. Tre gruppi di ricerca storiografica risultarono decisivi in questa rielaborazione: nelle università statali di San Paolo vennero realizzati i primi studi, tra cui spiccavano quelli di Alcides Freire Ramos, Cláudio Aguilar, Eduardo Morettin e Cristina Meneguello; dalle università di Rio de Janeiro vennero prodotti testi dedicati ai film storici e alle relazioni tra cinema e ideologie politiche nel XX secolo: qui si distinsero Mariza de Carvalho e Francisco Carlos T. da Silva; a Bahia, il laboratorio “Occhio della storia”, all’interno dell’Universidade Federal di Bahia, organizzò traduzioni e lavori di ricerca indirizzati allo studio dei film e alla realizzazione di recensioni di pellicole storiche, attribuendo una particolare attenzione alla rappresentazione cinematografica del passato, e qui si distinsero storici come Cristiane Nova e Jorge Nóvoa. Nel 1997, in un’importante raccolta collettanea venne pubblicato il testo História e imagem: os casos do cinema e da fotografia, scritto da Ciro Cardoso e Ana Maria Mauad, che in qualche modo ufficializzava il cinema come oggetto storiografico brasiliano4, concetto che venne riaffermato nel 2001, quando un gruppo di storici pubblicò la collettanea A história vai ao cinema5, curato da Jorge Ferreira e Mariza de Carvalho, dedicata esclusivamente a indagare la rappresentazione del passato nel cinema brasiliano6.

Il tema della guerra nel cinema non è nuovo né nello scenario internazionale, né in Brasile, non essendo, peraltro, monopolio della ricerca storica. La maggior parte delle monografie precedenti, infatti, sono state scritte – in ambito brasiliano – da studiosi o critici cinematografici. Nel caso degli studi storici in Brasile, il tema è stato considerato principalmente come una forma di rappresentazione del passato, dal momento che era spesso legato anche con l’affermazione della storia del tempo presente come campo di ricerca per gli storici. L’interesse per il tema si è esplicitato attraverso le principali raccolte miscellanee pubblicate nel primo decennio del secondo millennio: História e cinema: dimensões históricas do audiovisual, del 2005, che presenta una delle cinque sezioni del libro dedicata al tema, che comprende un articolo di Wagner Pinheiro Pereira presente anche in O cinema vai à guerra, e Cinematógrafo: um olhar sobre a história, del 2009, che dedica una delle sue tre parti alla traduzione di testi sulla Seconda guerra mondiale al cinema di ricercatori francesi del calibro di Silvye Lindperg e Jean-Pierre Bertin-Maghit7. Spicca il testo pionieristico di Francisco Carlos T. da Silva, Guerras e cinema: um encontro no tempo presente, pubblicato nel 20048. Quest’ultimo autore ha riunito assieme a Igor Lapsky e Karl Schurtzer una serie di ricercatori legati Laboratório de Estudos do Tempo Presente, la cui sede originaria era presso l’Universidade Federal di Rio de Janeiro, oltre ad altri centri accademici di tutto il Brasile, per comporre la raccolta miscellanea O cinema vai à guerra, dando continuità a una riflessione sull’appropriazione dell’esperienza storica della guerra da parte del cinema e potendo contare sull’infoltirsi delle fila degli storici studiosi di cinema, che dimostrano interesse nei confronti della costruzione visuale del passato, così come della nuova generazione di ricercatori dediti principalmente all’analisi della relazione tra cinema e storia, le cui tesi di dottorato sono state discusse dal 2000 in avanti.

O cinema vai à guerra è organizzato a partire dalla guerra intesa come topos della storia del tempo presente e della rappresentazione del passato (lontano e prossimo). Dal momento che i film su cui si concentrano i ricercatori sono legati a molteplici cinematografie nazionali (tra cui spicca quella nordamericana, ma anche quella francese, tedesca, spagnola, russa…), molti conflitti sono ricorrenti, principalmente quelli che hanno marcato il XX e il XXI secolo come la Prima e la Seconda guerra mondiale, la Guerra del Vietnam, oltre alla Guerra fredda e alla Guerra al terrorismo. Vengono discusse anche le guerre che hanno acquisito un carattere di (ri)fondazione nazionale, come la Guerra di secessione nordamericana e la Guerra civile spagnola.

Nella prospettiva secondo cui la narrazione cinematografica sarebbe «la principale concorrente della narrazione storica»9, i testi del volume riconoscono il ruolo del cinema nell’elaborazione visiva della coscienza storica dei secoli XX e XXI e del suo funzionamento come produttore di immagini del presente e del passato che finiscono per comporre la memoria delle comunità nazionali. Il cinema è un media all’interno sul quale si sviluppano dispute culturali e ideologiche dal momento che il film è «una modalità di rappresentazione, avallata dalla sua ampia ricezione popolare, della storia, uno dei molti modi di narrarla»10.

Si tratta, in totale di dodici capitoli: Gracilda Alves discute della relazione tra occidentalismo e orientalismo nel cinema in Cinema, guerra, civilização e barbárie; Rafael Araújo e Karl Schurster riflettono sulla rappresentazione delle guerre coloniali in Imperialismo e cinema; Carlos Leonardo Bahiense da Silva indaga come i traumi della guerra siano stati inseriti nelle trame dei film tedeschi degli anni Sessanta e nel cinema inglese dello stesso decennio in A grande guerra (1914-1918) no espelho in cui si tratta di shell shocks; il testo Guerra civil espanhola: o cinema do general Franco, di Wagner Pinheiro Pereira discute l’eredità del conflitto spagnolo così come l’uso franchista del cinema; Karl Schurster e Francisco Carlos T. da Silva in A segunda guerra mundial (1939-1945): heroísmo e tragédia trattano delle «narrazioni del disagio»11 a partire dalle pellicole contemporanee e successive al conflitto; il concetto di genocidio/sterminio e le sue rappresentazioni al cinema vengono discusse nel testo Cinema e genocídio no século XX: a análise dos grandes massacres étnicos, religiosos e sociais, di Carlos Leonard da Silva e Ricardo Pinto dos Santos; l’impegno del cinema nello sviluppo del pacifismo nel corso del XX secolo viene trattato nel capitolo Guerra e paz: pacifismo, gênero e identidade na tela di Francisco T. Carlos da Silva; l’inserimento della Guerra fredda nella vita quotidiana da parte delle cinematografie nordamericane e sovietica viene affrontato da Alexandre Busko Valim in Cinema e guerra fria: entre Hollywood e Moscou; la traumatica esperienza sociale del Vietnam per la società nordamericana trovo in A guerra do Vietnã (1965-1975): o trauma de uma geração, di Carlos Leonardo da Silva e Igor Lapsky un luogo di dibattito; infine, le rappresentazioni del terrorismo nel cinema americano sono oggetto del saggio A Guerra ao terror: o pós-guerra fria, di Igor Lapsky. La collettanea introduce tematiche eterodosse nel dibattito su guerra e cinema: il combattimento contro gli alieni nel capitolo A guerra entre mundos: não estamos sozinhos!, di Dilton e Andreza Maynard e il fallimento della società contemporanea negli immaginari post-bellici intesi come futuri distopici in Cinema e distopias: as guerras do futuro, di José Maria Gomes de Souza Neto.

Alcune problematiche-concetti percorrono molti o quasi tutti i testi: tra queste spiccano identità, allegoria e conflitto/guerra. Quest’ultimo permette di accostare alla dimensione bellica degli eventi storici canonici (le guerre mondiali, la Guerra fredda, la Guerra del Vietnam, la Guerra civile spagnola, etc.) prospettive di guerre sociali e civili immaginarie (distopie, guerre contro invasori spaziali) evidenziando un aspetto fondamentale della raccolta di saggi: la guerra è tanto la rappresentazione in film d’ambito definito, ad esempio Apocalipse Now12 o Va’ e vedi13, quanto un’esperienza immaginaria proiettata in film inaspettati come Blade Runner14. La raccolta rifugge dall’approccio più prevedibile del dibattito sui “film di guerra” – genere oltremodo presente nelle trattazione – e si sofferma sui molteplici usi simbolici della guerra fatti nelle pellicole. In quest’ottica, i testi non sistematizzano gli aspetti legati al fenomeno di istituzionalizzazione storica della guerra come tema e genere nelle diverse cinematografie nazionali analizzate. Da un lato questo denota un approccio trasversale al problema storico (la guerra) che dimostra come le pellicole furono, nei diversi contesti sociali, armi, mezzi catartici, forme di protesta, strumenti di propaganda, proiezioni delle inquietudini collettive e di altre sensibilità, allegorie politiche e così via. Si comprende perciò come la maggior parte dei capitoli non segua le tradizionali partizioni della cinematografia nazionale (sebbene gli Stati Uniti siano distinti), già oggetto di critica da parte di storici come Michelle Lagny15.

L’identità è un altro problema centrale, dal momento che permette di capire come le rappresentazioni della guerra siano connesse con processi storici come il colonialismo, l’imperialismo, il genocidio… La distinzione noi/loro ossia attraverso le categoria antitetiche di alleato/nemico, indigeno/straniero, fedele/traditore, terrestre/extraterrestre è una costante che permette di comprendere come le immagini della guerra mutino con il tempo. In alcuni passaggi emerge il riferimento a Edward Said, dal momento che l’intera raccolta di saggi è permeata da una problematizzazione dell’identità come esperienza storica legata ai giochi di potere prodotti dall’interazione dei centri capitalisti con le proprie periferie, dal momento che entrambi sono stati toccati dall’esperienza del colonialismo e dell’imperialismo. Questo permette molteplici interpretazioni della guerra al cinema, che diventa una finestra per indagare la cultura politica del XX e XXI secolo, facendo del ricorso alla lettura allegorica una delle principali chiavi analitiche degli autori – anche se metodologicamente non viene dichiarata o problematizzata –, che interpretano una serie di film ora come sintomi, ora come cause dei processi politici in cui si trovano compresi. Evidentemente, negli scenari politici caratterizzati dalla tensione politica, molti cineasti impiegarono l’allegoria nella narrazione cinematografica, espediente comune al cinema moderno, dal momento che permetteva la costruzione di «segni di una nuova coscienza storica»16 tipica della contemporaneità. In molti casi gli autori del libro seguono queste indicazioni (quando il film si presenta come allegorico); in altri considerano le pellicole come sintomatiche di altre situazioni che non gli sono proprie, la cui dimensione e il cui impatto storico possono essere comprese solamente quando le si inserisca nella prospettiva dell’interscambio fra il cinema e le comunità politiche in cui questo si è sviluppato.

Notas

1 RODRIGUES, José Honório, A Pesquisa histórica no Brasil, São Paulo, Companhia Editora Nacional, 1978.

2 FERRO, Marc, O filme: uma contra-análise da sociedade, in LE GOFF, Jacques, NORA, Pierre (org.), História: novos objetos, Rio de Janeiro, Francisco Alves, 1995, pp. 199-215.

3 RAMOS, Alcides Freire, BERNARDET, Jean-Claude, Cinema e história do Brasil, São Paulo, Contexto/EDUSP, 1988.

4 CARDOSO, Ciro, MAUAD, Ana Maria, História e imagem: os casos do cinema e da fotografia, in CARDOSO, Ciro, VAINFAS, Ronaldo (org.), Domínios da história: ensaios de teoria e metodologia, Rio de Janeiro, Editora Campus, 1997.

5 CARVALHO, Mariza, FERREIRA, Jorge (org.), A história vai ao cinema: vinte filmes brasileiros comentados por historiadores, Rio de Janeiro, Record, 2001.

6 Per approfondire la nascita e il consolidamento della ricerca sul cinema nella storiografia brasiliana, si veda: SANTIAGO JR., Francisco das C. F., «Cinema e historiografia: trajetória de um objeto metodológico (1971-2010)», in História da historiografia, 8, 1/2012, pp. 151-173, URL: < http://www.historiadahistoriografia.com.br/revista/article/view/270/261 > [consultato il 3 marzo 2016]

7 CAPELATO, Maria Helena, MORETTIN, Eduardo, NAPOLITANO, Marcos, SALIBA, Elias (a cura di), História e cinema: dimensões históricas do audiovisual, São Paulo, Alameda, 2007; NÓVOA, Jorge, FRESSATO, Soleni Biscouto, FEIGELSON, Kristian (a cura di), Cinematógrafo: um olhar sobre a história, Salvador-São Paulo, EDUFBA -Editora UNESP, 2009.

8 SILVA, Francisco Carlos Teixeira da, «Guerras e cinema: um conto do tempo presente», in Tempo, 16, 1/2004, pp. 93-114, URL: <http://www.historia.uff.br/tempo/site/?cat=44> [consultato il 3 marzo 2016.

9 SILVA, Francisco Carlos Teixeira, LEÃO, Karl Shurster Sousa, LAPSKY Igor (org.), O Cinema Vai à Guerra, Rio de Janeiro, Campus, 2015, p. XI.

10 Ibidem, p. XII.

11 Ibidem, p. 91.

12 COPPOLA, Francis F., Apocalypse Now, United Artists, Stati Uniti, 1979, 150’.

13 KLIMOV, Elem, Иди и смотри, Mosfilm-Belarusfilm, Unione Sovietica, 1985, 145’.

14 SCOTT, Ridley, Blade Runner, Warner Bros, Stati Uniti, 1982, 117’.

15 LAGNY, Michelle, Cine y historia: problemas y métodos en la investigación cinematográfica, Barcelona, Bosch, 1997.

16 XAVIER, Ismail, A alegoria histórica, in RAMOS, Fernão Pessoa (a cura di), Teoria contemporânea do cinema: pós- estruturalismo e filosofia analítica, São Paulo, SENAC, 2005, pp. 339-379, p. 362.

Francisco das Chagas F. Santiago Júnior si è addottorato in storia presso l’Universidade Federal Fluminense, Niterói/Brasil con una tesi sull’appropriazione delle religioni afro-brasiliane nel cinema del periodo del regime dittatoriale degli anni Settanta. Lavora sulla relazione fra storia e cinema a partire da differenti assi di ricerca: il cinema e l’afro-brasilianità, la negoziazione del patrimonio culturale all’interno del cinema brasiliano, l’uso del passato nel cinema nazionale. Ha pubblicato numerosi articoli sulla cultura visuale, la teoria dell’immagine e la metodologia della ricerca multimediale.

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Enciclopédia de Guerras e Revoluções do Século XX – TEIXEIRA DA SILVA et al (DSSC)

TEIXEIRA DA SILVA, Francisco Carlos; MEDEIROS, Sabrina; VIANNA, Alexander Martins (Orgs). Enciclopédia de Guerras e Revoluções do Século XX, 3 voll. Rio de Janeiro: Campus/Elsevier, 2014-2015, 496 + 304 + 672 pp. Resenha de: CHAVES, Daniel. Diacronie Studi di Storia Contemporanea, v. 28, n. 4, 2016.

Inizialmente pubblicata nel 2004, sebbene in un unico e imponente volume, l’Enciclopédia de Guerras e Revoluções do Século XX veniva proposta all’alba del XXI secolo come un lavoro nel solco di una tradizione permeata da opere di riferimento utilizzate da diverse generazioni per avvicinarsi al campo della conoscenza, nelle scienze umane così come nel campo della tradizione brasiliana. In un simile contesto, non ci si basa perciò solo su una tradizione fondata su dizionari ed enciclopedie, ma è possibile dire che questa esperienza abbia conosciuto un rinnovamento attraverso il carattere peculiare, autonomo, plurale e autoriale che quest’opera possedeva.

È tuttavia necessario citare opere fondative che l’hanno preceduta come il Dicionário de Ciências Sociais1 o il Dicionário do pensamento social do século XX2 (curato da William Outhwaite e Tom Bottomore, con la consulenza di Ernest Gellner, Alan Touraine e Robert Nisbet, oltre all’essenziale contributo brasiliano di Wanderley Guilherme dos Santos e Renato Lessa), che hanno contribuito alla formazione di generazioni di studenti, ricercatori e professionisti. Queste opere, votate ad un interesse tecnico nei confronti degli scritti collettanei in grado di compendiare una conoscenza qualificata e ampia sui vari temi, riunivano voci e informazioni in modo strutturato e con una localizzazione precisa – grazie ad una definizione sintetica –, in tempi antecedenti alla vastità nebulosa del World Wide Web.

Al di là della concezione dei dizionari – la cui progettazione concettuale rigorosa prevede un giudizioso ricorso alla concisione in merito a ciò che viene affermato nelle sue voci o definizioni –, l’enciclopedia come progetto olistico di conoscenza è notoriamente più ampia e ricerca una maggior profondità analitica. L’enciclopedia come summa e riassunto del sapere, risale genealogicamente alle origini della nostra contemporaneità, in quelle colonne che vennero posate con il progetto illuminista europeo di D’Alembert e Diderot (Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, 1751-1766) o degli scozzesi Colin Macfarquhar e Andrew Bell (British Encyclopaedia, 1768-1771). In un periodo caratterizzato da una costante dialettica politica come il XIX secolo, la letteratura basata su una critica beffarda sviluppata dai detrattori dei Lumi metteva in scacco l’eccesso di descrizione concesso a concetti – per quanto innovatori – come quello economico del laissez-faire o delle allora contemporanee teorie politiche rivoluzionarie. Ancora oggi l’impresa enciclopedica è una missione audace.

La realizzazione di un’opera come questa è orientata intorno a concetti tanto vitali quanto lo possono essere l’idea di guerra o la forza trascendentale delle rivoluzioni, per giungere ad un approccio al tema che sia tecnicamente in grado di guidare gli sguardi concentrati sulle problematiche centrali care allo storico fedele alla tradizione, interessato ad osservare gli assi portanti, le questioni più rilevanti, le logiche sistemiche che si creano intorno a un’analisi categorizzante e tassonomica. Nella quarta di copertina gli organizzatori esplicitano la loro scelta affermando che «si tratta di opere complete, che presentano idee, movimenti, fatti e personaggi che hanno modellato l’inizio del secolo, tanto nel campo della politica e dell’economia, quanto nel campo delle arti e delle scienze». Non è pensabile affermare che ci sia stata una tematica durante il corso del XX secolo in grado di generare maggiore preoccupazione nelle menti – sia del popolo, sia delle élites – che i rischi e le opportunità delle rivoluzioni; allo stesso modo è difficile negare che le guerre siano state una costante durante l’intero secolo. La scelta – strategicamente posizionata tra la logica volta ad evidenziare gli elementi caratterizzanti di quei tempi e il riconoscimento della polisemia acquisita da tali termini per via della loro volgarizzazione – mostra la tenacia e l’eclettismo necessari per un lavoro di tale portata.

Il marchio concettuale di “rivoluzione” è impiegato nel suo significato originale, quello di mutamento e destrutturazione sociale o politica. Tuttavia, con l’evoluzione e l’uso costante, tale concetto finirà per abbracciare vari campi che trascendono la sua sola genesi politologica. Deve essere citata anche, a fronte di un simile eclettismo, la scelta di un linguaggio comprensibile e basato sull’utilità didattica dei riferimenti bibliografici per ulteriori approfondimenti. Ciò che sorprende, a distanza di dieci anni dalla prima edizione, sono l’audacia e la foggia di un’opera che non solo presenta la vivacità necessaria per rinnovarsi, ma che si sviluppa in tre volumi, proponendo in modo chiaro un approccio in segmenti periodizzanti per la comprensioni del “lungo” XX secolo. La riedizione dell’enciclopedia in quanto tale, in un’edizione più ampia e ambiziosa, indica la sorprendente vivacità delle opere di erudizione e della minuziosa analisi tecnica in sé, in tempi in cui l’informazione è accessibile, a portata di mano.

Il primo volume affronta in modo logico il primo momento della débâcle della belle époque, sottolineando i concetti e i termini fondamentali degli anni contraddittori del capitalismo liberale, degli imperialismi trionfanti e di una società peculiare – preconizzando, in un’epoca di autoregolazione, il termine della longeva capacità di esercizio critico di fronte al proprio tempo. Osservando il periodo compreso tra il 1901 e il 1919, emerge la preoccupazione per il preludio e lo schiudersi di un conflitto che avrebbe lasciato come eredità la fine dell’egemonia europea sul pianeta, per il clima di incertezza apportato dalla Grande guerra e dalle sue rovine, che inevitabilmente contraddistingue questo primo tomo.

Il secondo volume, incentrato sul periodo che va dal 1919 al 1945, discute uno dei periodi maggiormente indagati dalla storiografia contemporanea: l’epoca delle infruttuose trattative di pace, i “folli” anni Venti e la loro svolta radicale con la crisi del ’29, l’ascesa degli autoritarismi fascisti, le tragedie dell’olocausto e delle bombe atomiche, in quel contesto di insicurezza che avrebbe dato vita alle condizioni grazie alle quali lo scenario della Seconda guerra mondiale si sarebbe sviluppato in maniera inequivocabile, ponendo le condizioni per un nuovo ordine mondiale post-europeo dopo secoli di incontrastata egemonia. Gli anni che seguirono, tuttavia, non avrebbero mitigato la caratteristica che li avrebbe marcati: un terrore sviluppato per effetto delle minacce di violenza generalizzata come elemento fondamentale attraverso il quale comprendere le origini del nostro tempo.

Infine, con un maggior respiro, giustificato in funzione della maggior complessità degli studi storici, la fine dell’epoca dei grandi conflitti mondiali e i controversi tempi della Guerra fredda (1945-1991), oltre al già citato nuovo ordine mondiale, vengono trattati nel più voluminoso dei tre tomi. L’emergere di condizioni nuove e rivoluzionarie per l’ascesa della bipolarità sia sull’asse Nord-Sud sia su quello Ovest-Est, e successivamente temperate da quella rottura rappresentata dalla posizione terzomondista o non allineata, è considerata strutturale per la comprensione della guerra e della rivoluzione come elementi persistenti nella contemporaneità, anche attraverso nuovi campi come gli studi comportamentali, le epistemologie o il ruolo così intrigante e sensibile delle rivoluzione tecnologiche, che avrebbe sbilanciato le relazioni nel difficile e incerto avvio del XXI secolo.

La rilevazione di quella che è la forgia analitica dello storico, del politologo, del sociologo o dell’antropologo, dello specialista di studi internazionali e del giurista, ci distingue e ci rende in maniera costruttiva sempre di più lettori critici e globalmente attenti ai concetti, ai temi e ai problemi più rilevanti del corso dell’umanità relativamente a quel periodo storico. Il ruolo di sforzi onesti come questa Enciclopédia, nei suoi tre aggiornati volumi, è quello di espandere il carattere olistico di una simile discussione su temi di carattere storico, ma anche sul ruolo stesso del pensatore contemporaneo come costruttore di un interesse globale, antiutilitarista e unitario, che possa essere un lettore del tempo con una torcia in mano per aiutare ad orientarsi all’interno del dibattito pubblico. In tal senso, questa opera densa e fitta ci invita ad un’intensa passeggiata nella totalità come ad una questione propria delle Scienze umane, che non può essere affrontata da qualche viandante improvvisato e solitario, ma solamente attraverso il congiunto di una raccolta di idee.

Notas

1 Dicionário de Ciências Sociais, Rio de Janeiro, FGV, 1986.

2 OUTHWAITE, William, BOTTOMORE, Tom, Dicionário do pensamento social do século XX, Rio de Janeiro, Ed. Jorge Zahar, 1996.

Daniel Chaves – È professore associato di Storia Contemporanea presso l’Universidade Federal do Amapá (Unifap). Dottore in Storia comparata nel corso di laurea specialistica in Storia Comparata (UFRJ), è docente del Programa del corso di laurea specialistica Mestrado em Desenvolvimento Regional (PPGMDR) e ricercatore senior dell’Observatório de Fronteiras do Platô das Guianas (OBFRON) e del Círculo de Pesquisas do Tempo Presente (CPTP), entrambi afferenti all’Unifap.

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