O Brasil inventado pelo Visconde de Porto Seguro. Francisco Adolfo de Varnhagen, o Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro e a construção da ideia de Brasil-Colônia no Brasil-Império (1838-1860) | Renilson Rocha Ribeiro

Lo storico Renilson Rosa Ribeiro è attualmente professore dell’Universidade Federal do Mato Grosso, dove svolge i suoi incarichi accademici di docenza e ricerca nel campo della didattica della storia e della storia del Brasile ottocentesco. Anche se radicato con anima e cuore a Cuiabá, la formazione di Renilson R. Ribeiro è avvenuta a São Paulo, stato di nascita dell’autore, presso l’Universidade Estadual de Campinas (Unicamp). L’opera intitolata O Brasil inventado pelo Visconde de Porto Seguro, pubblicata nel 2015, è il risultato della sua tesi di dottorato in storia culturale.

Il libro rappresenta prima di tutto un’opportunità di prendere contatto con il lavoro di questo promettente ricercatore, ma si tratta di una pietra miliare nella storiografia brasiliana sul periodo ottocentesco, soprattutto per ciò che riguarda gli studi sulla costruzione di una storia nazionale del XIX secolo coerente, in grado di conferire un significato storico leggittimatore a quello che era il neonato Stato nazionale monarchico brasiliano. L’opera tratta delle tappe fondanti della storiografia nazionale – fissate intorno alla figura di Francisco Adolfo de Varnhagen (São João de Ipanema 1816 – Viena 1878) e della sua opera História Geral do Brasil1–, del ruolo esercitato in questo processo dall’IHGB (Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro) e del ruolo centrale che lo sviluppo di una narrazione storica del Brasile coloniale esercitò nella creazione del Brasile monarchico del Secondo Impero.

Il libro è diviso in tre capitoli, ciascuno contenente una propria tesi, che concorrono nella parte conclusiva ad un solo esito: l’invenzione storica del Brasile Colonia è parte di un progetto politico di costruzione dello Stato nazionale improntata sul modello del Secondo Regno. Il sottotitolo del libro Francisco Adolfo Varnhagen, o IHGB e a construção da ideia de Brasil-Colônia no Brasil-Império (1838-1860) anticipa la struttura del testo proposta dall’autore.

Il primo capitolo, Invenções dos outros: as biografias de Varnhagen e a escrita da história do Brasil (1878-1978) presenta il processo di invenzione biografica di Varnhagen quale patrono della storia del Brasile e storico simbolo del progetto storiografico dell’IHGB, elaborato a partire dagli scritti biobibliografici realizzati tra il 1878, anno della morte di Varnhagen, e il 1978. Attira l’attenzione la strategia teorica e metodologica scelta dall’autore per affrontare la questione della biografia di Varnhagen: coerentemente con i suoi convincimenti teorici, Renilson R. Ribeiro non si propone di realizzare una nuova biografia di Varnhagen o di ricostruire il percorso storico del visconte di Porto Seguro, ma si lancia in qualcosa di più audace. Ispirato da Dominick LaCapra e dalla sua Nuova storia intellettuale2, l’autore analizza Varnhagen come un testo, ossia, mettendo in evidenza il modo in cui le biografie hanno costruito un Varnhagen-IHGB, al servizio di un progetto istituzionale volto a trasformare l’IHGB nella “Casa della Memoria Nazionale”.

In questa modo l’autore fugge dalla tentazione biografica di dare un’unica e coerente interpretazione della vita di colui di cui viene scritta la biografia; rifugge anche da una prospettiva storicistica che condurrebbe a un’esternalità al testo. La sua concezione del contesto si rifà in misura maggiore ad un’intertestualità articolata piuttosto che all’intento oggettivista di tracciare un panorama dei fatti al di fuori del testo, caratteristica che lo metterebbe in rotta di collisione con i suoi convincimenti teorici.

I documenti analizzati in questa prima sezione sono le biografie, i necrologi, gli encomi, le memorie e le prefazioni che miravano a esaltare Varnhagen e che fiorirono dopo la sua morte, nel 1878, all’interno della stessa rivista dell’IHGB. Renilson R. Ribeiro analizza come l’IHGB si appropriò della figura di Varnhagen per costruire una tradizione storiografica brasiliana. Realizzando reiteratamente biografie su Varnhagem e concedendogli il titolo di patrono della storia del Brasile, l’IHGB si poneva come istituzione autorevole e significativa nel processo di produzione della storia del Brasile. Fare di Varnhagen un eroe del pantheon degli artefici della storia del Brasile significava glorificare anche l’IHGB.

Nel primo capitolo, Varnhagen assurge al ruolo di oggetto costruito dai discorsi prodotti dall’IHGB e dagli intellettuali vicini a questa istituzione. Nel secondo capitolo, Varnhagen abbandona la condizione di oggetto delle rappresentazioni discorsive e diviene soggetto della sua storicità.

In Invenções de si: as cartas de Varnhagen e a escrita da história do Brasil, l’autore analizza le rappresentazioni che Varnhagen diede di sé, dell’IHGB, del ruolo dello storico, delle tensioni e delle dispute interne all’IHGB e dei testi storici. Renilson R. Ribeiro mostra un Varnhagen che rappresenta se stesso come un intellettuale di Stato e che vede nel processo di scrittura e pubblicazione della História geral do Brasil un incarico politico in favore dello Stato brasiliano e della monarchia.

L’autore mostra i retroscena delle scelte documentali, tematiche e cronologiche dell’opera di Varnhagen, così come la sua frustrazione di fronte alla ricezione silenziosa dell’opera da parte dei colleghi dell’IHGB. La strategia del testo permane evidenziando, per mezzo delle lettere, un Varnhagen in cerca di un riconoscimento che non ottenne in vita, ma solamente dopo la sua morte.

Qui sarebbe interessante rilevare che, mentre Varnhagen cercava di acquisire un controllo sulla costruzione di sé – o meglio, sulla base di come desiderava essere rappresentato – la sua memoria cominciò a essere utile all’IHGB per i propri interessi solamente nel momento in cui lui non ebbe più modo di controllare e influire su questo processo. A prescindere dal risentimento in vita per l’assenza di riconoscimento da parte dei suoi colleghi, l’eredità di Varnhagen si rafforzò in tal misura da rendere l’IHGB dipendente dalla sua memoria per legittimarsi come istituzione-autorità nell’edificazione della storia del Brasile. Per via del suo costante dialogo con la storiografia tradizionale sempre in cerca di tematiche, Varnahgen non è visto solo come un compilatore di documenti, ma come un intellettuale protagonista nel processo di scrittura della storia del Brasile. Per Renilson R. Ribeiro, il processo di ricerca e organizzazione dei documenti, di cui Varnhagen fu un uomo chiave, era zeppo di questioni storiografiche molto sentite nel Brasile del XIX secolo: «la scelta di cosa raccogliere, sistematizzare, archiviare e pubblicare ha dischiuso i sentieri che la narrazione storica desiderava tracciare»3.

Nel terzo capitolo del libro, Renilson R. Ribeiro analizza il processo di costruzione dell’intreccio cronologico e tematico dell’opera di Varnhagen alla luce del progetto di sapere-potere che l’opera si propone, cioè di costruire una narrazione in grado di stabilire un’identità essenzializzata e coerente della nazione con l’intento di delimitarla come un’entità univoca, omogenea e imprescindibile. In Inventando a Colônia “Coroada”: os enredos cronológicos e temáticos da Historia geral do Brazil (1854/1857) e o tempo Saquarema (1839-1860) Renilson R. Ribeiro, a partire dall’analisi dettagliata della prima edizione dell’opera História geral do Brasil, porta il lettore a stravolgere il passato coloniale brasiliano per accogliere la costruzione discorsiva elaborata da Varnhagen in funzione del progetto di fabbricazione della nazione come verità storiografica.

È tutto qui: un manuale su come inventare la nazione, fissare la sua identità, a partire dalla costruzione di una narrazione storica. Si tratta delle origini della nazione, dei suoi miti fondativi, della formazione del popolo, degli episodi simbolici, della scelta degli eroi rappresentativi – tra tanti altri elementi costituenti di questa narrazione – che fissano l’idea fondante del Brasile coloniale: una specie di infanzia della nazione, la cui inesorabile maturità, nella prospettiva varnhageniana, sarebbe stata lo Stato monarchico del Secondo Impero.

Renilson R. Ribeiro si propone di «fare la storia dell’emergere di un oggetto, di un sapere, di un tempo e di uno spazio di potere: il passato coloniale brasiliano»4. In questa triade, il passato stabilisce il campo d’azione del sapere in questione, la storia; il termine coloniale marca il periodo definito e, infine, l’aggettivo brasiliano punta alla progettazione di un territorio. All’interno di questa triade, il popolo è il soggetto e le sue azioni rappresentano gli episodi attraverso cui costruire una storia marcata dalla linearità e dalla continuità fino al processo di consolidamento come Stato indipendente.

L’origine della nazione fu così fissata nell’episodio della scoperta del Brasile, la formazione del popolo nel processo di descrizione delle tre razze (indios, neri e portoghesi), nel mito fondatore (l’invasione olandese) e, successivamente, nelle relazioni mai interrotte fino al conseguimento della maturità della nazione (indipendenza del Brasile).

La definizione della storia coloniale brasiliana a partire da questa trama narrativa fissata da Varnhagen si impose come modello e finì per essere riprodotta. Secondo Renilson R. Ribeiro, nei manuali scolastici e nei libri didattici di storia del Brasile elaborati fin dal secolo XIX e nel corso del XX secolo – nonostante presentino differenze teoriche, metodologiche e ideologiche – è possibile identificare la griglia cronologica e tematica stabilita da Varnhagen, a partire dalla narrazione della scoperta del Brasile da parte dei portoghesi, passando per il tema della formazione etnico-razziale del popolo brasiliano, il processo di conquista e il dominio coloniale, le invasioni olandesi e il processo che culmina con l’indipendenza del Brasile: «in larga misura digerirono l’idea della Colonia come culla del Brasile indipendente, o meglio, della storia come “biografia della nazione”»5.

Dunque, O Brasil inventado pelo Visconde de Porto Seguro è un libro che pone nuovamente una questione importante per coloro che lavorano per la produzione della conoscenza: da chi o da cosa è prodotta la conoscenza? A chi serve il mestiere di storico? Che tipo di relazioni gerarchiche di autorità legittima? A che tipo di relazioni di potere è indissolubilmente legato?  Tra le diverse questioni affrontate da Renilson R. Ribeiro questa sembra essere fondamentale. Varnhagen era cosciente che il suo progetto di scrivere una storia del Brasile serviva una causa politica, ossia, aveva una chiara finalità: aiutare a impilare i mattoni dello Stato monarchico brasiliano fornendogli una storia dotata di costumi e di un’identità coerente. Il progetto di Varnhagen chiarisce le relazioni di sapere e potere che attraversano la produzione storiografica e getta luce anche sulla ricerca storica odierna e le sue conseguenze politiche per il tempo presente.

La varietà attuale dei temi di ricerca e degli approcci teorici che sono presenti nei corsi di laurea e negli istituti di ricerca, non fa della produzione storica e storiografica qualcosa di neutro rispetto ai progetti politici, siano essi istituzionali, partitici, associativi o personali. Urge più che mai una necessaria presa di posizione, una chiarezza intellettuale riguardo alle conseguenze della scrittura della storia.

Parafrasando una categoria gramsciana, ogni intellettuale è organicamente legato a un progetto di potere, ogni storia è compromessa nel servire come fonte di legittimità e autorità alle gerarchie che costituiscono relazioni di potere. Renilson R. Ribeiro ci mostra che Varnhagen scrisse la sua storia consapevole del progetto di potere che difendeva; questo ci porta a domandarci: i nostri attuali ricercatori, dottorandi e storici sanno quali cause stanno servendo le loro storie?

Notas

1 VARNHAGEN, Francisco Adolfo de, História geral do Brasil. Antes da sua separacao e independencia de Portugal, 3 voll., Belo Horizonte-São Paulo, Itiatia – Editora de Universidade, 1981.

2 Cfr. LACAPRA, Dominick, Rethinking intellectual history. Texts, contexts, language, Ithaca- London, Cornell University Press, 1983.

3 RIBEIRO, Renilson Rosa, O Brasil inventado pelo Visconde de Porto Seguro: Francisco Adolfo de Varnhagen, o Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro e a construção da ideia de Brasil-Colônia no Brasil-Império (1838-1860), Cuiabá, Entrelinhas, 2015, p. 231.

4 Ibidem, p. 46.   5 Ibidem, p. 416.

Mairon Escorsi Valério si è addottorato in Storia culturale presso l’UNICAMP ed è professore associato dell’Universidade Federal da Fronteira Sul (UFFS) – Campus Erechim/RS. I suoi studi vertono sulla storia contemporanea dell’America Latina e sulla didattica della storia. È autore del libro Entre a cruz e a foice: D. Pedro Casaldáliga e a significação religiosa do Araguaia (Jundiaí, Paco Editorial, 2012).


RIBEIRO, Renilson Rosa. O Brasil inventado pelo Visconde de Porto Seguro. Francisco Adolfo de Varnhagen, o Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro e a construção da ideia de Brasil-Colônia no Brasil-Império (1838-1860). [?]:Entrelinhas, 2015, 448 pp. Resenha de: VALÉRIO, Escorsi.  Diacronie – Studi di Storia Contemporanea, n. 27, v. 3 2016.

Historiografia e Nação no Brasil (1838-1857) | Manoel Luiz Salgado Guimarães

O livro de Manoel Luiz Salgado Guimarães, Historiografia e Nação no Brasil (1838-1857), [1] me fez reviver, pelo que recordo, a primeira vez em que a História me chamou atenção: uma visita ao Museu Histórico Nacional, no começo da década de 1970. Lembro ter notado a convergência entre o que aprendia nos livros didáticos, nas revistas ilustradas, nas festas cívicas e na narrativa das professoras e o que via no Museu: uma história de grandes homens que superavam as limitações de seu tempo e o moldavam à sua vontade. O livro de Manoel Guimarães esclarece as origens da cultura histórica que engendrou a constatação feita por mim, naquela visita.

Ao desvendar as raízes da historiografia brasileira, Manoel Guimarães aponta os signos que a demarcaram desde o início. Essa, desde onde percebo, é uma contribuição importante e oportuna, no momento em que a formação do historiador passa por uma inflexão decisiva e o seu mais significante campo de atuação vive uma crise surda. A distinção dos cursos de bacharelado e licenciatura e os questionamentos sobre a importância da área de História na Educação Básica reeditam questões análogas àquelas presentes na origem da disciplina no Brasil.

O livro abarca os primeiros vinte anos de atuação do Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro (IHGB). Nesse período, Manoel Guimarães identifica o “processo de promoção da nação brasileira”, quando os estudos históricos buscaram atender aos objetivos de consolidação do Império e de formação da nação. Daí terem assumido importância política, a qual condicionou os seus primeiros passos e lhes delegou algumas de suas características mais duradouras.

A análise encaminha as conexões havidas entre os objetivos políticos e ideológicos do Império e a escrita produzida pelo IHGB. Identifico, nela, três movimentos. Primeiramente, as questões que importavam ao recém-constituído Império do Brasil: o contexto geopolítico no qual o país estava inserido; as relações entre as diversas regiões do Império; o perfil populacional, com imensas parcelas da população consideradas impróprias, diante do modelo de nação almejado. Em seguida, o perfil dos intelectuais ligados ao instituto. Em que pesem as diferenças de origem social, tinham em comum a formação – a Universidade de Coimbra – e a carreira – marcadamente dependente das oportunidades abertas pelo serviço público. Finalmente, a produção do IHGB. A questão indígena, o reconhecimento do território e os fatos históricos regionais ocuparam grande parte da produção da revista trimestral do instituto.

Os três movimentos sustentam um exame minucioso da cultura histórica que deu origem à historiografia brasileira. A análise que deles resulta desvenda os vínculos que ligavam o IHGB ao Estado imperial, tanto do ponto de vista programático (dos objetivos do instituto) quanto do ponto de vista operacional (a sua manutenção). Ela estabelece a identificação do instituto brasileiro com o modelo francês no qual se pautava. Ela esquadrinha a produção de seu sócio mais importante, Francisco Adolfo de Varnhagen, percebido como o formulador “da base da nacionalidade brasileira” a partir da perspectiva da elite imperial.

Trata-se de uma história da historiografia brasileira, demarcada pela indicação do significado assumido por ela, em meados do século XIX: para os sócios do instituto, a História constituía uma instância política – tanto de seu aprendizado, quando do seu exercício. Nesse sentido é que Manoel Guimarães encaminha a visão de história compartilhada pelos homens do instituto: uma história que se pretendia um manancial de exemplos e lições para os governos e comprometida com o progresso, desde certa perspectiva. Tal visão sustentou o caráter civilizador da escrita de uma História do Brasil, pelo IHGB, concretizado, sobretudo, pela consolidação de uma narrativa histórica que integrava os diversos elementos da população em acordo com uma ordenação que designasse o lugar de cada um, segundo uma hierarquia bem definida.

Da consideração da obra de Varnhagen, para quem a herança europeia deveria constituir a matriz da nacionalidade, emerge o argumento central do livro. A escrita da história do IHGB, demarcada pelos compromissos políticos com o Império, elegeu o Estado como principal agente, como “o motor da vida social”, instituindo um ideal de nacionalidade profundamente dependente dos interesses da classe dirigente e por ela demarcado. Da mesma forma, ela pretendeu “gerar sentimentos condicionadores de uma comunidade como passo relevante para o surgimento da nação brasileira” (p.229-258). A história formulada a partir desses princípios acentuava a participação dos colonos brancos no passado e encaminhava a sua liderança no presente e no futuro. Ela orientava uma visão do passado que delegava para as margens imensas parcelas da população brasileira.

A reflexão presente em Historiografia e Nação no Brasil (1838-1857), desde a publicação de seu resumo, deu azo a diversos estudos sobre a trajetória da disciplina, conforme apontam Paulo Knauss e Temístocles Cézar.[2 ]Essa, porém, não é sua única contribuição. Ela nos convida a refletir, também, sobre o quanto aquelas raízes permanecem latentes na cultura histórica, especialmente aquela difundida pelo saber histórico escolar. Esse, me parece, é um desafio importante que deriva da obra de Manoel Luiz Salgado Guimarães.

A remissão inicial à visita ao Museu Histórico Nacional e a relação que estabeleci, quando criança, entre o seu acervo e a narrativa que a disciplina História me apresentava não é fortuita. Ela ilustra a permanência daquele signo inicial que demarcou a historiografia brasileira e, sobretudo, a memória histórica. Manoel Guimarães deixa claro que a historiografia brasileira nasceu livre dos vínculos acadêmicos e em estreita relação com os imperativos políticos. Essa condição inicial foi decisiva para a produção subsequente, mesmo após a emergência de uma historiografia abalizada pelos ditames acadêmicos, determinando os rumos e usos da História entre nós. É certo que, desde a década de 1930, a historiografia problematiza tal herança, mas é igualmente certo que se a historiografia deixou de cumprir aquela função inicial e traçou outros rumos para si, o Ensino de História ainda se vê às voltas com ela.

Ainda na década de 1970 e na seguinte, os historiadores que refletiam sobre o Ensino de História assumiram um novo compromisso: formar o cidadão – um objetivo relacionado aos ideais democráticos que lutavam para afirmar-se ao longo e ao final da Ditadura Militar. Desde então, ‘formar o cidadão crítico’ tem se constituído no apanágio do Ensino de História. A partir do que pontua a reflexão de Manoel Guimarães, poder-se-ia argumentar que a matriz inicial não foi superada, mas substituída.[3] Não obstante, ela provoca a reflexão sobre o estatuto recentemente proposto e, principalmente, sobre a função e a importância do Ensino de História na Educação Básica, sua relação com a historiografia e seu lugar na constituição da memória histórica do Brasil de hoje.

Por mais de século e meio, os professores de História foram vistos (e se viram, também) como os responsáveis por transmitir a narrativa que inseria crianças e adolescentes no universo do qual faziam parte. Mesmo diante das críticas formuladas nas décadas de 1970 e 1980, essa responsabilidade permaneceu inalterada. Grande parte das aulas de história configura narrativas sobre o passado brasileiro e ocidental, ainda de uma perspectiva eurocêntrica – resultado, também, da matriz dos cursos de formação de professores. Dois fatores provocam a alteração desse quadro, desde fora, e colocam em questão a função da disciplina História em sala de aula: em primeiro lugar, a emergência de outros espaços a partir dos quais a memória histórica se constitui; em segundo lugar, a inclusão de novos agentes na narrativa sobre a formação do Brasil (refiro-me à inclusão da História da África, da Cultura Afro-brasileira e da História Indígena, na Educação Básica).

O livro de Manoel Luiz Salgado Guimarães sinaliza os caminhos a serem percorridos pelas reflexões que pretendam elucidar a trajetória da disciplina. Ele permite, portanto, entrever as questões que devem ser discutidas no que se refere à dimensão que incorpora e exige a atuação de um número imenso de historiadores: a Educação Básica. Desde onde falo, percebo três linhas de investigação necessariamente interligadas: a reflexão sobre a trajetória dos cursos de formação de professores em História – uma História da Formação; a reflexão sobre a prática docente em História – uma História do Ensino de História; e a reflexão sobre o estatuto do ensino de história na Educação Básica – uma História da Cultura Histórica Escolar.

Historiografia e Nação no Brasil (1838-1857) nasceu clássico. Ele não somente demarca uma periodização para a História da Historiografia, indicando o significado assumido por ela em dado momento, como inicia um campo de estudos. Isso já seria suficiente para torná-lo obra obrigatória. Mas, além de soberbamente escrito (o que acrescenta prazer à leitura), seu brilhantismo decorre das questões que suscita não apenas sobre o passado da disciplina, mas sobre seu presente e seu futuro. Ao desvendar as origens da historiografia brasileira, ele nos convida a pensar os percursos traçados por ela e seus desdobramentos. Neste momento, segundo me parece, esse convite deve ser aceito, de modo a refletir sobre seus rumos. Há que se discutir qual o lugar da História ensinada, qual a formação engendrada por ela, que compromissos lhe são pertinentes. Nosso agradecimento ao saudoso historiador pelo ensinamento e pela provocação. Boa leitura a todos!

Notas

1 Originalmente uma tese de doutoramento defendida em 1987 na Universidade Livre de Berlim, sob a orientação do professor Hagen Schulze. Desde 1988, um resumo da tese orienta um sem-número de reflexões sobre o período: GUIMARÃES, Manoel Luiz Salgado. Nação e Civilização nos Trópicos: o Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro e o projeto de uma História Nacional. Estudos Históricos, Rio de Janeiro: FGV, n.1, p.5-27, 1988.

2 Ambos assinam o belíssimo ensaio que apresenta a obra: KNAUSS, Paulo; CEZAR, Temístocles. O historiador viajante: itinerário do Rio de Janeiro a Jerusalém (Prefácio). In: Historiografia e Nação no Brasil: 1838-1857. Rio de Janeiro: Ed. Uerj, 2011. p.7-21. Acrescento ao rol elaborado por eles as seguintes obras: D’INCAO, M. A. História e ideal: ensaios sobre Caio Prado Jr. São Paulo: Brasiliense; Ed. Unesp, 1989; SAMARA, Eni de Mesquita; SOIHET, Rachel; MATOS, Maria Izilda S. de. Gênero em debate: trajetórias e perspectivas na historiografia contemporânea. São Paulo: Educ, 1997; FREITAS, Marcos Cézar de (Org.) Historiografia brasileira em perspectiva. São Paulo: Contexto, 2001; SILVA, Rogério Forastieri da. História da historiografia: capítulos para uma história das histórias da historiografia. Bauru: Edusc, 2001; NEVES, Lúcia Maria Bastos Pereira; GUIMARÃES, Lúcia Maria Paschoal; GONÇALVES, Márcia de Almeida; GONTIJO, Rebeca. Estudos de historiografia brasileira. Rio de Janeiro: Ed. FGV, 2011.

3 Sobre isso ver COELHO, Mauro Cezar. A história, o índio e o livro didático: apontamentos para uma reflexão sobre o saber histórico escolar. In: ROCHA, Helenice Aparecida Bastos; REZNIK, Luís; MAGALHÃES, Marcelo de Souza (Org.) A história na escola: autores, livros e leituras. Rio de Janeiro: Ed. FGV, 2009. p.263-280.

Mauro Cezar Coelho – Faculdade de História, Programa de Pós-Graduação em História Social, Universidade Federal do Pará (UFPA). E-mail: [email protected]

GUIMARÃES, Manoel Luiz Salgado. Historiografia e Nação no Brasil (1838-1857). Trad. Paulo Knauss e Ina de Mendonça. Rio de Janeiro: Editora Uerj, 2011. Resenha de: COELHO, Mauro Cezar. Historiografia e Nação no Brasil – um clássico e suas possibilidades, da gênese da historiografia ao lugar da História Ensinada nos dias de hoje. Revista História Hoje. São Paulo, v.1, n.1, p. 329-333, jan./jun. 2012. Acessar publicação original [DR]

MAYNARD Dilton Cândido Santos (Aut), Escritos sobre história e internet (T), Fapitec (E), Multifoco (E), LUCCHESI Anita (Res), Revista História Hoje (RHH), Internet, Séc. 20-21

Uma das mais belas apresentações de livros que já li começava assim: “Apresentar um livro é fazê-lo presente”. Ora, mas não é óbvio? Contudo, continua argutamente o autor: “Mas, qual poderia ser seu presente? O da escritura, que já não é, ou o da leitura, que ainda não é?”. Repito as palavras e questionamentos de Jorge Larrosa1 pensando na velocidade com que se transformam as paisagens da seara em que Dilton Maynard decidiu se enveredar ao eleger como tema central de seu livro as relações entre história e internet.

Sendo assim, a obra Escritos sobre história e internet chama a atenção por um particular interesse pelo tema dos ambientes telemáticos e provoca, em virtude disso, certo conforto antecipado em, ao menos, podermos esperar que sua leitura abrace as discussões sobre o elemento digital e suas implicações para o nosso métier, historicamente analógico e papirofílico. Assim, recomendo o livro desejando que as presenças que dele fizerem, consoantes ou dissonantes à minha, venham incrementar o debate acerca deste Novo Mundo para onde as agitadas águas do ciberespaço nos levam. Por enquanto navegamos à deriva.

O breve mas consistente volume de Maynard se apresenta nos moldes de um pequeno códex, composto por quatro artigos que foram escritos em momentos distintos e posteriormente linkados uns aos outros sob a tag dos problemas que a internet traz para o dia a dia da Oficina da História. Decerto o livro não pretende esgotar o assunto, mas sim, apresentar reflexões e propor questionamentos de caráter introdutório que possam, em um horizonte augurável, ser desdobrados mais à frente por outros pesquisadores. Mesmo porque a publicação é uma cápsula de perguntas, um convite a novas investigações sobre a internet e através dela. Aliás, a grande pergunta do livro talvez seja justamente aquela não dita, mas todo o tempo presente no background dessa leitura: “Afinal, por que não trabalhar com internet?”.

Para evidenciar como a internet pode ser um objeto-problema e também uma ferramenta-problema para os historiadores do nosso século, Maynard primeiro nos apresenta o que é essa tal Rede Mundial de Computadores, para depois trazer alguns casos de estudos resultantes de sua experiência com a internet nos últimos anos e pesquisas que vem realizando nessa área.

No capítulo de abertura, o autor esboça uma breve história da internet. Descreve a trajetória dessa inovadora tecnologia, pontuando, sobretudo, quais foram as circunstâncias históricas que favoreceram seu surgimento. Apresenta a emergência da internet como um produto do seu tempo, de demandas sociais específicas e condições propícias para o desenvolvimento de seu caráter aberto, descentralizado e colaborativo. Características que se acentuaram principalmente a partir da década de 1990, depois que a rede se libertou dos grilhões de sua missão como tecnologia militar do Departamento de Defesa norte-americano e começou a ser viabilizada também para fins comerciais.

Segundo Maynard, professor de História Contemporânea da Universidade Federal de Sergipe (UFS) e orientador de diversos trabalhos sobre cibercultura, intolerância e extrema-direita na internet, teriam sido o cenário bipolarizado da Guerra Fria e, concomitantemente, o ambiente descentralizado dos protestos pacifistas e contraculturais das décadas de 1960 e 1970 a proporcionarem as condições ideais para o surgimento e desenvolvimento da ‘rede das redes’. Para o autor, “a verdadeira questão não é ser contra ou a favor da internet. O importante é compreender as suas mudanças qualitativas” (p.42).

É nessa esteira que o autor segue apresentando outros três principais filões por onde tem espreitado as implicações da internet nas dinâmicas sociais do Tempo Presente e, consequentemente, os desafios que tal panorama vem apresentando para a história. Na realidade, os capítulos centrais do livro dialogam todo tempo entre si. Isto porque ambos vão tratar em maior ou menor escala das apropriações que grupos de extrema-direita têm feito da internet. Suas preocupações referem-se ao modo como, cada vez mais, a internet se apresenta como “uma espécie de novo oráculo, como um espaço autônomo do conhecimento” (p.43). Do deslumbramento com essa realidade, e do fato de a internet ser uma espécie de zona neutra, território sem lei, ele alerta que decorrem graves perigos. Um deles, senão o principal, é o tema da engajada exposição do autor no Capítulo 2: a facilidade de produção de suportes pedagógicos na rede mundial de computadores e sua apropriação por grupos ou indivíduos de extrema-direita.

Para lidar com história em meio à superinformação característica da world wide web, em plena ‘Era Google’, tomando emprestada a expressão de Carlo Ginzburg,2 toda cautela é pouca, pois, como nos diz o historiador italiano, “No presente eletrônico o passado se dissolve”. Como assim? O ‘dissolver-se’ de Ginzburg pode ser lido em muitas direções, uma das quais é a que diz respeito aos dilemas da memória e do esquecimento na rede, como e o que preservar dos arquivos digitais neste século XXI. Entretanto, a preocupação do nosso autor é mais específica. A ‘dissolução’ do passado, para Maynard, está nas possíveis manipulações da história que podem ser feitas na internet. Uma das evidências desse problema, para ele, são os espaços virtuais destinados a servir de suportes pedagógicos para projetos de doutrinação, alguns deles comprometidos, por exemplo, com retóricas revisionistas. Tais iniciativas pretendem fazer reconstruções historiográficas, tentam estabelecer falsificações e forjar narrativas que classifiquem, por exemplo, as memórias sobre o Holocausto e a Segunda Guerra Mundial como meras conspirações. Ele chama a atenção:

Em inversões interpretativas, os algozes são vítimas, qualquer tipo de documentação que evidencie tortura, prisão, assassinatos e a racionalização das mortes em campos de concentração e câmaras de gás é descartada como ‘falsificação’ … Em meio a apropriações simbólicas e batalhas da memória, estes portais são exemplos de ferramentas eletrônicas dedicadas a promover uma leitura intolerante da história sob pretensa pátina de luta por liberdade de expressão. (p.45)

Dentre as tentativas de reescrita da história, um dos casos destacados pelo autor é o do portal Metapedia,3 autodenominado ‘enciclopédia alternativa’, que traz, entre outros, verbetes sobre líderes e representantes da extrema- -direita, em que estes são apresentados sem nenhuma menção aos seus xenofobismo ou racismo. Mesmo o führer nazista, Adolf Hitler, é descrito com benevolentes esquecimentos. Fica para a nossa reflexão a importância de um inventário, como esse que empreende Maynard, de ódios e revisionismos soltos pela rede. Se não nos ocuparmos deles, a quem os delegaremos? Às inteligências estatais ou às polícias? Mas, e pela história, quem fará vigília?

Cabe lembrar que essa batalha das memórias e dos lugares de memórias é atualíssima e extrapola as fronteiras do ciberespaço. É importante ressaltar, portanto, que apesar dos limites dessa obra, o esforço que nela se faz para advogar em favor da sistemática investigação histórica do e no ciberespaço, embora se baseie majoritariamente em exemplos e documentações disponíveis na própria rede, guarda estreita relação com a realidade ‘não virtual’.

A intolerância promovida na rede por grupos extremistas como os skinheads, os carecas paulistas e outros, desgraçadamente faz vítimas reais para além dos frios números de audiência que podemos verificar em web-estatísticas. O alcance das páginas de ódio, como o www.radioislam.org, o www.ilduce.net e o www.valhalla88.com, [4] ou ainda o www.libreopinion.com (infelizmente os exemplos são vastos e de várias nacionalidades), é grande. E como lembra o título do terceiro capítulo, esses sites não trabalham isolados, em muitos casos se montam verdadeiras ‘Redes de Intolerância’, com troca de links, apoio ‘cultural’ (pela troca de banners etc.) e mesmo assistência mútua em caso de um site precisar ser hospedado em outra ‘casa’ para poder fugir ao rastreamento da polícia. Organizados e rápidos, eles conseguem escapar mais facilmente das investigações e das consequências, graças à transnacionalidade do mundo virtual, que permite, em certos aspectos, essa “anomia geográfica” (p.103-104), e assim prorrogam indeterminadamente a impunidade dos integrantes desses grupos. O que mais precisamos viver para lembrar o fascismo? Se a resposta for neofascismos, aí vamos nós. Preparem suas mentes, corações e hard disks para o caso de carregamentos muito pesados: xenofobia, machismo, homofobia, misoginia, racismo… eugenias.

Por fim, Maynard nos introduz no fantástico campo do ‘ciberativismo’ ou ‘hacktivismo’. Temas por onde esbarraremos também com os profissionais de Relações Internacionais preocupados com a diplomacia clássica em crise (será?) em tempos daquilo que algumas nações vêm chamando de ‘ciberguerra’ (guerra de informação) ou ainda ciberterrorismo. O autor demonstra como os Estados Unidos se apropriaram dos escândalos midiáticos referentes ao Cablegate [5] para alimentar uma interpretação belicista do momento, condenando as denúncias do Wikileaks e os atos de protestos do grupo de hackers Anonymous em 2010 como terrorismo. Para Maynard, o perigo dessa manipulação de opinião a partir de apropriações políticas do ativismo cibernético é a criação de uma atmosfera promissora para um “indesejável remake dos dias da Guerra Fria” (p.141). A saber, com quais intencionalidades políticas, a troco de que esquecimentos…

Os problemas expostos nesse livro nos remetem a vários estudos sobre história e internet, ou, como já batizaram alguns estudiosos, ‘Historiografia Digital’. Todos, contudo, bastante recentes e também marcados, uns mais, outros menos, por uma levada introdutória, da apresentação de problemas e tímidas formulações de hipóteses, em virtude da relativa novidade do tema.[6] Entretanto, pensando especialmente nas variantes ética, moral e política da história, gostaríamos de fazer referência aqui ao trabalho do historiador francês Denis Rolland, que, assim como Maynard, também entende a internet como uma nova fonte e objeto para a história, inscrita no Tempo Presente e demandando cautelosos e redobrados exames críticos. Para Rolland, na rede, a história assume frequentemente a forma de narrativas de ‘costuras invisíveis’, cujo nível de credibilidade científica é quase sempre desconhecido ou inverificável, o que pode acabar levando a um ‘mal-estar da história’, por ser, muitas vezes, repleta de dissimulações ou amnésias-construtivas, uma “história sem historiador”,[7] exposta, portanto, aos riscos de reconstruções historiográficas tal qual nos adverte Maynard no Capítulo 2 (p.43-66). É por tudo isso que, como afirma o autor já no início do livro, “pesquisar a história da internet, assim como navegar, é preciso” (p.42).

Notas

1. LARROSA, Jorge. Linguagem e educação depois de Babel. Trad. Cynthia Farina. Belo Horizonte: Autêntica, 2004. p.7.

2. GINZBURG, Carlo. História na Era Google. Fronteiras do Pensamento, 29 nov. 2010. (Conferência). Disponível em: www.youtube.com/watch?feature=player_ embedded&v=wSSHNqAbd7E (Vídeo); Acesso: 22 mar. 2012.

3. Página da ‘enciclopédia’ em Português: pt.metapedia.org/wiki/P%C3%A1gina_principal; Acesso em: 23 mar. 2012.

4. Cujo conteúdo hoje se encontra disponível em outro endereço: www.nuevorden.net/portugues/valhalla88.html ; Acesso em: 23 mar. 2012. Anita Lucchesi Revista História Hoje, vol. 1, nº 1 340

5. Termo cunhado pela imprensa mundial para nomear o escândalo gerado pelo site Wikileaks ao divulgar centenas de documentos e telegramas ‘secretos’ de autoridades da diplomacia norte-americana sobre vários países.

6. Para uma apreciação mais detida dos problemas de ordem teórico-metodológica na relação entre história e internet, sob o ponto de vista da Historiografia Digital, ver: COHEN, Daniel J.; ROSENZWEIG, Roy. Digital History: a guide to gathering, preserving, and presenting the past on the web. Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 2006. Disponível em: chnm.gmu.edu/digitalhistory/; Acesso em: 22 mar. 2012; RAGAZZINI, Dario. La storiografia digitale. Torino: UTET Libreria, 2004. Em língua portuguesa, ver: LUCCHESI, Anita. Histórias no ciberespaço: viagens sem mapas, sem referências e sem paradeiros no território incógnito da web. Cadernos do Tempo Presente, ISSN 2179-2143, n.6. Disponível em: www.getempo.org/revistaget.asp?id_edicao=32&id_materia=111; Acesso em: 23 mar. 2012.

7. ROLLAND, Denis. Internet e história do tempo presente: estratégia de memória e mitologias políticas. Revista Tempo, Rio de Janeiro, n.16, p.59-92. jan. 2004. p.2. Disponível em: www.historia.uff.br/tempo/artigos_dossie/artg16-4.pdf ; Acesso em: 23 mar. 2012.

Anita Lucchesi – Mestranda, Programa de Pós-Graduação em História Comparada, Universidade Federal do Rio de Janeiro. E-mail: [email protected]

MAYNARD, Dilton Cândido Santos. Escritos sobre história e internet. Rio de Janeiro: Fapitec; Multifoco, 2011. Resenha de: LUCCHESI, Anita. Oficina da história no ciberespaço. Revista História Hoje. São Paulo, v.1, n.1, p. 335-340, jan./jun. 2012. Acessar publicação original [DR]

SPOSITO Fernanda (Aut), Nem cidadãos/ nem brasileiros: indígenas na formação do Estado nacional brasileiro e conflitos na província de São Paulo (1822-1845) (T), Alameda (E), MOREIRA Vânia Maria Losada (Res), Revista História Hoje (RHH), Povos Indígenas, Estado Nacional, Província de São Paulo, América – Brasil, Séc. 19

A temática indígena ainda não entrou de maneira firme na história política do Império. É essa, pelo menos, a impressão deixada por algumas obras coletivas publicadas recentemente. Ao não tratarem dos índios e das nações indígenas, essas historiografias, que se apresentam como visões panorâmicas sobre o século XIX, terminam ajudando a propagar a falsa ideia de que os índios não eram uma preocupação política dos contemporâneos, ou não representavam uma ‘variável’ importante para a análise da experiência histórica brasileira do período. Em Nação e cidadania no Império: novos horizontes, 1 por exemplo, existem 17 capítulos e nenhum deles se dedica aos índios e às suas experiências durante o Oitocentos. O mesmo acontece em Repensando o Brasil do Oitocentos: cidadania, política e liberdade, 2 com 23 capítulos, nenhum dos quais enfocando a questão indígena como eixo central da análise. Não é aceitável, contudo, continuar discutindo a formação do Estado, a consolidação do território nacional e a cidadania, durante o Império, sem considerar de maneira clara, direta e corajosa o problema dos índios, das comunidades indígenas já integradas à ordem imperial e das inúmeras nações independentes que, progressivamente, foram conquistadas ao longo do próprio século XIX. A recente publicação de O Brasil Imperial, coleção em três volumes, com 33 capítulos, um deles dedicado aos índios,3 é digna de menção, pois representa um avanço significativo.

Uma questão importante para a compreensão política do Brasil, mas ainda muito negligenciada pela historiografia, é a posição do índio no processo político de organização do Estado nacional durante o Oitocentos. Por isso mesmo, é muito bem-vindo o livro de Fernanda Sposito Nem cidadãos, nem brasileiros: indígenas na formação do Estado nacional brasileiro e conflitos na província de São Paulo (1822-1845). 4 O livro está dividido em duas partes: na primeira, intitulada “Os índios no Império: política e imaginário”, a autora dedica-se a analisar o indigenismo e a política indigenista imperial, com destaque para o período entre a Independência e a emergência do Segundo Reinado.

Com sólida base empírica, a autora demonstra que, depois da Independência, a monarquia, a escravidão e a convivência com os índios tiveram de ser refundados “em novas bases, no contexto do liberalismo e do modelo constitucional moderno” (p.14). Desse ponto de vista, a questão indígena tornou-se um dos assuntos importantes da pauta política do período e foi “reenquadrada à vista de temas como cidadania, soberania nacional, mão de obra etc.” (p.14). Nessa parte do texto, o objetivo central da autora é o de “perceber como os dirigentes do Estado e da nação em construção elaboraram políticas e pensamentos referentes às comunidades indígenas” (p.257). Para isso, Sposito explorou e percorreu várias searas do debate político sobre os índios, investigando a Assembleia Constituinte de 1823, o Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro, as legislaturas do Senado, a legislação editada sobre os índios, a imprensa etc. O apetite da historiadora pelas fontes históricas é uma das marcas mais salientes de seu trabalho e, sem sombra de dúvidas, uma de suas maiores contribuições.

Na segunda parte, intitulada “No palco das disputas entre paulistas e indígenas”, a autora traça uma história mais social do que política, realizando uma reflexão sobre a expansão das fronteiras da província de São Paulo sobre os territórios dos Kaingang, Xokleng, Guarani e Kaiowa. Explora, portanto, a história das zonas de contato e os conflitos entre ‘índios’ e ‘paulistas’. Também aqui, a autora mobiliza um importante corpo documental sobre a província de São Paulo, fornecendo sólida base empírica à segunda parte de sua reflexão.

A conexão que Fernanda Sposito faz entre as duas partes de seu trabalho é também digna de destaque. Isso ganha especial evidência na discussão que ela realiza sobre a abolição das cartas régias do príncipe regente d. João, que mandavam mover guerras ofensivas contra os índios de Minas Gerais, Espírito Santo e São Paulo. As cartas régias, publicadas em 1808 e 1809, foram debatidas no Senado em 1830 e revogadas pouco depois, em 1831. De forma muito apurada, Sposito demonstra, por um lado, que aquela legislação joanina ainda estava em vigor na província de São Paulo, onde os moradores se valiam dela para manter índios no cativeiro. Por outro, evidencia que a pauta política nacional movia-se, muitas vezes, em função das injunções regionais. Afinal, foi em razão da intervenção dos dirigentes paulistas que o Senado se viu na contingência de discutir a revogação das guerras e a persistência do cativeiro indígena em certas regiões do Império (p.91).

A pesquisa de Fernanda Sposito amplia o atual debate historiográfico sobre cidadania durante o Oitocentos. É importante aprofundar, por isso mesmo, a reflexão sobre algumas hipóteses e conclusões centrais sustentadas pela autora. Sobre isso, faço duas observações: a primeira diz respeito ao uso do conceito Antigo Sistema Colonial que, ao contrário de ajudar a autora na problematização das fontes, leva-a a desenvolver uma interpretação sobre a transição da política indigenista colonial para a imperial pouco satisfatória. De acordo com Sposito,

A novidade da questão indígena no Estado nacional brasileiro foi que a situação de colonização que caracteriza a relação ente os dois universos ao longo do período colonial não cabia mais no modelo de um Estado moderno. Isso foi colocado desde a época de crise do Antigo Sistema Colonial, através das políticas pombalinas para os indígenas na segunda metade do século XVIII. (p.260)

Do ponto de vista dos índios, a ‘situação de colonização’ não foi superada com a emergência do Estado imperial, pois a sociedade nacional, numa espécie de colonialismo interno, continuou avançando e conquistando os territórios e as populações indígenas. A segunda parte do livro de Sposito é, aliás, um testemunho eloquente sobre isso. A diferenciação que a autora faz entre as políticas indigenistas colonial e nacional não se baseia na análise dos fatos. É antes caudatária de uma avaliação limitada sobre a política portuguesa em relação aos índios, entendida fundamentalmente como uma “política ofensiva de extermínio e escravização” (p.36), temporariamente suspensa durante o regime do Diretório dos Índios, quando prevaleceu a política de incorporação deles na qualidade de vassalos da monarquia portuguesa (p.37). Nem a documentação primária, citada pela própria autora, nem a historiografia mais recente sobre a política indigenista colonial corroboram sua interpretação.5 Afinal, se uma das faces da política indigenista colonial foi, de fato, a guerra, o extermínio e o cativeiro, a outra foi a territorialização6 dos índios por meio dos aldeamentos, transformando-os em súditos e vassalos da Coroa, com uma série de direitos e obrigações.7 Mais ainda, os aldeamentos – nos moldes preconizados por Manoel da Nóbrega e, posteriormente, regulamentados pelo Regimento das Missões de 1686 – e o Diretório pombalino foram as duas experiências coloniais nas quais os políticos e os intelectuais do Império se basearam para pensar e propor uma nova política de Estado para a incorporação dos índios à ordem imperial.8

A segunda e última observação diz respeito a uma das teses centrais do livro, ou seja, a de que o pacto político selado depois da Independência excluiu os índios da sociedade civil e política, porque eles não foram mencionados no texto constitucional (p.78). Assim, entre a Independência e a promulgação do Regulamento de Catequese e Civilização dos Índios, em 1845, “os indígenas não eram reconhecidos como cidadãos e tampouco como brasileiros” (p.258). Ainda segundo a autora, essa exclusão serve para explicar acontecimentos importantes, como a continuidade de ‘práticas coloniais’ no Império, como as guerras e as escravizações.

A ausência de uma definição precisa sobre o estatuto jurídico dos índios ou de um capítulo específico sobre a ‘civilização dos índios bravos’ na Constituição de 1824, tal como queria José Bonifácio e vários constituintes da Assembleia de 1823, não são condições suficientes, contudo, para postular a exclusão dos índios do pacto político imperial. Afinal, a situação jurídica dos índios pode ter ficado incerta e sob disputa, mas isso não significa que eles ficaram de fora do pacto político do período. Além disso, a própria autora demonstra que a demora em se criar uma legislação global sobre como lidar com os índios ‘bravos’ não se deveu à falta de interesse político pela questão, já que existiam diferentes projetos e propostas, mas sim à falta de consenso sobre o assunto (p.259).

Os constituintes de 1823 insistiram no argumento de que existiam no território do Império dois tipos diversos de índios, os ‘bravos’ e os ‘domesticados’, e cada um deles exigia um enfoque político diferente. Em relação aos ‘bravos’, sugeriu-se que eles precisavam ser, primeiro, ‘civilizados’ e integrados à sociedade para, depois, gozarem dos direitos políticos de cidadãos. Quanto aos índios ‘domesticados’, não se disse muito sobre eles na Constituinte. Mas o pouco discutido desenvolveu-se no sentido de considerá-los homens livres e nascidos no território brasileiro, por isso mesmo plenamente capazes de gozarem do título de cidadãos brasileiros. A política indigenista do Primeiro Reinado tampouco autoriza a afirmação de que os índios ficaram de fora do pacto político do período pós-Independência. Apesar de ter permitido bandeiras contra grupos indígenas considerados agressores, também mandou formar aldeamentos para outros considerados ‘selvagens’, mas não inimigos, e tratou como cidadãos certos grupos aldeados e avaliados como suficientemente ‘civilizados’, mandando regê-los segundo as leis ordinárias do Império. Os próprios índios, além disso, apropriaram-se da alcunha de ‘cidadãos brasileiros’ para lutarem por seus interesses, sem que isso soasse como uma reivindicação inapropriada ou extemporânea (Moreira, 2010).

Concluo estas considerações lembrando o que disse o índio Marawê, do Parque Nacional do Xingu. Para ele, a história dos índios se divide em a.B. e d.B., isto é, em “antes e depois do branco”.9 Na longa história indígena d.B., a transição da Colônia para o Império não representou uma ruptura profunda, mas trouxe algumas mudanças significativas que precisam ser, de fato, salientadas. A mais significativa foi, do meu ponto de vista, o crescente desuso de uma perspectiva de cidadania típica do antigo regime, quando ser índio e parte do corpo político e social, na qualidade de vassalo, era situação perfeitamente aceitável e ajustável.10 Em outras palavras, com o aprofundamento do liberalismo e do nacionalismo na ordem social e política do Império, aprofundou-se, também, a política de ‘assimilação’, entendida e praticada com o objetivo de dissolver o índio na sociedade nacional. Desse ângulo, Fernanda Sposito está bastante certa ao afirmar que a expectativa política dominante no período era a de considerar o índio “brasileiro ou, hipoteticamente cidadão, se deixasse, justamente de ser indígena” (p.143). Durante o Império, portanto, um dos desafios da política indígena foi lidar com os processos de cidadanização e nacionalização da política indigenista, que foram especialmente vorazes depois da promulgação da Lei de Terras de 1850, quando se intensificou a liquidação de aldeias e a desamortização das terras indígenas.

Notas

1 CARVALHO, José Murilo de. Nação e cidadania no Império: novos horizontes. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, 2007.

2 Carvalho, José Murilo de; Neves, Lúcia Maria B. P. (Org.). Repensando o Brasil do Oitocentos: cidadania, política e liberdade. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, 2009.

3 SAMPAIO, Patrícia Melo. Política indigenista no Brasil imperial. In: GRINBERG, Keila; SALLES, Ricardo (Org.). O Brasil Imperial – 1808-1831. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, 2009. p.175-206.

4 SPOSITO, Fernanda. Nem cidadãos, nem brasileiros: indígenas na formação do Estado nacional brasileiro e conflitos na província de São Paulo (1822-1845). São Paulo: Alameda, 2012.

5 Perrone-Moisés, Beatriz. Índios livres e índios escravos: os princípios da legislação indigenista no período colonial (séculos XVI a XVIII). In: CUNHA, Manuela Carneiro da (Org.). História dos índios no Brasil. São Paulo: Companhia das Letras; Secretaria Municipal de Cultura; Fapesp, 1992. p.115-132.

6 OLIVEIRA, João Pacheco de. Uma etnologia dos “índios misturados”? Situação colonial, territorialização e fluxos culturais. Mana, v.4, n.1, p.47-77, 1998.

7 Almeida, Maria Regina Celestino de. Metamorfoses indígenas: identidade e cultura nas aldeias coloniais do Rio de Janeiro. Rio de Janeiro: Arquivo Nacional, 2003.

8 MOREIRA, Vânia Maria Losada. De índio a guarda nacional: cidadania e direitos indígenas no Império (vila de Itaguaí, 1822-1836). Topoi, Rio de Janeiro, v.11, n.21, p.127-142.

9 CUNHA, Manuela Carneiro da. Cultura com aspas e outros ensaios. São Paulo: Cosac Naify, 2009. p.129.

10 MOREIRA, Vânia Maria Losada. O ofício do historiador e os índios: sobre uma querela no Império. Revista Brasileira de História, São Paulo, v.30, n.59, 2010, p.53-72.

Vânia Maria Losada Moreira – Departamento de História e Programa de Pós-Graduação em História, Universidade Federal Rural do Rio de Janeiro (UFRRJ). E-mail: [email protected]

SPOSITO, Fernanda. Nem cidadãos, nem brasileiros: indígenas na formação do Estado nacional brasileiro e conflitos na província de São Paulo (1822-1845). São Paulo: Alameda, 2012. Resenha de: MOREIRA, Vânia Maria Losada. Os índios na história política do Império: avanços, resistências e tropeços. Revista História Hoje. São Paulo, v.1, n.2, p. 269-274, jul./dez. 2012. Acessar publicação original [DR]

Almeida Maria Regina Celestino de (Aut), Os índios na História do Brasil (T), Editora FGV (E), ALMEIDA NETO Antonio Simplicio de (Res), Revista História Hoje (RHH), Povos Indígenas, Séc. 18-19, América – Brasil

A Lei 11.645 de 10 de março de 2008, que torna obrigatório o estudo de história e cultura indígenas (além da africana e afro-brasileira) nos estabelecimentos de ensino fundamental e médio, público e privado, explicita algumas importantes questões sobre o ensino dessa disciplina escolar. A mais evidente é o fato de não haver esse componente curricular nos cursos de Graduação e Licenciatura em História, salvo raras exceções, o que traz uma série de implicações àqueles professores que desejam cumprir a determinação legal, pois devem suprir essa lacuna na formação pelos mais diversos meios disponíveis. Entre eles, certamente, destaca-se o livro didático – esse ‘produto cultural complexo’, como disse Stray –, que acaba por exercer inusitado e importante papel na formação docente.

Outro aspecto, no entanto, ganha relevância na abordagem dessa temática em sala de aula: o fato de a cultura indígena não ser a dominante em nossa sociedade, tanto que é objeto dessa legislação específica. Assim, é considerada ‘a outra’, diferente, diversa, exótica e estranha, frente à cultura dominante, ocidental, branca, europeia, civilizada, cristã e ‘normal’. Sujeita aos estigmas classificatórios, a cultura desse ‘outro’ será identificada como primitiva, étnica, inferior e atrasada, será entendida como essencialista, ou seja, pura, fixa, imutável e estável, portanto, a-histórica. Dessa forma, o indígena que não se apresenta nesse suposto estado puro será considerado aculturado, não índio, sem identidade e sem tradição, daí os índios serem representados predominantemente como figuras do passado, mortas ou em franco processo de extinção, fadados ao desaparecimento.

Embora não seja destinado especificamente a suprir a demanda desses conteúdos pelos professores da educação básica, o livro Os índios na História do Brasil de Maria Regina Celestino de Almeida apresenta importante e denso panorama da temática, dentro dos limites de um livro de bolso (coleção FGV de bolso, Série História), e bem serviria a esse propósito. Baseia-se na produção historiográfica mais recente, em novas leituras decorrentes de documentos inéditos, novas abordagens fundamentadas em novos conceitos e teorias, bem como em pesquisas interdisciplinares, e começa, justamente, pela complexa discussão sobre a concepção de cultura indígena que acabou por alijar esse grupo social da História.

Desempenhando papéis secundários ou aparecendo na posição de vítimas, aliados ou inimigos, guerreiros ou bárbaros, escravos ou submetidos – nunca sujeitos da ação, uma vez dominados, integrados e aculturados –, desapareciam como índios na escrita histórica e, não à toa, estariam condenados ao desaparecimento também no presente, prognóstico derrubado pelas evidências apontadas pelo censo demográfico do IBGE de 2010, que aponta crescimento de 178% no número de indígenas autodeclarados desde 1991, bem como a existência de 305 etnias e 274 línguas.

O reconhecimento aos povos indígenas do direito de manter sua própria cultura, garantido pela Constituição de 1988, assim como sua maior visibilidade em lutas pela garantia de seus direitos, tiraram esses grupos dos bastidores da história – para usar uma imagem da própria autora –, garantindo-lhes um lugar no palco, despertando o interesse dos historiadores que passaram a percebê-los como sujeitos participando ativamente dos processos históricos. Tal percepção foi ainda favorecida pela imbricação entre história e antropologia na perspectiva de “compreensão da cultura como produto histórico, dinâmico e flexível, formado pela articulação contínua entre tradições e novas experiências dos homens que a vivenciam” (p.22), possibilitando novos entendimentos das ações dos grupos indígenas nos processos em que estavam envolvidos.

Ao discutir hibridação cultural, Canclini afirma que “quando se define uma identidade mediante um processo de abstração de traços (língua, tradições, condutas estereotipadas), frequentemente se tende a desvincular essas práticas da história de misturas em que se formaram”, o que torna impossível para esse antropólogo “falar das identidades como se se tratasse apenas de um conjunto de traços fixos, nem afirmá-las como a essência de uma etnia ou de uma nação”.1 Nesse sentido, Almeida chama nossa atenção para o necessário entendimento das “identidades como construções fluidas e cambiáveis que se constroem por meio de complexos processos de apropriações e ressignificações culturais nas experiências entre grupos e indivíduos que interagem” (p.24), que tornou possível nova mirada dos historiadores sobre a identidade genérica imposta sobre esses grupos, a começar pela denominação ‘índios’, como se constituíssem um bloco homogêneo, desconsiderando não só as diferenças étnicas e linguísticas, mas também os diferentes interesses, objetivos, motivações e ações desses grupos nas relações entre si e com os colonizadores europeus que, como não poderia deixar de ser, foram se modificando com a dinâmica da colonização.

Importante ressaltar que as considerações da autora sobre cultura e identidade são fundamentais para compreender a perspectiva adotada pelos historiadores que se debruçam sobre essa temática, mas igualmente necessárias para o leitor que pretende conhecer um pouco mais sobre os índios na História do Brasil e, por que não dizer, indispensáveis aos professores do ensino básico que, tendo de se haver com o ensino de história e cultura indígenas nos estabelecimentos de ensino público e privado, deparam com toda sorte de preconceito, racismo e etnocentrismo.

Imbuída dessa concepção dinâmica de identidade e cultura, a autora nos apresenta ao longo dos seis capítulos do livro alguns dos principais debates e pesquisas acadêmicos sobre a temática, sem entrar na discussão historiográfica sobre haver ou não uma história indígena, propriamente dita, ou sobre a controversa denominação etno-história, daí a interessante solução encontrada para o título da obra: Os índios na História do Brasil.

A autora esclarece que para o estudo das relações entre os colonizadores e indígenas, já nos primeiros contatos torna-se necessário não tomar estes últimos como tolos ou ingênuos dispostos a colaborar com os portugueses em troca de quinquilharias, mas compreender seu universo cultural. Discutindo, por exemplo, a peculiar relação com o outro na cultura Tupinambá, implicada na guerra, nos rituais de vingança, escambo e casamento, nos alerta que “embora eles tivessem grande interesse nas mercadorias dos europeus, suas relações com estes últimos significavam também oportunidades de ampliar relações de aliança ou de hostilidade” (p.40). Da mesma forma, afirma que “eles trabalhavam movidos por seus próprios interesses, e quando as exigências começaram a ir além do que estavam dispostos a dar, passaram a recusar o trabalho” (p.42), o que se somou ao fato de que no universo cultural desse grupo o trabalho agrícola era considerado atividade feminina.

Embasada em vasta bibliografia e em fontes primárias, a autora percorre a complexidade das relações indígenas nas diversas regiões do país – capitanias de Pernambuco, Paraíba, Rio Grande, Itamaracá, Ilhéus, Bahia, Ilhéus, Espírito Santo, São Tomé, Ceará, Maranhão, Mato Grosso, Goiás, Rio de Janeiro etc. Nesse percurso, reafirma a identidade dos grupos indígenas como característica dinâmica, como é o caso dos temiminós do Rio de Janeiro, que provavelmente seriam uma construção étnica do contexto colonial, oriunda do subgrupo Tupinambá no processo de relações e interesses dos grupos indígenas e estrangeiros, pois “afinal, se a identidades étnicas são históricas e múltiplas, não há razões para duvidar de que os índios podiam adotar para si próprios e para os demais, identidades variadas, conforme circunstâncias e interesses” (p.61).

A condição de agentes históricos atribuída aos indígenas ganha evidência na análise da política de aldeamentos que, conforme demonstra Maria Regina Celestino de Almeida, possuía diferentes funções e significados para a Coroa, religiosos, colonos e índios. Para estes, poderia significar terra e proteção frente às ameaças a que estavam submetidos nos sertões, como escravização e guerras, o que não os impedia de agir conforme seus interesses e aspirações na relação com os outros grupos, não obstante as limitações de toda ordem a que estavam sujeitos nesses espaços de conformação. Dessa forma, valendo-se da legislação decorrente das políticas indigenistas, os índios aldeados “aprenderam a valorizar acordos e negociações com autoridades e com o próprio Rei, reivindicando mercês, em troca de serviços prestados. Sua ação política era, pois, fruto do processo de mestiçagem vivido no interior das aldeias. Suas reivindicações demonstraram a apropriação dos códigos portugueses e da própria cultura política do Antigo Regime” (p.87).

Nesse sentido, afirma a autora, os aldeamentos devem ser pensados como “espaços de reelaboração identitária” (p.98), seja ressignificando os rituais religiosos católicos, aprendendo a ler e escrever o português ou estabelecendo relações complexas e ambíguas com os diferentes grupos sociais, inclusive indígenas, segundo seus interesses.

Esse processo pode ser ainda observado na Amazônia de meados do século XVIII, quando índios tornaram-se vereadores, oficiais de câmara e militares (p.120), e se prolonga pelo século XIX, quando indígenas eram recrutados compulsoriamente para os serviços militares, notadamente a Marinha (p.147). Interessante lembrar o episódio da Guerra do Paraguai (1864-1870), na qual lutaram índios Terena e Kadiwéu, não sem utilizar diversas estratégias para escapar ao alistamento como Voluntários da Pátria. Mais tarde, no último quartel do século XX, essa participação foi evocada na reconstituição da memória desses grupos para reivindicar direitos territoriais no Mato Grosso do Sul ancorados no heroísmo e colaboração com o Estado (p.149). Sujeitos históricos no presente e no passado, condição que dialoga com as possibilidades de romper a invisibilidade indígena no passado e no presente.

Nota

1CANCLINI, Nestor. Culturas híbridas. São Paulo: Edusp, 2008. p.23.

Antonio Simplicio de Almeida Neto – Departamento de História, Universidade Federal de São Paulo. E-mail: [email protected]

Almeida, Maria Regina Celestino de. Os índios na História do Brasil. Rio de Janeiro: Editora FGV, 2010. Resenha de: ALMEIDA NETO, Antonio Simplicio de. Indígenas na história do Brasil: identidade e cultura. Revista História Hoje. São Paulo, v.1, n.2, p. 275- 279, jul./dez. 2012. Acessar publicação original [DR]

ALEKSIÉVITCH Svetlana (Aut), As últimas testemunhas: crianças na Segunda Guerra Mundial (T), ROSAS Cecília (Trad), Companhia das Letras (E), FLÔR Dalânea Cristina (Res), OTTO Claricia (Res), Revista História Hoje (RHH), Crianças, Segunda Guerra Mundial, Testemunhas, Séc. 20

No livro As últimas testemunhas, Svetlana Aleksiévitch, vencedora do Prêmio Nobel de Literatura de 2015, apresenta uma centena de relatos de adultos que vivenciaram a Segunda Guerra Mundial durante a infância. Com apenas duas pequenas citações “Em lugar de prefácio…”, o restante do livro é todo marcado pelas vozes dos entrevistados, e as conclusões da leitura ficam a cargo de cada leitor.

Os relatos, coletados entre os anos de 1978 e 2004 e somente traduzidos para o português em 2018, trazem o modo como cada adulto, na época criança, viu, sentiu e viveu a guerra. Tratava-se, na maioria, de crianças de 2 a 14 anos, com exceção de algumas que nasceram a partir de 1941, e de um garoto que nasceu no ano em que o conflito acabou (1945), mas que parece ter vivido a guerra tão intensamente quanto os demais, quando afirma: “Nasci em 1945, mas lembro da guerra. Conheço a guerra”, nos remetendo ao conceito de “acontecimento vivido por tabela” (Pollak, 1992).

Ao iniciar a leitura, fica-se buscando uma apresentação, uma contextualização do que virá, mas a interferência explícita da autora se restringe às citações tomadas como prefácio; à apresentação de cada entrevistado informando seu nome, a idade que tinha quando a Alemanha invadiu a União Soviética, em 1941, e a profissão que exercia na época em que Svetlana o entrevistou; e por fim, à seleção da parte do relato a ser apresentada. No mais, Svetlana dá voz aos entrevistados. São vozes que chocam, assustam, emocionam, indignam, provocam compaixão, deixam atônito o leitor.

Entre pausas, choro, verbalização do quanto é insuportável relembrar e afirmação de que pelo mal que lembrar faz preferem não recordar, relembraram e contaram, o que faz pensar que a autora, cuja prática com esse tipo de trabalho é reconhecida, deve ter conseguido construir uma relação de confiança e ou demonstrar a importância de suas histórias serem contadas, e assim conseguiu se colocar, verdadeiramente, na posição de escuta (Pollak, 1989). Com certeza, apesar do sofrimento que poderia lhes causar a rememoração daquelas vivências, perceberam na autora uma possibilidade de escuta de suas vozes, de suas vivências, e como resultado o leitor veio a conhecer suas histórias.

Para uma compreensão mais ampla e completa da realidade, é necessário que as “memórias subterrâneas” (Pollak, 1989) sejam trazidas à tona, e essa parece ser uma das principais contribuições de Svetlana, que entrevista pessoas comuns, com diferentes formações, que ocupam ou ocuparam postos de trabalho diversos e que tiveram experiências pós-guerra também diversas.

As experiências, ainda que do mesmo “evento” e que, de certa forma, compõem uma memória coletiva, são experiências individuais e, portanto, relatadas de forma particular por cada um dos entrevistados, e trazem vozes que destoam da história oficial.

Para além de toda a dor, fome, medo e sofrimento, chama atenção a percepção que algumas crianças de mais idade tinham do seu papel na guerra, segundo o relato dos entrevistados. Algumas delas faziam questão de ir para o front, lutar junto aos adultos. Ainda que por vezes fossem rejeitadas, pela idade e por seu tamanho, algumas não desistiam e, por fim, acabavam sendo aceitas e participando efetivamente junto aos soldados. Outras atuavam como auxiliares de profissionais de saúde nos postos e hospitais para tratamento de feridos de guerra. Percebe-se que havia nelas uma “formação nacionalista” do que seria “ser cidadão da nação”, e esse sentimento parece ter sido tão fortemente construído em algumas delas que, ao relatar, verbalizam ou deixam entender que, na época, não sentiram medo, não tiveram dúvida de seu dever de participar da guerra. Parece ter havido, naquela época, para aqueles sujeitos ainda com tão pouca idade, um “enquadramento de memória” (Pollak, 1989) em que o dever de cada sujeito estava acima do risco de morte eminente.

Ao pensar na infância como um período em que os sujeitos deveriam ser cuidados e protegidos por adultos, mereciam ter tempo para brincar, estudar e vivenciar momentos de lazer entre seus pares, pensar uma infância vivida na guerra, com crianças assumindo papel de adulto de modo aparentemente naturalizado, é certamente chocante para quem imagina, à distância, os fatos.

No geral, os relatos demonstram que todas as crianças, com “consciência nacionalista” ou não, viveram situações que ninguém, independentemente de idade, deveria viver. Elas viram as mais diversas crueldades. Viram seus pais serem fuzilados e jogados em valas, crianças serem queimadas ou fuziladas, adultos serem enterrados vivos, avós mortos, pessoas caídas cheias de marcas de tiros, comunidades inteiras sendo queimadas. Elas caminhavam entre mortos, entre tantas outras brutalidades. Eram crianças pequenas que foram afastadas de seus pais, que foram deixadas sozinhas ou, por vezes, tiveram de cuidar de seus irmãos, ainda menores, sem ter o que comer e beber, sem saber o que fazer, para onde ir e a quem recorrer. Sentiam tanta fome que a vegetação por onde passavam era devastada e dividida entre os sobreviventes como o único alimento. Na falta absoluta de comida, a água com cheiro do couro da cinta velha fervida virava sopa, e terra com leite derramado virava produto caro entre as terras vendidas como alimento. O medo era tanto que houve quem tenha ficado sem voz por mais de ano, ou quem tenha esquecido o próprio nome e a própria história. Foi um período em que os orfanatos passaram a ser a casa de muitas crianças, e poucos foram os que reencontraram os pais.

O cenário é o mesmo para todos os entrevistados, de modo que poderíamos falar de uma “memória coletiva” (Halbwachs, 2006), mas observa-se, pela variedade dos relatos e, principalmente, pelo sentido dado por cada um, que não há uma coesão, pelo menos não para todos. Há, aparentemente, dois grupos: aqueles que se percebiam como combatentes, que consideravam ter um dever a cumprir, faziam questão de cumpri-lo e se sentiam cidadãos ao ter sucesso, e aqueles que se viam como crianças que eram, perdendo seus portos seguros, sentindo medo, fome e dor. Todos seguiram uma trajetória infinita em busca de se reconstituir dentro de suas redes restritas de contato, ao longo de toda a vida. E suas lembranças, por serem opostas à memória nacional e provocarem desconforto, dor ou constrangimentos, ou ainda por buscarem preservar “os seus” de sofrimento, são marcadas pelos “não ditos”, por silêncios e por ressentimentos (Pollak, 1989).

É preciso entender que quem fala nesses relatos não são as crianças em si, que vivenciaram a guerra, mas os adultos que naquela época eram crianças e que hoje dão sentido àquele vivido com base em sua experiência da época e em sua trajetória de vida.

A leitura de As últimas testemunhas apresenta um período histórico-social extremamente dramático e cruel, que causou muito sofrimento e deixou marcas definitivas em muitas pessoas, mas esse quadro confirma, ao mesmo tempo, que memória, mesmo que seja influenciada, ao longo do tempo e por diversas formas, pelo meio social, continua sendo “um ato e uma arte pessoal de lembrar os acontecimentos” (Portelli, 1997), e somente ouvindo essas pessoas é possível ir montando o “mosaico” que é a história.

É preciso continuar ouvindo as memórias subterrâneas, como faz Svetlana, de modo a trazer à tona e manter viva a história que a história oficial gostaria de esquecer.

Referências

HALBWACHS, Maurice. A memória coletiva. Tradução: Beatriz Sidou. São Paulo: Centauro, 2006.

POLLAK, Michael. Memória e identidade social. Estudos históricos, Rio de Janeiro, v. 5, n. 10, p. 200-212, 1992.

POLLAK, Michael. Memória, esquecimento, silêncio. Estudos Históricos, Rio de Janeiro, v. 2, n. 3, p. 3-15, 1989.

PORTELLI, Alessandro. Tentando aprender um pouquinho: algumas reflexões sobre a ética na história oral. Projeto História, São Paulo, n. 15, p. 13-49, abr. 1997.

Dalânea Cristina Flôr – Universidade Federal de Santa Catarina (UFSC), Florianópolis, SC, Brasil. E-mail: [email protected]

Claricia Otto – Universidade Federal de Santa Catarina (UFSC), Florianópolis, SC, Brasil. E-mail: [email protected]

ALEKSIÉVITCH, Svetlana. As últimas testemunhas: crianças na Segunda Guerra Mundial. Tradução do russo: Cecília Rosas. São Paulo: Companhia das Letras, 2018. Resenha de: FLÔR, Dalânea Cristina; OTTO, Claricia. A escuta como forma de testemunhar o sofrimento vivido por crianças na Segunda Guerra Mundial. Revista História Hoje. São Paulo, v.8, n.16, p. 256-259, jul./dez. 2019. Acessar publicação original [DR]

SCHMIDT Maria Auxiliadora Moreira dos Santos (Aut), Didática reconstrutivista da história (T) CRV (E), PINA Max Lanio Martins (Res), SILVA Maria da Conceição (Res), Revista História Hoje (RHH), Didática Reconstrutiva da História, Ensino de História, Séc. 20-21, América – Brasil

O livro Didática Reconstrutivista da História da professora e historiadora Maria Auxiliadora Moreira dos Santos Schmidt, publicado em 2020 pela Editora CRV, sediada em Curitiba, é o que existe de mais recente como reflexão teórica e metodológica para o campo da Didática da História no país. A autora percorre o caminho realizado pela influência do pensamento intelectual alemão, da mesma maneira que ressalta o influxo das reflexões realizadas no contexto da linha de investigação da Educação Histórica ibérica (portuguesa) e anglo-saxônica, da qual faz parte, sendo a principal referência dessa área em solo brasileiro.

Maria Auxiliadora Schmidt, carinhosamente conhecida como “Dolinha” por seus pares, possui uma longa trajetória na educação brasileira, que começou no final dos anos de 1970. Foi professora da educação básica por vários anos na cidade de Curitiba, apropriadamente do Ensino Fundamental II, o que a possibilitou conhecer a realidade do ensino na escola pública no Brasil. Como docente da Universidade Federal do Paraná (UFPR), atuou na formação de professores e pesquisadores das áreas de História e Educação e colaborou, e até o momento colabora, com instituições acadêmicas brasileiras, europeias e ibero-americanas. Atualmente, a pesquisadora é professora titular aposentada e está vinculada ao Programa de Pós-Graduação em Educação (PPGE) e ao Laboratório de Pesquisa em Educação Histórica (LAPEDUH) da UFPR, tendo sido a fundadora deste.

O LAPEDUH transformou-se numa referência para o Ensino de História, e pode ser considerado o espaço que possibilita a professora Maria Auxiliadora Schmidt realizar suas pesquisas, bem como efetuar a orientação de alunos de mestrado, doutorado e pós-doutorado, com vistas ao desenvolvimento de investigações no campo da Educação Histórica, tendo como princípio o paradigma da aprendizagem histórica. A historiadora é presidente da Associação Iberoamericana de Pesquisadores da Educação Histórica (AIPEDH), mantendo vínculos com uma de rede de pesquisadores e intelectuais na Europa (Alemanha, Inglaterra, Portugal, Espanha e Itália), na América do Norte (Estados Unidos, Canadá e México) e na América do Sul (Chile, Colômbia e Argentina). A pesquisadora também é bolsista de produtividade em pesquisa 1B do Conselho Nacional de Pesquisa (CNPq), e, ainda, dispõe de vários artigos, livros e capítulos de livros publicados ao longo de sua carreira.

O livro Didática Reconstrutivista da História está divido em quatro capítulos, que possuem a finalidade de apresentar a trajetória intelectual da pesquisadora, assim como explicitar sua construção teórico-metodológica para o Ensino de História, que poderia ser chamada de novo paradigma para a aula de história. Sua perspectiva está focada na aprendizagem fundamentada na epistemologia da ciência de referência. A obra é produto de revisão da tese defendida pela autora em 2019, para progressão na sua carreira funcional no magistério superior como Professora Titular na UFPR.

A apresentação do livro ficou sob responsabilidade da pesquisadora Marlene Cainelli, professora da Universidade Estadual de Londrina (UEL), que procurou, no prefácio, responder qual a motivação, o sentido e as carências de orientação que conduziram a historiadora Maria Auxiliadora Schimdt a escrever a obra. Além dessas questões, Marlene Cainelli enfatiza que o exemplar é uma possibilidade de leitura inovadora sobre a natureza didática do conhecimento histórico, tendo em vista que recupera a proposta de um ensino de História denso, estruturado e fundamentado, principalmente, na ciência histórica.

A introdução da obra visa responder o porquê de uma Didática Reconstrutivista da História, que segundo a autora foi formulado por meio do debate existente na Filosofia da História, com vista à sua relação com a aprendizagem do passado, fugindo assim, das discussões do campo da ciência da Educação. Partindo do consenso de que a Didática da História é a ciência da aprendizagem histórica, a pesquisadora conceitua a Didática Reconstrutivista da História como uma adesão ao fato de que a aprendizagem e a cognição histórica precisam ser referenciadas na História, na intenção de estabelecer metodologias que privilegiem, durante a aula de História, a relação passado, presente e futuro como uma reconstrução que possibilite novas narrativas históricas.

O capítulo inicial apresenta a visão da autora sobre o conceito transposição didática do francês Yves Chevellard e como ele esteve presente no Ensino de História em suas variações e adaptações, que foram efetuadas por intelectuais no decorrer do século XX. Ainda nessa primeira parte da obra, a pesquisadora analisa o pensamento de intelectuais brasileiros que, desde o início do século XX, trouxeram contribuições metodológicas para o estabelecimento do Ensino de História, a começar pelo intelectual Jonathas Serrano e sua proposta de 1917, finalizando com a análise dos Parâmetros Curriculares Nacionais (PCNs) de 1998, editados pelo Ministério da Educação (MEC). Em oposição à ideia da transposição didática, Maria Auxiliadora Schmidt apresenta o conceito de cognição histórica situada. Nesse sentido, a autora intenciona demonstrar, por meio do desenvolvimento das pesquisas em Educação Histórica e sua relação com a Didática da História alemã, que a aprendizagem histórica está relacionada à adoção de uma metodologia de ensino vinculada à ciência de referência, na mobilização da consciência histórica e, sobretudo, nas influências da História pública, que necessita ser levada em consideração no espaço escolar.

O capítulo seguinte discute a aprendizagem como fundamento da Didática Reconstrutivista da História. A autora inicia questionando por que se deve aprender História, o que para ela não é uma resposta simples, dado que, conforme os intelectuais que são apropriados, as respostas serão múltiplas. Todavia, encarar esse fundamento coloca a questão elementar que é a reconstrução do passado na aula de História como ponto de partida, o que, de acordo com a pesquisadora, permite a adesão ao pressuposto da narrativa como forma e função da aprendizagem histórica. A reconstrução do passado é necessária à medida em que as carências de orientação individuais ou sociais se modificam e são transformadas em outras carências. Nesse caso, o passado precisa ser novamente interpretado e reinterpretado pela consciência histórica, para permitir a orientação temporal dos sujeitos. Por isso, existe a necessidade do aluno (criança e jovem) aprender a pensar historicamente. Isso não significa transformá-lo num pequeno historiador, mas permitir que alcance as mesmas categorias mentais que os historiadores atingem quando estão analisando o passado e produzindo historiografia. Sendo assim, a pesquisadora sugere que a aprendizagem histórica precisa começar e terminar na consciência histórica. Para ela, o conceito de literacia histórica, de autoria do historiador inglês Peter Lee, consegue responder bem, porque é através do aprender a pensar historicamente que as crianças e jovens absorvem as categorias da História e do sentido histórico.

No capítulo três, a historiadora apresenta como a formação do pensamento histórico é a finalidade de uma Didática Reconstrutivista da História. Ela acredita que a formação do pensamento histórico é um desafio para a aprendizagem histórica, visto que é necessário ocorrer por meio da apropriação da produção histórica de sentido. Isso ocorre quando a experiência do tempo é alcançada pela dimensão da interpretação do tempo. O indivíduo tem que saber lidar com a história individual e com a história coletiva, organizando sua vida dentro da estrutura do tempo, com a finalidade de orientar intencionalmente seu futuro. Nesse contexto, Maria Auxiliadora Schmidt defende que a aprendizagem histórica precisa acontecer a partir das carências de orientação dos indivíduos envolvidos nos processos de ensino e aprendizagem. Seria preciso, então, ocorrer uma mudança nos currículos de História no Brasil, visto que eles estão fechados dentro de uma visão quadripartite eurocêntrica do tempo e também estão a serviço dos interesses do Estado.

Outro ponto importante do capítulo três é o momento que, dialogando com os autores Peter Seixas, Carla Peck, Peter Lee e Jörn Rüsen, a autora propõe uma matriz para as competências do pensamento histórico. Essa matriz tem como objetivo principal servir de referência para o modo como opera a aprendizagem histórica, tendo em vista atingir uma das metas da Didática da História, que é construir a competência de atribuição de sentido pela narrativa histórica. As categorias apresentadas pela pesquisadora são as seguintes: argumentação, significância, evidência, mudança, empatia, interpretação, explicação, motivação, orientação e experiência (percepção). Todas essas categorias estão pensadas e fundamentadas no contexto da Filosofia da História germânica, ibérica e anglo-saxã. Para finalizar o capítulo, a autora ainda debate dois influentes pensadores, Jörn Rüsen e Paulo Freire, para demonstrar o humanismo como fundamento da Didática Reconstrutivista da História, indicando a necessidade de pautar o Ensino de História dentro dessa perspectiva, para contribuir com as formas básicas do processo de formação para a humanização.

No quarto e último capítulo, Maria Auxiliadora Schmidt apresenta sua proposta intitulada de Aula Histórica. Nela, demanda apresentar uma teoria e uma metodologia que estão pautadas na ideia de uma Didática Reconstrutivista da História, que foi amadurecida por meio de diálogo e reflexões com intelectuais europeus e canadenses. Há que ressaltar que o primeiro modelo tipológico de Matriz da Aula Histórica foi utilizado no ano de 2016, como referência das Diretrizes Curriculares para o Ensino de História da Rede Municipal de Ensino de Curitiba, no estado do Paraná. Inspirada na Aula Oficina da professora e pesquisadora portuguesa Isabel Barca, a autora buscou subsídios na Matriz da Didática da Educação Histórica de Peter Seixas, na Matriz da Didática da Educação Histórica de Stéphane Lévesque, na Matriz Disciplinar da História e também na Matriz da Didática da História de Jörn Rüsen, para elaborar tanto a primeira, quanto a segunda Matriz da Aula Histórica.

Em sua última matriz, Maria Auxiliadora Schmidt estrutura a aula de História na mesma perspectiva de Jörn Rüsen, quando aborda a relação tipológica entre a vida prática (embaixo) e a ciência (em cima) numa circunferência em que existem essas duas divisões. A novidade acrescida pela autora é o fato da vida prática estar subsidiada em categorias entre a Cultura Infantil e Juvenil e a Cultura da Escola. É a partir dessas categorias que são entrelaçados os conteúdos Memória, Patrimônio e História Controversa, que necessitam ser levados em conta em suas formas horizontal e vertical durante a aula de História. Percebe-se que a História Controversa ocupa um ponto importante nas reflexões da autora, que, citando o historiador e didaticista alemão Bodo von Borries, espera que os historiadores-professores possam continuar enfrentando todos os temas difíceis, controversos e desconfortáveis da História.

Seguindo as introduções realizadas pela pesquisadora na sua segunda matriz, observa-se também que, no campo superior da circunferência, precisamente onde está representada a ciência, encontram-se articuladas a Cultura Histórica e a Cultura Escolar. É nesse campo que a metódica da Ciência Histórica necessita ser considerada, para que ocorra a reconstrução do passado na Aula Histórica. No centro da Matriz proposta para uma Didática Reconstrutivista da História encontra-se a categoria sentido, em específico a atribuição de sentido pela narrativa histórica. Neste ponto, percebe-se que a proposta articulada pela pesquisadora leva em consideração que historiadores-professores necessitam articular todos os elementos categoriais da Matriz, não para realizar uma transposição didática dos conteúdos acadêmicos de História, mas para atuarem a partir da reconstrução do passado pela perspectiva do método histórico.

Para finalizar seu último capítulo, a historiadora discute um tema polêmico, porém necessário, a ser enfrentado, posto que dicotomizou a práxis na História, colocando-se de um lado o historiador (aquele que pesquisa) e do outro, o professor (aquele que ensina). Por meio de um processo histórico longo que estabeleceu essa separação, a situação precisa ser superada, tendo em vista o avanço da pedagogia das competências no Ensino de História, que elimina a atribuição de sentido do pensamento histórico na vida prática como orientação temporal dos sujeitos no tempo presente. Assim, a pesquisadora afirma sem titubear, que o historiador que pesquisa é também um professor, e o professor que ensina é também um historiador, encontrando dessa maneira o elo que justifica sua Didática Reconstrutivista da História.

O livro Didática Reconstrutivista da História é, sem dúvida, um marco conceitual que visa à construção de uma teoria e uma metodologia para o Ensino de História no Brasil. Assegura-se que a obra é uma robusta reflexão intelectual, construída ao longo de anos de experiência, com a finalidade de propor, a partir dos reais problemas que são enfrentados por milhares de professores no chão da sala de aula, uma teoria do ensino e da aprendizagem histórica fundamentada na ciência de referência, valorizando principalmente a função do historiador-professor-pesquisador.

Max Lanio Martins Pina – Universidade Estadual de Goiás (UEG), Porangatu, GO, Brasil. E-mail: [email protected]

Maria da Conceição Silva – Universidade Federal de Goiás (UFG), Goiânia, GO, Brasil. E-mail: [email protected]

SCHMIDT, Maria Auxiliadora Moreira dos Santos. Didática reconstrutivista da história. Curitiba: CRV, 2020. Resenha de: PINA, Max Lanio Martins; SILVA, Maria da Conceição. A Didática Reconstrutivista da História: uma proposta teórica e metodológica para o Ensino de História. Revista História Hoje. São Paulo, v.9, n.17, p. 228-233, jan./jun. 2020. Acessar publicação original [DR]

Aleijadinho e o aeroplano: o paraíso barroco e a construção do herói nacional – GRAMMONT (Bo)

GRAMMONT, G. Aleijadinho e o aeroplano: o paraíso barroco e a construção do herói nacional. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, 2008. Resenha de: GARNICA, Antonio Vincente Marafioti. Da Historiografia: campos, mitos, biografias. Bolema, Rio Claro, n. 34, p. 283-294, 2009.

“Toda vida narrada, biográfica ou auto-biográfica, é sempre habitada por uma dupla tentação: transformar os acasos e imprevistos de uma existência numa implacável necessidade; sustentar, com irredutível singularidade, o que foi um destino fragmentário.” (Roger Chartier)

“It ain’t necessarily so

It ain’t necessarily so

De things dat yo’ liable to read in de Bible

It ain’t necessarily so

/…/

Dey tell all you chillun de debble’s a villain But ‘taint necessarily so.”

(Gershwin)

Na apresentação ao recente livro de Guiomar de Grammont – sua tese de doutorado em Literatura Brasileira defendida na Universidade de São Paulo em 2002 – Roger Chartier sensatamente avalia o trabalho como uma demonstração de que “é possível escrever a história sem ficar prisioneiro de fórmulas herdadas”. O tema, bem como o esboço de cada um dos cinco capítulos, vem explicitado na Introdução da autora: “Esta não é a história de um personagem. É a história de uma imagem que se desdobra em outra e outra”. Trata-se, portanto, não de apresentar Antônio Francisco Lisboa, o Aleijadinho, e suas obras, mas de descortinar a trajetória que alçou o personagem à condição emblemática de mito, herói nacional, genial expressão do espírito barroco. Os mitos e heróis são predestinados a serem e fazerem aquilo que se deseja que sejam e façam, sendo suas existências atestadas, grande parte das vezes, à revelia de documentação que as sustente. Uma vasta busca em arquivos e uma cautelosa análise das referências bibliográficas fundadoras da mitificação permite à autora afirmar que a história do Aleijadinho (e de sua obra), “reconstituída, na medida do possível, apenas a partir dos dados que se encontram nos documentos, resulta prosaica e comum, muito menos espetacular do que se supunha. Como costuma ser, aliás, a maior parte das vidas humanas.” O tom configurador desse mito barroco é inaugurado pelo texto de Rodrigo José Ferreira Bretas1, obra meticulosamente analisada pela autora.

Fundado em 1838 e tendo como patrono o imperador Pedro II, o Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro (IHGB) esforça-se para iniciar uma historiografia nacional, da qual necessariamente faria parte o resgate de personagens, localidades e eventos que, em seu conjunto, definiriam “a” identidade nacional. O IHGB, com a intenção enunciada de apropriar-se do passado como fonte de experiência que visasse a uma sustentação para o futuro da Nação, praticava uma história teleológica, não só “conferindo ao historiador um papel central na condução desse fim último, que seria o patriotismo, o amor pelas instituições monárquicas e o sentimento religioso” como também, nas palavras de Lilia Schwarcz, “nas mãos de uma forte oligarquia local, associada a um monarca ilustrado, o IHGB se autorepresentará, nos certames internos e externos, enquanto uma fala oficial em meio a outros discursos apenas parciais”. Nesse cenário não é estranha a criação de um prêmio, em 1842, aos melhores trabalhos estatísticos e históricos sobre as províncias brasileiras. Particularmente interessantes seriam as notas biográficas sobre nossas “celebridades”, das quais surgiria um panteon de heróis nacionais. Tendo ou não sido escrita com a intenção específica de permitir a Bretas o ingresso no IHGB, o certo é que a obra sobre o Aleijadinho abre a ele as portas do Instituto, do qual passa a fazer parte como sócio-correspondente.

A obra de Bretas cria o Aleijadinho e torna-se não um texto a ser lido segundo a perspectiva da ficção – como são os retratos biográficos encomiásticos – mas como uma síntese documental encorpada com fontes orais e, portanto, a descrição de um conjunto de “fatos reais”. E “o retrato realizado por Bretas não apenas servirá à invenção romântica do artista como monstruoso gênio que a doença teria tornado taciturno e solitário, mas também provocará leituras da obra do monstro como retrato expressivo da sua personalidade atormentada. /…/ Na urgência de destacar um personagem da massa anônima dos artesãos coloniais, já não se sabe quem é autor, quem é obra”. O Aleijadinho de Bretas carrega a pesada cruz dos heróis, cujos destinos são sempre acompanhados de provação e dor. O sofrimento é condição essencial para que os consumidores de mitos reconheçam, nesses heróis, sua própria finitude e com eles sejam solidários, tornando-se co-criadores e perpetuadores dos heróis, apropriando-se inclusive de sua redenção e vitória sobre o mal. “Em Bretas”, afirma a autora, “já se inicia a associação entre o artista sofrido, martirizado (como Cristo, naturalmente) e a idéia, germinal, de nação. Aleijadinho e a nacionalidade brasileira nascem juntos na mesma manjedoura, ou seja, envoltos pela força da Igreja, força que atravessou, incólume, um século XIX de transição para a República, marcado por conflitos sangrentos, mas setorizados. Aleijadinho chega quase a tornar-se um mártir a serviço da pátria: ‘jazeu por quase dois anos, tendo um dos lados horrivelmente chagado, aquele que por suas obras de artista distinto tanto havia honrado a sua pátria!´.”

Embora a documentação existente não dê garantias sobre a paternidade do Aleijadinho, Bretas a atribui a Manuel Francisco Lisboa, artesão branco e relativamente reverenciado nas Minas dos Oitocentos: “Na sociedade rigidamente hierarquizada de então, o ‘homem bom’ é aquele que tem um bom nascimento. O filho de um homem sábio e honrado será necessariamente sábio e respeitado2. Além disso, note-se que, ao fazê-lo, Bretas dá a seu personagem uma origem branca, que o dignifica, mesmo no século XIX, quando, supõe-se, essas clivagens raciais fossem um pouco mais tênues do que no século anterior”.

Também os viajantes, interessados em explorar a exótica terra brasilis e descrevê-la a seus conterrâneos, criam uma imagem da arte mineira e, por conseguinte, operam no sentido de atribuir uma identidade ao Brasil frente ao mundo civilizado que representam. Essa visão estrangeira será por vezes negada e por vezes servirá de fundamentação aos modernistas, nas primeiras décadas do século XX, ainda que sustentando discursos em sentidos distintos: “No discurso dos viajantes do século XIX, como Saint-Hilaire, Burton, Eschwege e outros, observamos sempre a comparação implícita com manifestações artísticas e monumentos europeus, para fornecer imagens verossímeis, que possam aproximar mais da visão de seus leitores aquilo que descrevem. A comparação, contudo, sempre é efetuada segundo um padrão de inferioridade da colônia americana em relação à Europa /…/. No discurso modernista, o movimento é contrário: a ordem é revalorizar a arte local para integrá-la no vasto programa de ‘redescoberta’ das raízes da arte brasileira, enfatizando aspectos como a miscigenação racial e cultural, projeto no qual foi integrado o mito do Aleijadinho. O que chamamos de ‘redescoberta’, contudo, em nossa perspectiva, significou, efetivamente, a invenção de um país que é o Brasil modernista, baseado na invenção das raízes culturais. O barroco teria um papel fundamental na constituição dessas ‘raízes’.”

Para o viajante estrangeiro, as artesanias nacionais sempre foram arremedos da alta arte praticada nos países “centrais” dos quais provinham; interessava-lhes mais a fauna e a flora exóticas e as possibilidades que elas abriam ao desenvolvimento das ciências européias. Os relatos dos viajantes, entretanto, convém notar – como ressalta a própria autora – “costumam ser utilizados como fontes históricas ‘primárias’, capazes de fornecer informações de ‘primeira mão’ sobre os acontecimentos. Raramente essas obras são analisadas como ficção literária em si mesmas /…/. Não são apenas ‘fontes históricas’, mas fontes privilegiadas, em acordo com o pressuposto positivista de que a distância conferiria certa ‘imparcialidade’ ao olhar.” O modernismo, ao contrário, tenderá a valorizar as produções nacionais, ávido por repensar nossa identidade. O projeto de constituição dessa identidade, entretanto, afasta-se daquele anteriormente praticado pelo IHGB que era, ao mesmo tempo, uma continuidade da tradição ilustrada já iniciada no século XVIII e uma alteração quanto aos seus objetivos: no século XIX, o IHGB “tinha o objetivo completamente novo de produzir uma reflexão sistemática sobre os problemas da nação e do Estado emergentes, como um projeto civilizatório de uma elite, uma vez que /…/ a maior parte de seus membros pertencia aos aparelhos burocráticos e administrativos da hierarquia dominante no Império.” Apostando na construção da idéia de Nação num momento em que a escravidão ainda existia e parametrizado por uma visão de História apoiada na noção de progresso, não caberia identificar a cultura nacional a uma arte produzida por mulatos e indivíduos situados em escalas sociais inferiores (daí a necessidade, em Bretas, de “clarear” Antônio Francisco Lisboa e aproximá-lo da casta mais nobre, atribuindo-lhe um pai branco e até certo ponto endinheirado). Os “mitógrafos do império” tenderão, de forma mais ou menos clara, mais ou menos explícita, a desvalorizar a arte barroca ou jesuítica. No Modernismo, ao contrário, a intenção de repensar a identidade nacional não teme a aproximação com a discussão sobre a identidade racial: torna-se visceral a idéia da pluralidade étnica e, conseqüentemente, passam a ser valorizadas as contribuições dadas pela mistura de raças diferentes, ainda que as relações entre o Modernismo (leia-se Mário de Andrade) e o Estado Novo (leia-se Gustavo Capanema) não tenham sido totalmente cordiais principalmente devido ao desacordo quanto a essa questão das etnias raciais3. Do modernismo surge o Aleijadinho mulato genial, representante de uma artesania emblemática que simbolizaria a riqueza e a originalidade da arte brasileira, expressão mesmo da “alma nacional”.

Se os três primeiros capítulos do livro de Guiomar de Grammont voltam-se mais à biografia (lacunar) e à constituição do mito do artista genial a partir dessas caracterizações biográficas e interesses diversos, o capítulo quarto inicia uma discussão mais pormenorizada sobre a produção do Aleijadinho que, se já havia sido evocada nos capítulos anteriores – dada a vinculação sempre estabelecida entre autor e obra – começa então a ser tratada com mais detalhamento. O pressuposto da autora, enunciado já no primeiro parágrafo do capítulo, é o de que técnicos e historiadores da arte, via-de regra, operam “sem questionar a historicidade das categorias nas quais se baseiam para construir seus objetos. Fundamentando-se em pressupostos como ‘estilo’, ‘autoria’, ‘diretos autorais’ etc., os críticos costumam analisar obras de tempos e lugares diferentes do seu, aplicando, anacronicamente, categorias de análise contemporâneas.”

A noção de autoria – cujas origens Foucault supõe radicadas no final do século XVIII e início do século XX e que Chartier, preenchendo as lacunas cronológicas deixadas por Foucault, fixa no começo do século XVIII – pressupõe a construção de um autor que, de alguma forma, teria a prerrogativa de propriedade em relação a sua obra. Ainda que atualmente a idéia de autoria – em vários campos, mas principalmente no da arte, onde autoria está diretamente vinculada à questão financeira – nos seja usual, ela só é consolidada no século XVIII, embora tenha começado a desenhar-se na idade média (“com o revivescimento das cidades [e] a conseqüente formação das corporações de ofícios”) e fortalecida durante o Renascimento. Certamente a autoria encontra ressonância e tem sua importância maximizada num mundo que transforma tudo em mercadoria. Os ateliers mineiros do século XVIII, entretanto, funcionavam como uma coletividade produtora de obras cuja execução era “arrematada” em leilões pelos mestres desses núcleos que congregavam os mais distintos artesãos. Dessa feita, os mestres coloniais seriam bons negociantes, mas não necessariamente os artistas mais hábeis de sua corporação. Sem ater-se a esses “pormenores”, a atribuição de obras ao Aleijadinho passou a ser feita a partir de um suposto “estilo próprio”, categoria bastante interessante ao ideal onipresente de destacar, dentre a multidão de artífices mineiros, os criadores originais e, dentre eles, o genial criador dentre os criadores. Do estilo Aleijadinho, segundo os críticos, destacam-se, “além dos polegares na mesma posição dos outros dedos, /…/ os olhos amendoados, o furo no queixo, o nariz afilado com as ventas bem marcadas, as maçãs salientes do rosto; os bigodes e a barba bem delineados, apontando para baixo, barba partida no queixo /…/ etc.” O estilo é a norma a partir da qual todo o resto é definido como mesmice e vulgaridade. A discussão sobre os parâmetros que dariam conta da autenticidade da obra, assentados em princípios anacrônicos, despreza tanto as lacunas documentais relativas às obras quanto despreza as condições reais de produção à época: “em um tempo em que a locomoção de uma cidade a outra não era nada fácil, Aleijadinho teria trabalhado em cerca de trinta igrejas em diversas cidades de Minas, e realizado um número incalculável de pequenas imagens, oratórios, castiçais etc. Quantos artífices anônimos não se ocultam sob a sombra desse mito?”.

Junto aos critérios de autoria e estilo surge, para os historiadores da arte, a difícil questão da originalidade. Estudos sobre Manoel da Costa Ataíde mostram claramente que a originalidade não era um critério a nortear os trabalhos dos artífices coloniais. Há evidências eloqüentes quanto à existência de modelos prévios, gravuras e desenhos comercializados e/ou disponíveis em bíblias e outras obras. A originalidade do Aleijadinho – defendida chamando à cena seu autodidatismo, suas limitações físicas, a enorme produção em um período de tempo tão exíguo – sempre foi uma prova de sua genialidade. Há que se considerar, entretanto, que não há prática – artística ou qualquer que seja – genuinamente autóctone, e as evidências face às cópias e emulações naturais à artesania colonial levaram a uma redefinição no conceito de originalidade de modo a perpetuar mitos de genialidade artística: aos originais, o artista genuinamente genial agrega características próprias, que definem a arte nacional frente aos modelos importados. As igrejas de Aleijadinho, por exemplo, seriam “borromínicas”, mas sua apropriação do estilo seria nova e consistiria em algo totalmente diferenciado.

“Em sua definição contemporânea” – afirma Chartier logo na apresentação do livro – “a obra [de arte] supõe a originalidade da expressão, fortes relações entre as experiências do artista e suas criações e a inalterável propriedade do criador sobre os produtos de sua imaginação. É sobre tais categorias que, a partir do século XIX, foram escritas as histórias da literatura, da pintura e da escultura”. Aplicadas anacronicamente à produção artística de um escultor (ou de vários escultores) mineiro do século XVIII, esses postulados vão se conformando para sustentar a genialidade de um personagem intencionalmente constituído para louvar a nação e provê-la com uma identidade. Na confluência desses fatores tantos surge um Aleijadinho inventado a partir de documentos que, ao mesmo tempo, servem para diferentes fins, “na medida em que se imponha a eles a interpretação desejada”. Constrói-se, pois, o Aleijadinho, e tal construção – alerta Chartier – atua como um silogismo: “Aleijadinho é o escultor barroco por excelência; o barroco é a expressão mais completa da identidade brasileira; portanto, o barroco é a nação brasileira em sua essência e Aleijadinho seu profeta, reconhecido como tal pelo Estado e suas instituições. Guiomar de Grammont retira (como se diz em relação à restauração de um quadro) as diferentes camadas de verniz depositadas sobre o traço histórico do Aleijadinho”.

O que justifica, entretanto, uma resenha deste trabalho, elaborado em searas aparentemente tão distantes, num Boletim de Educação Matemática?

A aproximação de outros campos de produção cultural e acadêmica – temos defendido – é vital para repensarmos nossas próprias práticas e, num processo de apropriação criativa, dão novo fôlego e permitem a configuração de novos rumos às nossas investigações. Assim, alguns elementos claramente perceptíveis no livro de Grammont podem, sim, servir de guia principalmente aos que atualmente exercitam-se na interface entre História, Matemática e Educação Matemática.

Como primeira contribuição, aponta-se a clareza com que a autora – e o prefácio de João Adolfo Hansen, orientador da pesquisa que originou o livro – explicita a posição do IHGB que, como sabemos, é uma das matrizes – se não a matriz – da historiografia nacional e, especificamente, da historiografia da Educação. Não parece ser vão entender os mecanismos de favores e interesses que sustentavam o projeto historiográfico elitista e teleológico do Instituto, afinando-o como um aparelho ideológico cuja função precípua era inventar a nacionalidade de modo a propagar os valores imperiais. São, essas, algumas das raízes do nosso modo de conceber e produzir História, e aliar-se ou afastar-se dessas intenções talvez seja uma opção mais adequadamente feita ao se analisar versões sobre suas “origens”. Note-se, entretanto, que nem todas essas versões sobre o IHGB são tão radicais. A reportagem “Os inventores do Brasil”, de Lorenzo Aldé, publicado na Revista de História da Biblioteca Nacional em comemoração ao aniversário de 170 anos do IHGB, relativiza a situação do Instituto e seus sócios em relação à tutela do Império: “D. Pedro II foi assíduo freqüentador dos debates. O fato de ter o imperador como patrono e mecenas costuma render à instituição o rótulo de ‘chapa branca’. Embora não haja dúvidas sobre o monarquismo do IHGB no século XIX, essa impressão soa anacrônica, segundo Lúcia Guimarães: ‘Era um espaço de contraposição de interpretações. As idéias eram debatidas, não impostas. A versão sobre a independência que se consolidou nos livros didáticos tinha opositores no Instituto. Varnhagen combatia a idéia de que o episódio tinha sido fruto da vontade de José Bonifácio, D. Pedro I e do povo’ /…/. Ou seja, a idéia de ´chapa branca´ faz sentido atualmente, mas não é adequada para se pensar um tempo em que os contornos do Brasil mal existiam. Literalmente falando. Em 1841, convocado ao Parlamento para expor informações sobre os limites do país, o Ministro dos Negócios Estrangeiros, Aureliano de Souza Coutinho, teve que confessar que…não sabia. Quando D. João voltou para Portugal, em 1821, levou com ele os mapas originais.”

Nas práticas do IHGB ficam claras as intenções quanto à construção de um panteon nacional de heróis a partir de biografias. O fascínio pelas biografias, entre alguns, perdura até hoje, e por vezes a elaboração de descrições de personagens e situações “como realmente ocorreram” confunde-se com a própria função da historiografia. Dos livros didáticos (inclusive dos de Matemática) provêm grandes contribuições para a divulgação dessa concepção distorcida de história. A “ilusão biográfica”, expressão cunhada por Bourdieu, nos dá “a ilusória unidade de uma identidade específica, aparentemente sem contradições, mas que não passa de uma máscara sob a qual se oculta uma miríade de fragmentos e versões. A utopia biográfica”, continua Grammont, “é a ilusão de que a narrativa pode reconstituir autenticamente um destino”. Esforços contemporâneos, portanto, têm a intenção de “desnudar essa utopia, de desconstruir – a contrapelo – uma história tornada verdade pela repetição e por sua adequação aos diversos interesses de momentos específicos da historiografia brasileira”. O desnudamento da utopia, porém, implica trazê-la à cena: por que as verdades fabricadas deveriam ser rechaçadas, postas à margem do histórico? Não somos também as verdades que nos impomos e segundo as quais pretendemos ou quereríamos viver? Qual o problema em aceitar o relato de uma vida que se faz relato exatamente para que o passado seja purgado, para que o presente seja mais aceitável? Tal relato não nos diz tanto quanto o relato que o nega? E ainda que alguma checagem fosse feita, ainda que alguma divergência nos surgisse no processo mesmo sem checagem alguma, não seria mais produtivo indagar-se por que essa divergência? O que ela nos ensina sobre o sujeito, sobre suas verdades, sobre seu tempo e seu modo de constituição do mundo? Recentemente numa revista nacional de grande circulação debatia-se, na seção de cartas dos leitores, sobre a autoria da conhecida frase “O Brasil não é um país sério”. Foi Charles De Gaulle, afirmam alguns. Foi Celso Vieira, embaixador brasileiro na França, rebatem outros. Foi um assessor de De Gaulle? Foi Carlos Alves de Souza, embaixador em Paris? Perguntaríamos: o que faz com que o eco dessa frase ressoe tão significativamente até hoje? Por que esse fascínio com uma autoria? O que esse fascínio nos revelaria? Que percepção de país a frase nos permite vislumbrar? Na História da Matemática, Gauss realmente determinou com presteza, quando ainda criança, a soma dos cem primeiros naturais? Como saber? Como garantir a isenção dos biógrafos de Gauss? Por que essas perguntas afetam de modo tão inclemente os historiadores da Matemática? Não seria mais operativo perguntar-se que tipo de concepção essa afirmação – e sua trajetória pelos tempos – desvela? Qual Gauss esse registro permite construir? Qual Gauss esse registro quer construir? Obviamente, na esteira de uma história-problema, não se negam as questões: afirma-se a necessidade de analisá-las sob diferentes perspectivas.

Ademais, a criação de mitos e heróis para defender posições e construir verdades “compartilhadas” não é nova, não foi inventada pelo IHGB, nem termina com o Império.

Joaquim José da Silva Xavier – apelidado Tiradentes pela habilidade em arrancar dentes sem ter formação específica para isso – é um dos maiores heróis nacionais, tido como mártir do movimento que levou o Brasil à independência de Portugal. Tiradentes foi enforcado no Rio de Janeiro em 21 de abril de 1792. Tanto sua biografia quanto os traços de seu caráter são incertos, vagamente registrados: de Tiradentes não conhecemos um esboço fisionômico confiável, nem podemos decidir se foi um consistente revolucionário ou apenas uma personagem útil às causas da República implantada no país em 1889. Dentre tantos revolucionários de biografia mais documentada, com configuração de caráter e fisionomias menos lacunares, foi Tiradentes o escolhido a representar o sucesso da causa republicana: tão logo proclamada a República, já o dia 21 de Abril de 1890 foi feriado. O regime militar, em 1965, declarou Tiradentes “Patrono da Nação Brasileira”.

Os espaços em branco no registro de sua trajetória permitiam que ele fosse visto por uns como o defensor dos valores que os militares pretendiam representar e, por outros, como um revolucionário contrário aos valores defendidos pelos militares. Sobretudo, agradava à população a fusão de dois aspectos – o Tiradentes herói defensor da Pátria e o Tiradentes ícone religioso que, como um quase-Cristo protagonizou uma paixão, percorrendo seu calvário. Mas, principalmente – e este é o traço que pretendemos realçar – Tiradentes havia nascido no estado de Minas Gerais. Ao contrário de outros estados brasileiros onde viveram grandes revolucionários, defensores das causas da Pátria, Minas Gerais constituiria, já em meados do século XIX, com os Estados de São Paulo e Rio de Janeiro, o centro político do país.

IHGB, Modernismo, Império, República, Tiradentes, Aleijadinho… em tantas alterações, quantas permanências. Face a essas observações, mantemos (e defendemos como legítima) a posição de que se escreve história a partir da detecção e análise dos mecanismos – ora contrários, ora complementares – que sustentam alterações e permanências, de que é possível escapar à sina de escrever História a partir de estratégias consagradas – muitas vezes pelo senso comum –, apostando na história-problema, querendo com isso significar que “a história não deveria ser propriamente vista como uma ciência do passado, mas como uma disciplina que procuraria estabelecer um  ‘diálogo do presente com o passado, e no qual o presente tomaria e conservaria a iniciativa’”, como aponta Miguel. Essa não é, definitivamente, uma posição hegemônica dentre aqueles que, em Educação Matemática, se inscrevem na região cujas preocupações orbitam no binômio História – Educação Matemática. Dentre as tantas justificativas possíveis, essa talvez seja a que mais eloqüentemente indique a pertinência da leitura, entre nós, educadores matemáticos, do livro de Guiomar de Grammont.

Notas:  

1 Traços biográficos relativos ao finado Antônio Francisco Lisboa (o Aleijadinho), publicado no Correio Oficial de Minas em 1858.

2 Segundo a autora, o postulado de que os filhos se assemelham a seus pais está radicado na noção de genus, da retórica de Quintiliano que Bretas – especialista em retórica – certamente conhecia.

3 Segundo Guiomar de Grammont, o projeto do governo Vargas propunha a erradicação das raças, ao contrário do Modernismo que defendia a integração e louvava a miscigenação: “Houve, então, um prepotente esforço do governo nacionalista de criar as bases de um novo conceito de nacionalidade por meio da educação, da cultura e de versões oficiais da história, visando, pela unificação da língua e padronização do ensino, à ‘erradicação das minorias étnicas, lingüísticas e culturais’ em todos os níveis.”

Referências

ALDE, L. Os inventores do Brasil. Revista de História da Biblioteca Nacional. Ano 4, n. 39. Rio de Janeiro: Sociedade de Amigos da Biblioteca Nacional, pp. 56-61. Dez./ 2008.

CARVALHO, J. M. de. A Formação das Almas: o imaginário da república no Brasil. São Paulo: Companhia das Letras, 1990.

GRAMMONT, G. Aleijadinho e o aeroplano: o paraíso barroco e a construção do herói nacional. Rio de Janeiro: Civilização Brasileira, 2008.

HORTA, J.S.B. O hino, o sermão e a ordem do dia: a educação no Brasil (1930-1945). Rio de Janeiro: Editora da UFRJ, 1994.

NEMER, J.A. A mão devota: santeiros populares das Minas Gerais nos séculos 18 e 19. Rio de Janeiro: Editora Bem-Te-Vi, 2008.

VIDAL, D.G., A escrita da História da Educação e seus múltiplos olhares In: SEMINÁRIO NACIONAL DE HISTÓRIA DA MATEMÁTICA.PACHECO, n. 7, 2007, Guarapuava. Anais… Guarapuava: SBHMat, 2007. p. 97-108.

Antonio Vicente Marafioti Garnica.

Acessar publicação original

[P…]

Debaixo da imediata proteção de Sua Majestade Imperial: o Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro (1838-1889) | Lucia Maria Paschoal Guimarães

GUIMARÃES, Lucia Maria Paschoal.  Debaixo da imediata proteção de Sua Majestade Imperial: o Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro (1838-1889).  Rio de Janeiro: Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro, 1997. Resenha de: MOREL, Marco. Revista Maracanan. Rio de Janeiro, v.1, n.1, p.137-138, 1999.

Acesso apenas pelo link original [DR]

IHGB | IHGB | 1839

Revista do Instituto Brasileiro IHGB

Circulando regularmente desde 1839, a Revista do Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro (Rio de Janeiro, 1839) é uma das mais longevas publicações especializadas do mundo ocidental. Destina-se a divulgar a produção do corpo social do Instituto, bem como contribuições de historiadores, geógrafos, antropólogos, sociólogos, arquitetos, etnólogos, arqueólogos, museólogos e documentalistas de um modo geral.

Periodicidade trimestral.

Acesso livre

ISSN 0101 – 4366 (Impresso)

ISSN 2526-1347 (Online)

Acesse resenhas [Coletar 1960-2000]

Acessar dossiês

Acessar sumários

Acessar arquivos